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OMELIE anno 2013

 

Santa Maria Assunta alla Badia Fiorentina

 

 

 

Domenica 29 dicembre 2013 – Santa famiglia - fr. Giovanni Battista FMJ


 

Ancora immersi nella luce del Natale oggi la nostra attenzione non si allontana da Gesù Bambino, il figlio che ci è stato donato, ma si allarga sulla dimensione comunitaria, la prima comunità che accoglie Gesù, che è appunto quella piccola comunità formata dalla sua mamma e dal suo papà. Il Dio con noi è con noi anche in questo: nel voler nascere e crescere in una famiglia umana, e così, come aveva consacrato e benedetto il grembo di Maria con la sua presenza in lei, oggi possiamo dire che la presenza di Gesù in seno alla sua famiglia, consacra, benedice la famiglia, questa famiglia, ma anche la famiglia in sé, la famiglia come istituzione, come luogo speciale e insostituibile, tanto prezioso quanto delicato, in cui la vita umana nasce, cresce e vive la sua fecondità più autentica.

 

Allora oggi vogliamo guardare con particolare attenzione e anche con particolare affetto e devozione alla famiglia di Nazareth che la Chiesa presenta alla nostra preghiera e riflessione. Non tanto per farne un bel quadretto, ma per accoglierla, come abbiamo pregato nella colletta, come modello di vita, perché anche nelle nostre famiglie fioriscano le stesse virtù. Il vangelo stesso di oggi ci impedisce di fare della santa famiglia un bel quadretto vista la situazione drammatica che Maria e Giuseppe stanno vivendo, di famiglia sradicata, profuga, minacciata e forse proprio per questo ancora più unita a Dio e tra di loro. Ma andiamo per gradi.

 

Una prima cosa di cui ci accorgiamo guardando alla famiglia di Gesù è che non è messa insieme a caso, nessuno è lì per propria iniziativa o per pura affinità reciproca; c’era sicuramente anche questo tra Maria e Giuseppe, ma anzitutto Maria e Giuseppe sono dei chiamati, scelti da Dio. La famiglia è una comunità di chiamati, è il Signore che la raduna, che la convoca, che da la vita, ed è anche per questo che la famiglia è definibile come chiesa domestica. Certo ci saranno fattori umani e personalissimi che uniscono un uomo e una donna in matrimonio, ma in una prospettiva cristiana, non possiamo fermarci qui e non vedere, dietro tutto questo, la mano di Dio che chiama, sceglie, unisce, e possiamo anche dire, crea, genera una famiglia.

 

Se è vero questo è vera anche un’altra cosa: se la famiglia di Nazareth, ma anche ogni famiglia, sono una comunità di chiamati, allora significa che l’essere mamma e l’essere papà, come anche l’essere figli, non è solo qualcosa di naturale, carnale, qualcosa legato al sangue o all’anagrafe, ma è una vocazione. C’è una vocazione ad essere mamma, c’è una vocazione ad essere papà, c’è una vocazione ad essere figlio, vocazioni che vanno insieme, sono contemporanee, vanno di pari passo, non solo perché la mamma e il papà non sono tali finché non hanno figli e i figli non nascono se non ci sono dei genitori, ma anche perché si tratta di vocazioni che nascono insieme e si plasmano insieme. Pensiamo quanto Gesù, al di là che sia il Figlio di Dio, ma semplicemente come bambino, abbia contribuito alla crescita, alla maturazione di Maria e Giuseppe in quanto donna, uomo, mamma e papà. Guardando alla famiglia in generale si potrebbe dire che sono proprio i figli che rendono adulti i genitori; sono proprio i figli che obbligano i genitori ad essere un uomo e una donna maturi, proprio perché devono prendersi cura di loro e si sentono responsabili di custodire e aiutare il dono che hanno ricevuto da Dio. (cfr. Card Martini, Compleanni in famiglia, Centro ambrosiano). D’altro canto, è vero anche il contrario: sono proprio i genitori a rendere uomo il loro bambino, non solo perché lo generano fisicamente, ma anche perché sono i primi, e spesso i più influenti, modelli di vita che gli consegnano un modo di vivere in questo mondo. Pensiamo a quanto la paternità di Giuseppe abbia giocato nel rapporto di Gesù con il suo Padre celeste. Ecco, nella famiglia, risalta al massimo grado quella realtà, vera anche in altri contesti, di essere davvero gli uni per gli altri: o si cresce tutti o non cresce nessuno. Nessuno nella famiglia può vivere per se stesso, ma tutti ci si aiuta a crescere, a vivere, ad essere veri uomini, ad amare.

 

Da qui viene dunque una missione speciale della famiglia; la famiglia chiamata è anche famiglia inviata, un invio anzitutto al suo interno: è ciò su cui insiste san Paolo nella seconda lettura: mogli siate sottomessi ai mariti, mariti amate le vostre mogli (che è un modo diverso di dire ‘siate anche voi sottomessi a loro’, perché l’amore vero, totale, ed esclusivo come quello di due sposi, include una sottomissione reciproca), figli obbedite ai genitori, padri non esasperateli (cioè fatevi obbedire ma obbedite un po’ anche voi a loro, cioè a come sono fatti, ai loro tempi di maturazione, ai loro modi di pensare diversi da quelli di quando eravate giovani voi, modi di pensare che vanno sì educati e purificati ma non sradicati). Al di sopra di tutte queste cose rivestitevi della carità che le unisce in modo perfetto. Siete stati chiamati alla pace di Cristo. Ciascuno ha qualcosa da dare e qualcosa da ricevere dall’altro e per questo si vive in reciproca gratitudine e umiltà, ciascuno al suo posto. Come ha voluto vivere anche Gesù con Maria e Giuseppe stando loro sottomesso come loro erano sottomessi e obbedienti in tutto alla responsabilità enorme, immensa, che Dio affidava loro con questo loro figlio.

 

Ma la famiglia è inviata anche al mondo, di cui essa stessa è parte, un mondo che talvolta aiuta le famiglie, altre volte no, perché talvolta il mondo, o meglio non il mondo in sé ma lo spirito del mondo, prolunga, in certo senso, la minaccia di Erode: talvolta, sottoforma di attraente lusinga, deforma la famiglia, frantuma il focolare domestico, distrugge la vita: pensiamo al numero crescente dei divorzi, alla piaga dell’aborto, al ricorso sempre più frequente alla sterilizzazione, all’instaurarsi di una vera e propria mentalità contraccettiva (cfr. FC 6), (e possiamo aggiungere alla lista anche i tentativi di considerare famiglia ciò che famiglia non è.) “Alla radice di questi fenomeni negativi – scriveva il Beato Giovanni Paolo II – sta spesso una corruzione dell’idea e della esperienza della libertà, concepita non come la capacità di realizzare la verità del progetto di Dio sul matrimonio e sulla famiglia, ma come autonoma forza di affermazione, non di rado contro gli altri, per il proprio egoistico benessere.” (FC 6) La famiglia ha bisogno di famiglie che testimonino nel mondo lo spirito della famiglia di Nazareth, che mostrino la bellezza e l’attualità, anche per il nostro tempo, del disegno del Creatore su ogni vera famiglia, che siano segno credibile per tutti che solo la casa fondata sulla roccia sta in piedi. La Chiesa stessa ha bisogno di famiglie da cui imparare una dimensione più domestica, cioè più familiare, adottando uno stile più umano e fraterno di rapporti. (cfr. FC 64).

 

Tutti allora, in quest’unico giorno di Natale, vogliamo fermarci a Betlemme, sostare a Nazareth con Maria, Giuseppe e il Bambino Gesù, per ripartire da qui con una coscienza più consapevole e più matura del valore della vocazione che abbiamo ricevuto, di ciò che siamo e di ciò che facciamo, per ricordare a noi stessi, anzitutto, e a tutti, che il vangelo è ancora una buona novella per una vita buona.

 

mercoledì 25 dicembre 2013Natale del Signore - Messa dell’aurora - fr. Giovanni Battista FMJ


 

Sulle labbra del nostro papa Francesco abbiamo sentito più volte l’invito a uscire, ad andare nelle periferie. “Usciamo, - dice - usciamo ad offrire a tutti la vita di Gesù Cristo” (EG 49) Questo moto di uscita non siamo noi ad inventarlo come se fosse una nostra iniziativa: altro non è che un invio, una missione che prolunga, segue la dinamica stessa che Dio ha vissuto nell’incarnazione del Verbo e che oggi celebriamo. Il nostro Dio è un Dio che esce perché è un Dio che ama; anzi, è molto più che un Dio che ama: egli stesso è l’amore, dunque è lui che definisce cosa è amore e cosa non lo è.

 

Al di là di ogni possibile contenuto specifico dell’amore una cosa è sempre presente in ogni manifestazione dell’amore vero. Amare significa uscire da sé per volgersi verso l’altro; e nel contempo amare è accogliere l’uscita che l’altro fa da se stesso per volgersi verso noi. È un moto di uscita e di accoglienza quello che da forma concreta all’amore, e se manca l’uno o l’altro dei due movimenti l’amore rimane monco, potremmo dire che rimane offeso non nel senso di risentito ma nel senso di menomato perché perde quel carattere di reciprocità che gli da completezza, che lo compie. Non potremmo dire infatti che l’amore si compie se c’è un rifiuto, una chiusura o un’opposizione in una delle due parti. Rimarrebbe un movimento ad un solo senso.

 

Oggi contempliamo questa uscita di Dio da sé: in questo bambino la Trinità tocca la terra, esterna quel moto d’amore che dall’eterno vive per rivelarcelo, per renderci partecipi di sé. Dio esce da sé per farci entrare in lui. In questa uscita di Dio da sé, pur rimanendo in sé, noi riceviamo questo invito di Dio ad accogliere il suo amore, ad entrare in questo incontro inedito, impossibile prima d’ora secondo questa forma, perché invisibile. Dio ci rivolge la chiamata all’amore non obbligandoci a salire noi verso di lui, ma scendendo lui verso di noi. Dio si fa al nostro livello per chiamarci alla sua amicizia. In Gesù Bambino l’amore vuole essere amato, l’amore chiede di essere accolto. Di fronte al Divino Bambino scopriamo il volto di un Dio che vuole essere più accolto che temuto, più amato che ragionato intellettualmente. In Gesù l’amore di Dio parla il linguaggio della tenerezza, della misericordia, del bisogno. È un Dio che vuole aver bisogno, è un Dio che cerca la compagnia dell’uomo, un Dio che vuole farsi conoscere perché è un Dio che ci ama. L’amore conosce e si fa conoscere, l’amore non si chiude e non chiude ma apre e si apre, e il Dio amore vuole insegnarci ad amarlo in verità, non più come se fosse solo un Dio, ma amarlo come uomo. Amare Dio è diventato semplice come amare un bambino.

 

Una semplicità che diventa forse per noi la cosa più difficile. All’aurora di questo nuovo giorno illuminato da un nuovo Sole, dobbiamo compiere anche noi il nostro cammino, il nostro esodo, come lo compirono Maria e Giuseppe per andare a Betlemme, come lo compiranno i magi guidati dalla stella, come lo compiono oggi i pastori nella notte: Andiamo, dicono i pastori, e vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere. Dalla mangiatoia Gesù attrae tutti a sé: venite e vedrete, sembra già pronunciare. C’è un esodo che dobbiamo compiere se vogliamo incontrare Gesù Bambino. Come i pastori dobbiamo andare e vedere. Ma andare dove? Da nessuna parte, si tratta piuttosto di scendere! “Se Dio si rivela non come uno che sta in alto e domina l’universo – dice papa Francesco – ma come Colui che si abbassa, discende sulla terra piccolo e povero, significa che per essere simili a lui noi non dobbiamo metterci al di sopra degli altri, ma anzi abbassarci, metterci al servizio, farci piccoli e poveri con i poveri. Ma è una cosa brutta – continua il papa – quando si vede un cristiano che non vuole abbassarsi, che non vuole servire. Un cristiano che si pavoneggia dappertutto, è brutto: quello non è cristiano, quello è pagano. (Catechesi 18.12.2013)” Cioè uno che non conosce Dio, non l’ha incontrato, continua a cercarlo, se lo cerca, laddove Dio non c’è perché Gesù, il Dio vero, non si è posto tra le cose grandi ma tra le cose piccole, si è fatto bambino, e dai piccoli si lascia incontrare e accogliere. Il Natale lo celebriamo in verità, nel culto ma soprattutto nella vita, se non solo festeggiamo la nascita di Gesù, ma se andiamo ad incontrarlo laddove si trova e dove ci aspetta, nella stanza al piano di sotto. Laggiù bisogna scendere se vogliamo trovarlo. I piccoli, i pastori sono i primi ad udire la chiamata e i primi ad incontrare il Salvatore perché sono quelli più capaci di scendere, perché si trovano già in basso. L’invito che i pastori si rivolgono a vicenda sia la parola che chiama anche noi oggi: Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere. Il Signore ci aspetta nella stanza al piano di sotto dove ha trovato posto perché anche noi troviamo posto accanto a lui.

 

martedì 24 dicembre 2013 Feria d'Avvento - Messa del mattino - fr. Giovanni Battista FMJ


 

Con le parole del cantico di Zaccaria, la liturgia ci lancia, per così dire, un ultimo appello, ci rivolge un’ultima chiamata di questo tempo di avvento, per entrare con tutto noi stessi nel nuovo giorno che si profila all’orizzonte, il giorno illuminato dal Sole che sorge dall’alto. Lo fa, appunto, con le parole di Zaccaria, le sue prime parole dopo mesi di mutismo. Sono parole di benedizione, di lode, che esaltano la grandezza di Dio che è un Dio fedele alle promesse, è un Dio che si ricorda, ed è un Dio dei piccoli, un Dio che si rivolge a chi è umile, un Dio che libera dai nemici. E qual era il nemico di Zaccaria, quel nemico che l’aveva reso muto? Era l’incredulità. Le parole che Zaccaria ora canta, colmo dello Spirito Santo sono parole cariche di dolcezza, di gratitudine, di fiducia, egli canta davvero commosso per quanto Dio stava compiendo, ma se ci pensiamo bene, Zaccaria prima non parlava così, anzi, proprio per la sua incredulità alla parola dell’angelo era stato reso muto. Ecco Zaccaria, gli disse l’angelo, “sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole.”

 

Questi mesi di mutismo forse potremmo interpretarli semplicemente come un castigo, una punizione perché non si era fidato, perché Zaccaria aveva messo in discussione le parole dell’angelo. E così in effetti un po’ traspare dal testo dell’annuncio della nascita di Giovanni Battista. Ma più in profondità possiamo chiederci: che effetto ha avuto sull’esperienza, sulla vita interiore di Zaccaria, il fatto di non poter parlare proprio nei giorni in cui il Signore stava realizzando le sue promesse? Ecco, Zaccaria, è messo di fronte all’opera di Dio senza poter intervenire, senza poter proferire parola, commentare, potremmo anche dire, coprire con le sue opinioni, i suoi progetti, con le sue parole, la parola, l’opera di Dio che si stava compiendo. Il silenzio di Zaccaria, anche se forzato, subìto, diventa quel silenzio che lo rende un uomo capace di accogliere il dono di Dio. Forse Zaccaria doveva fare quel cammino che Giuseppe, il custode della sacra famiglia, aveva già compiuto: imparare ad accogliere il dono di Dio e non mettere la mano sopra il dono di Dio. Nel crogiuolo di questo mutismo Zaccaria vive il suo Avvento, compie il suo esodo attraverso il deserto di un silenzio che gli impedisce di mettere la mano su quel dono che da una vita attendeva, perché scopre che già la mano del Signore era su di lui.

 

In questo cantico che proferisce estasiato, troviamo il frutto di tutto questo cammino che Zaccaria ha percorso, tutto il tempo di Avvento che anche lui ha dovuto vivere e che oggi giunge al suo culmine, un tempo che ha plasmato in lui un cuore capace di accoglienza, uno sguardo di fede capace di guardare oltre il dono, non solo per cogliere il Donatore, ma anche per scoprire la vera identità del dono, Giovanni Battista, non semplicemente dunque, il suo bambino, ma il profeta dell’Altissimo, il figlio consacrato fin dal seno di sua madre per appartenere al Signore.

 

Questo è stato l’avvento di Zaccaria, questo è stato l’esodo di Zaccaria, potremmo dire, quell’esodo che l’ha reso profeta e padre di profeta, e il suo vivere la paternità terrestre come prolungamento della paternità di Colui che glielo pone fra le braccia. Zaccaria ora sa trascendere la propria storia personale e familiare per collocarla all’interno della storia della salvezza, un piccolo ma importante anello di quella benedizione che da Abramo, passando di lì, in Cristo andrà ancora più lontano.

 

Il canto di Zaccaria, meta del suo avvento, vogliamo oggi farlo nostro come meta anche del nostro avvento, una meta verso cui forse dobbiamo tendere ancora. In questo compimento ci apriamo al nuovo inizio, al tramonto di un’epoca antica, quella dei profeti, entriamo nel nuovo giorno, quello illuminato dal Sole che sorge. Come Zaccaria vogliamo volgerci ad Oriente e di là, e non da altrove, attendere la visita del Signore, quella visita che è descritta come luce che risplende su quelli che stanno nelle tenebre e guida tutti alla vera pace.

 

venerdì 20 dicembre 2013 III settimana Avvento - Commento ora media – Is 7, 10-14 - fr. Giovanni Battista FMJ


           Il testo che abbiamo ascoltato, tratto da quella parte del capitolo settimo del profeta Isaia detta Libro dell’Emmanuele, è sicuramente uno dei testi più importanti che la tradizione cristiana primitiva identificherà come profezia della nascita del Salvatore, ed è per questo che la liturgia ce lo propone oggi, feria di Avvento, abbinato con il vangelo dell’annunciazione del Signore.

 

La tradizione della Chiesa, a partire dall’utilizzo che san Matteo fa di questo testo al primo capitolo del suo vangelo, ha colto in questo oracolo una valenza sia cristologica, sia mariana. Cioè riconoscerà, alla luce degli eventi della vita di Gesù, che questa profezia, che nel contesto storico dell’ottavo secolo avanti Cristo annunciava la nascita del re Ezechia, portava in sé un significato ulteriore. La parola del Signore annunciata dal profeta Isaia al re Acaz non aveva esaurito la sua efficacia una volta dato alla luce il figlio del re, ma era una parola che aveva ancora qualcosa da dire, o meglio da compiere, un annuncio che continuava a brillare come stella che indica una via futura, un evento futuro che troverà compimento nella nascita del Salvatore, come si legge nel primo vangelo: “Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi” (Mt 1,23).

 

Forse oggi non ci stupiamo più tanto nello scoprire questo ponte, questa continuità tra i due testamenti che trova particolare evidenza nelle profezie cristologiche, ma nei primi secoli era molto importante mettere in luce questo filo rosso tra le Scritture ebraiche e il Cristo, sia per ragioni apologetiche nei confronti della comunità giudaica di allora, sia, nei confronti dei convertiti, per ragioni di ordine catechetico, “per mostrare loro che gli eventi della vita di Gesù entravano nel disegno divino già annunziato dalle Scritture” (cfr. Ravasi, i vangeli del Dio con noi, ed. Paoline, pag 29). Addirittura, per il grande filosofo e credente francese Blaise Pascale, “la prova più grande di Gesù Cristo sono le profezie” (Pensieri n° 526). Anche noi vogliamo allora leggere questo brano non semplicemente da punto di vista storico, ma soprattutto con la nuova intelligenza che ci viene dalla vita di Gesù.

 

Isaia prima che parlare di una nascita annuncia un segno, un evento che rimanda a qualcos’altro, che vuole far capire qualcosa. È un segno che viene da Dio, è sua iniziativa nonostante la reticenza di Acaz che non voleva chiederlo forse per timore di compromettersi troppo con Dio o forse per paura di rimanere deluso qualora Dio non avesse risposto alla sua richiesta. Il segno è annunciato dunque come iniziativa, volontà di Dio stesso, ed è duplice: il concepimento e la nascita del Dio con noi. La vergine concepirà e partorirà un bambino che si chiamerà Emmanuele, Dio con noi. Dio manifesta il suo intervento nella storia di Acaz, re di Giuda, spaventato dalle minacce belliche di Israele e Damasco, con la debolezza di una vergine e di una nuova nascita. Questo era il segno della presenza salvifica di Dio in quella vicenda, prefigurazione, abbiamo detto, della nascita di Gesù.

 

Dio entra nella vita dell’uomo singolo, ma anche nella storia dei popoli, conservando il suo carattere di Dio umile, di un Dio che si fa debole perché non vuole imporsi all’uomo ma chiede di essere accolto. È questo lo stile di Dio, è questo lo stile di chi è veramente potente, è l’onnipotente. È questo lo stile di chi vuole amare ed essere amato. Accogliere chi è debole obbliga a farsi deboli, a disarmarsi e a saper accogliere ed accettare la debolezza dell’altro. Scegliendo questa via per venire nel mondo, la via del farsi bambino, Cristo non solo ha assunto la natura umana, ma ne ha consacrato, in certo modo, i suoi tratti più teneri, più umili, più deboli. Accogliere questo bambino diventa per noi, allora, scuola di amore, un esercizio che nasce dalle cose più piccole, banali e scontate della nostra vita, ma che per un bambino non sono scontate.

 

Il Signore ci doni un cuore tenero, un cuore buono, un cuore che sia capace di accogliere i piccoli, perché il Signore vuole essere accolto così

 

giovedì 19 dicembre 2013 - III settimana Avvento - fr. Giovanni-Battista FMJ


 

Nel Magnificat Maria, quando esultava stupita per le meraviglie che il Signore stava compiendo in lei, esclamo: “il Signore ha guardato l’umiltà della sua serva”. Il Signore guarda Maria, e anche noi guardiamo particolarmente a lei, in questo giorni di Avvento, la Vergine dell’attesa. Ma man mano che ci avviciniamo al gran giorno del Natale, man mano ci avviciniamo al giorno della Luce verso cui convergono e lo sguardo di Dio e quello degli uomini, la liturgia ci offre dei testi splendidi che ci testimoniano come questo sguardo del Signore non era rivolto solo a Maria, ma anche a tutti coloro che attendevano con fede la venuta del Messia.

 

Oggi ci è proposta la vicenda di due anziani, Zaccaria ed Elisabetta: anche a loro il Signore rivolge il suo sguardo, rivolge il suo ricordo, la sua memoria. Zaccaria significa proprio il Signore ricorda. La loro tarda età era segno di una vita trascorsa nella speranza, nella fedeltà al Signore e nell’obbedienza operosa a tutte le sue leggi. Ma una vita anche segnata dalla sterilità di Elisabetta: Elisabetta non poteva avere bambini; il sogno della sua vita era la sua vergogna, così la chiama lei; e in più Elisabetta era anziana.

Due buone motivazioni, umanamente parlando, per lasciarsi andare alla rassegnazione: ormai siamo alla fine, quel che fatto è fatto. Ma per Dio non si può dire: quel che è fatto è fatto, perché Dio può fare sempre cose nuove, può iniziare sempre daccapo; se non ce la facciamo noi, lui può sempre ripartire, anche quando è umanamente impossibile. Lo sguardo di Dio su di noi non solo è sempre nuovo, perché se il Signore ricorda, è vero anche che il Signore dimentica i nostri errori, ci rinnova, ci da sempre una nuova possibilità, non ci abbandona alle nostre sterilità, ma Dio è capace in un attimo di far partire dal nulla una storia nuova, come accade nella vicenda di oggi, un nuovo inizio che parte da due vecchietti, una tale novità che Luca decide di collocarla all’inizio del suo vangelo, è la prima scena.

 

Ora, nel testo, ci sono due indicazioni su cui ci possiamo soffermare e anche in cui ci possiamo ritrovare perché anche noi ci troviamo un po’ in questa situazione. Sono due indicazioni, se vogliamo, marginali, di spazio e di tempo, ma che possono dirci qualcosa: una riguarda i due coniugi e l’angelo, e l’altra riguarda il popolo.

 

A più riprese si precisa, la posizione rispetto a Dio di Zaccaria ed Elisabetta, i destinatari della chiamata. Ecco, il testo a più riprese dice che tutti costoro erano, o stavano davanti a Dio, dinanzi a Dio. I coniugi erano giusti davanti a Dio, Zaccaria esercitava il suo sacerdozio davanti al Signore. Abbiamo qui, lo capiamo bene, più che una collocazione spaziale, abbiamo soprattutto una indicazione esistenziale. Costoro avevano posto la loro vita davanti al Signore, alla sua presenza, nelle sue mani, ed è il primo dei due atteggiamenti che possiamo fare nostro, sempre, in ogni tempo, ma soprattutto in questi giorni in cui la nascita del Salvatore è davanti a noi. Se vogliamo portare frutto nella nostra vita, se vogliamo essere fecondi, dobbiamo metterci davanti al Signore, non lontani, ma davanti al Signore, in ogni cosa che facciamo. Il frutto che daremo avrà le stesse caratteristiche, porterà l'impronta, del nostro stato di vita: chi semina nella carne raccoglierà corruzione, che semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna. E infatti, per Zaccaria ed Elisabetta che caratteristica avrà il loro frutto? il loro Giovanni Battista? Anche di lui si dirà: sarà grande davanti al Signore. Abbiamo un posto davanti al Signore che dobbiamo occupare, non può rimanere vuoto, e se noi lo occupiamo il Signore ci troverà al suo arrivo come ha trovato Zaccaria ed Elisabetta.

 

La seconda caratteristica, quella di tipo temporale, abbiamo detto, viene dal popolo: una volta che Zaccaria è entrato nel tempio per compiere il suo culto, il testo ci da due indicazioni circa il popolo, che possiamo considerare complementari: il popolo era in preghiera e il popolo era in attesa. Attesa e preghiera descrivono la qualità dell’assemblea che si riunisce davanti al Signore: attende e prega, veglia pregando. Ritroviamo lo stesso invito dell’inizio dell’avvento: vegliate pregando. Anche qui in quella che potremmo considerare solo come una precisazione di tipo cronologico, possiamo cogliere una valore più profondo. L’attesa è desiderio di un compimento, un desiderio che nasce se c’è il riconoscimento di una necessità: abbiamo bisogno di un compimento; da soli non ce la facciamo, sentiamo il peso del nostro limite. La preghiera è consapevolezza che questo compimento non ce lo possiamo dare da soli, non viene da me ma devo chiederlo ad un Altro. Il tutto sostanzia lo stare davanti al Signore che abbiamo visto prima, senza fughe in avanti, ne indietro, ne in basso, ne in alto, né dentro di sé né fuori di sé, ma solo rimanere davanti al Signore e rimanere aperti, pronti ad accogliere il Salvatore delle genti, cioè colui che salva me, te, noi, e tutti coloro che si lasciano salvare.

 

Infine un'ultima considerazione sul contenuto di questo compimento, una considerazione che possiamo fare tornando a guardare Zaccaria ed Elisabetta. I due anziani si trovano coinvolti, senza aspettarselo, in un piano più grande, in un progetto di Dio per tutta l'umanità: siamo nella pienezza dei tempi e l'opera, il desiderio di Dio giunge al suo compimento nell'incarnazione del Verbo Incarnato annunziato dal Battista. Ora, la pienezza dei tempi, non realizzerà, non compirà solo questo desiderio di Dio, ma anche il desiderio personale dei due coniugi, quello di avere un figlio, troverà un inaspettato compimento in questo progetto più grande che li supera. I due desideri, di Dio e dell'uomo, si toccano, si incrociano. Solo Dio sa fare questo, solo Dio sa realizzare la sua storia, la sua opera senza svilire quella dell'uomo, ma al contrario esaltando e portando a compimento quanto di buono egli portava nel cuore. Così il suo desiderio diventa il nostro e il nostro il suo.

 

È questo che allora possiamo fare in questi giorni di attesa e di preghiera davanti al Signore: mettere il nostro desiderio, tutto quanto portiamo nel cuore, nel cuore del Signore e prepararsi ad accogliere Gesù, Colui che compendia e porta a compimento tutto ciò che di buono desideriamo.

 

martedì 17 Dicembre 2013 - III settimana avvento - fr. Giovanni Battista FMJ

 

Il vangelo di oggi è un testo che potrebbe sembrare a molti alquanto noioso, sia perché è un testo ripetitivo per l’elenco di nomi che contiene, sia anche perché potrebbe sembrare un po’ inutile. Che cosa ci serve sapere quali erano gli ascendenti di Gesù se sappiamo già che lui è il Figlio di Dio? Che cosa ci importa di risalire all’indietro in linea orizzontale quando sappiamo che il mistero di Dio, la linea verticale, è presente in lui in modo pieno ed insuperabile. E invece il testo della genealogia non è privo di valore, ha un significato sia biblico, sia teologico, sia spirituale.

 

Il significato biblico lo capiamo se ci chiediamo a chi l’evangelista indirizzava in primo luogo il suo scritto: Matteo scrive agli ebrei del suo tempo, un popolo che non era unificato principalmente per ragioni etniche, ma soprattutto per ragioni di fede: Dio aveva fatto alleanza con il popolo d’Israele, un’alleanza che partiva da Abramo per portare la sua benedizione ad una moltitudine numerosa come le stelle del cielo. Ma Dio aveva fatto alleanza anche con Davide con parole assolutamente irrevocabili: “La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me e il tuo trono sarà reso stabile per sempre” (2 Sam 7,16). Se ci pensiamo bene queste parole erano parole pesanti, parole che non potevano tramontare nonostante fosse di fatto tramontata la monarchia. Per cui presso i giudei era rimasta viva questa attesa di un re, un’attesa che era diventata attesa messianica, cioè che non guardava solamente al passato ma si apriva al futuro: Dio doveva mantenere le sue promesse! Per Matteo è dunque importante, necessario per la fede dei Giudei, mettere in luce, dimostrare a loro che questo Messia che attendevano era venuto davvero, ed era Gesù. Che il Cristo non era solo il figlio di Giuseppe, lo sposo di Maria, ma soprattutto era il figlio di Davide, il figlio di Abramo, cioè era il compimento e della benedizione e del regno.

 

Una seconda riflessione che possiamo fare a partire da questa genealogia di Gesù, abbiamo detto, è di tipo teologico ma anche un po’ spirituale. C’è una storia della salvezza che si compie in Cristo nella logica della profezia-compimento della profezia, ed è quello che cerca, abbiamo visto, di mettere in luce Matteo, non solo qui ma anche altrove. Ma prima di arrivare a parlare di storia della salvezza, proviamo a fermarci alla storia. Dio entra nella storia, Dio si rivela, incontra l’uomo non portando fuori l’uomo dalla storia ma entrando lui nella sua storia: e questo è davvero straordinario, è davvero divino! È il Dio che si fa incontro all’uomo sul terreno dell’uomo. Dio consacra così la storia, rende la storia dell’uomo la dimora dell’incontro con lui. Quanto ci fa bene ricordarci di questo! Quanto ci fa bene pensare che con la storia ha già luogo, seppur in minima parte, quell’incontro che è rivelazione del Dio invisibile, che si realizzerà pienamente nel mistero dell’Incarnazione del Verbo di Dio. In questo primo giorno delle ferie di Avvento, in questo primo giorno in cui la nostra attesa si fa più vicina al Natale del Signore, la liturgia ci invita a questo ritorno al reale, a questo ritorno alla storia.

 

Qualche volta preferiremmo andare, e forse ci andiamo davvero, a cercare il Signore fuori dalla storia, fuori dalla nostra storia, lontano dagli altri e magari anche da noi stessi, in un mondo divino da noi pensato, e siccome poi non ce la facciamo, cioè lì, in questo bel mondo di ideali e di perfezioni platoniche il Signore non c’è, torniamo nel nostro quotidiano, nella nostra profanità, con un pugno di mosche in mano. Ah se mia moglie fosse così, ah se i miei fratelli fossero cosà, ah se il mondo fosse migliore, ah se la Chiesa fosse come dico io ecc. è bello sognare, ma a un certo punto bisogna chiedersi: bene, la realtà è così, io stesso sono così e non sono come sognerei: come e dove cercare e attendere il Signore in queste condizioni, in questa storia e non nella storia che vorrei ma che non c’è? La genealogia di oggi ci vieta ogni fuga dal reale, è come se ci dicesse: vuoi attendere il Signore, attendilo insieme a tutti coloro che l’hanno atteso, (tra l’altro non tutta gente casa e chiesa) insieme a tutti coloro che hanno preparato la sua venuta, che hanno scritto la storia di questa attesa, cercalo dove sei, cercalo come sei, e allora lo troverai veramente, cioè troverai il Dio vero, non quello che ti sei inventato tu. (Molti, al tempo di Gesù, forse non lo riconobbero proprio per aver anteposto la propria idea di Messia alla realtà del Messia che si rendeva loro presente in Cristo.) Se vivremo così questi giorni santi pre-natalizi forse riusciremo a vivere quello che Papa Francesco ci augura per questo santo Natale: “se Lui ha lasciato che noi scrivessimo la sua storia, almeno lasciamo, noi, che Lui ci scriva la nostra storia. … Che il Signore ti scriva la storia e che tu lasci che Lui te la scriva.” (Omelia di oggi a Casa S. Marta)

 

Domenica 15 dicembre 2013 - III dom. di Avvento - fr. Massimo-Maria FMJ

 

   Isaia con tono di grande gioia e speranza aveva annunciato, come altri profeti, la venuta del liberatore, del Messia, di colui che Israele attendeva con trepidazione. Lo aveva fatto in più riprese ed in diversi testi. Un esempio particolarmente bello e poetico è quello che la liturgia ci offre oggi.

      Una profezia carica di gioia, ricca di speranza, colma di intensa consolazione.

    Il deserto, simbolo di solitudine, di aridità, di mancanza di vita è invitato a rallegrarsi, perché la venuta del liberatore cambierà anche la sua sorte, mutandolo in luogo glorioso e florido quanto il Libano e il Saron.

   Ma soprattutto per l'uomo malato, stanco, oppresso e sfinito sotto il peso della sua fragilità, è riservata la più significativa e consolante promessa:  liberazione, riscatto, guarigione, resurrezione.

     Queste promesse avevano guidato il cammino faticoso di Israele, avevano sostenuto le sue fatiche e le sue prove ed abitavano profondamente ogni cuore.

    Se ci accostiamo ora alla pagina evangelica, avendo sullo sfondo  questo meraviglioso panorama, senza dubbio ne possiamo comprendere meglio il senso.

       Giovanni il Battista era stato arrestato e messo in carcere da Erode. Trovandosi lì, resta in questa attesa, continua ad incarnare   tutta l'attesa messianica dell'antico testamento, avendo nel cuore le promesse di Dio anche quelle da noi oggi ascoltate nel testo di Isaia.

     Ma, probabilmente anche in lui, sorge qualche incertezza.

    Il Messia che si attendeva era qualcuno di forte, potente, che avrebbe magari sovvertito il potere romano che opprimeva Israele, si sarebbe imposto con la forza del braccio potente di Dio, ed avrebbe fatto prodezze e certamente stupito con prodigi. Ma Gesù, Colui che lo stesso Battista aveva indicato come l'agnello di Dio era senza dubbio in tono molto più dimesso rispetto alle attese. Diceva Beati i poveri, i miti, i pacifici, i misericordiosi. Si era definito mite di cuore e agiva sempre con uno stile di grande mansuetudine ed umiltà. Non stava costituendo nessun esercito o organizzazione pronta ad agire al momento opportuno.

      Ecco allora che la domanda del Battista esprime forse un certo disorientamento presente in tanti – e sappiamo che questa incertezza resterà anche dopo persino nei discepoli.

    “ Sei tu o dobbiamo attenderne un altro?”

    Per capire meglio proviamo a pensare quando nel Vangelo di Luca Gesù moltiplica i pani, le folle letteralmente pendono dalle sue labbra – si dice in Matteo – vogliono farlo re, e lui obbliga i discepoli  a salire sulla barca a precederlo nell'altra riva, e lui si ritira solo sulla montagna in preghiera con il Padre. I discepoli, e forse soprattutto Giuda devono aver pensato: “ Ma cosa sta facendo questo maestro, questo messia. Una occasione d'oro buttata via, sprecata. Quando gli capiterà di avere così in mano le folle. Sarebbe sta quella una occasione felicissima per agire, per instaurare il regno messianico.

    Ecco questa domanda del Battista esprime un po' uno sconcerto del genere. Ma sei tu o ci stiamo sbagliando? Qualcosa infatti pare non tornare!

      A questa domanda Gesù risponde inviando a raccontare a Giovanni ciò che tutti vedono: storpi guariti, ciechi che ritrovano la vista, sordi odono, la Buona novella è proclamata. I segni del Messia che Isaia aveva preannunciato ci sono tutti. Ma aggiunge: “ E' beato colui che non trova in me motivo di scandalo.”

Perché?

   Certo: i segni ci sono tutti! Il Messia è lui! Ma, lo stile disarma e non poco. Come farà ad instaurare il Regno, a portare libertà, riscattare gli schiavi e a rendere giustizia agli oppressi?

“ Sei tu o dobbiamo attenderne un altro?”

   Fratelli e sorelle, in questa domenica che ci avvicina ancor più al Natale, domenica della gioia, perché la liturgia nella Parola del Signore e nei suoi testi ci fa pregustare la dolce gioia natalizia, questa domanda del Battista  occorre farla risuonare fortemente nel cuore. Gesù che viene è il salvatore, Gesù che viene è il liberatore, il redentore, il re, il re dell'universo.......ma nella vita forse anche personale e certo dell'umanità il suo stile talvolta ci disarma, la sua logica che brilla nel Vangelo e che chiede divenga sempre più la nostra, talvolta ci fa sorgere delle perplessità.

    Gesù oggi come al Battista anche a noi ci chiede di aprire gli occhi e rallegrarci. Se ancora tutta la potenza dell'amore di Dio non splende nel mondo, se ancora tutti i frutti del suo Natale non sono giunti a maturazione, se ancora il Vangelo non è l'unica grande passione della nostra vita, se ancora il Regno di pace giustizia e fraternità non è instaurato – sappiamo che lo sarà nella pienezza solo al di là di questo mondo, oltre la storia, tuttavia già tanti segni sono visibili e su questi bisogna aprire gli occhi. Tanti cuori che parevano induriti si sono aperti, tanti occhi che parevano ciechi si sono illuminati, tanti sordi e chiusi a Dio e agli altri si sono sorprendentemente aperti.

E più vicino a noi, tante zone della nostra vita che parevano bloccate si sono liberate, tante tristezze fugate, tane durezze sciolte, tante oscurità vinte, tanti perdoni offerti e ricevuti.

    Davvero allora non possiamo non accogliere l'invito del Signore a rallegrarci perché Gesù è davvero il Salvatore, il liberatore, il Signore; e se è pur vero che tra i nati donna nessuno è più grande del Battista è anche vero che ognuno di noi, per grazia non per merito, figlio del Regno, è più grande di lui.

Amen

 

venerdì 13 Dicembre 2013 – II settimana Avvento – S. Lucia - fr. Giovanni Battista FMJ


 

Gesù nel vangelo di oggi fa una considerazione sulla generazione del suo tempo, una considerazione che rivela l’atteggiamento di alcuni suoi contemporanei nei suoi confronti, e non solo verso di lui ma anche nei confronti di Giovanni Battista, in generale nei confronti del mistero di Dio che si sta rivelando in Cristo. Gesù, di fronte a questa generazione, non denuncia un peccato in particolare, non dice: siete troppo peccatori per riuscire a capirmi, siete gente che non osserva la Legge ed è per questo che mi svalutate. Il problema non è anzitutto, in prima battuta, un problema morale, potrà esserlo eventualmente in un secondo momento, ma in prima battuta il problema potremmo individuarlo nell’indifferenza di queste persone. Sono persone indifferenti, impermeabili ai segnali che Dio manda loro, persino a Dio stesso che viene a loro in Gesù. Sono bambini che non si lasciano coinvolgere, non stanno al gioco di Dio, e da questa prospettiva di neutralità, valutano, o meglio svalutano, tutto ciò con cui Dio cerca di entrare in relazione con loro: né la via della penitenza proposta dal Battista né la vicinanza affettuosa di Gesù, che sono i due poli in cui si gioca il cammino di conversione, rappresentano per loro uno stimolo ad aprirsi. Non accolgono né il lutto né la festa: con il Signore non vogliono né ridere né piangere. Ma Gesù conclude, o meglio commenta, questa metafora che ci dà con una parola tanto vera quanto severa: “La sapienza è stata riconosciuta giusta per le opere che essa compie.” Cioè il valore della rivelazione che in Cristo si compie, il valore delle opere che Gesù compie, “il peso specifico”, potremmo dire, della Verità, va aldilà del fatto che l’uomo lo riconosca, lo apprezzi, lo lodi.

 

Siccome questa è Parola di Dio che Gesù non dice solo per il suo tempo, ma la dice anche per noi, e per il nostro tempo, possiamo fare qualche considerazione. La prima riguarda questa impermeabilità alla presenza di Dio, chiusura che anche oggi non è assente nel nostro mondo: quanta gente è indifferente alle questioni religiose in generale e a Cristo in particolare! Quanta gente non si pone più domande o si dà risposte parziali, per non dire del tutto sbagliate, come quelle che davano ai tempi di Gesù, a quella sete di verità che sorge nel cuore dell’uomo e che solo il Signore può soddisfare. Sono i frutti dell’indifferenza, ossia di quel modo di accostarsi al mistero di Dio conservando la propria neutralità, la propria indipendenza. Oggi l’uomo maturo, secondo il modello in voga, è l’uomo che non ha bisogno di nessuno, che basta a se stesso. Oggigiorno l’indifferenza è diventato il modo di essere più ambito per dare una parvenza di stabilità e serenità alle proprie inquietudini. Il problema è che l’indifferenza, che talvolta è come l’atmosfera che avvolge non solo i nostri pensieri, ma persino le nostre relazioni umane, l’indifferenza è una malattia che se arriva al cuore dell’uomo rischia di addormentarlo e renderlo freddo, un cuore che non vibra più di carità.

 

Anche noi cristiani, purtroppo, non siamo immuni da questo pericolo, anzi, per noi oltre a questa fonte “culturale” di indifferenza, se ne aggiunge anche un’altra, soprattutto per i più praticanti, che è l’abitudine. Siamo così abituati alle pratiche cristiane, che rischiamo viverle senza una fede che ci coinvolga davvero, senza coglierne più il senso. Tutto rischia diventare un dejà vu: il tempo di Avvento, il Natale, la parola del Signore, la propria vocazione, la propria comunità, la propria famiglia, non ci stupisce più nulla, tutto si risolve in quella normalità che non ci fa più vedere lo Straordinario che contiene. Il Signore ci ha dato un cuore di carne, e va a finire che pian piano lo facciamo tornare come un cuore di pietra, un cuore che non sente più niente, non si stupisce più, non vibra più. Abbiamo bisogno anche noi, talvolta, di qualche massaggio cardiaco che ci rianimi un po’, faccia ripartire il nostro cuore, lo aiuti a battere.

 

Due cose, se ci pensiamo bene, ci riattivano la circolazione, ridestano la nostra attenzione sulla presenza di Gesù nella nostra vita, e sono due esperienze che abbiamo fatto tutti, credo, due esperienze che, come dire, ci aprono gli occhi, ci svegliano un po’ dal sonno, per recuperare una parola di san Paolo che ha orientato i primi passi dell’Avvento, e sono l’esperienza della prova e l’esperienza della gioia. Noi preferiremmo la seconda, ma anche la prima spesso è necessaria. Nella prova siamo obbligati a venire allo scoperto, la neutralità e l’indifferenza non ci proteggono più come prima, anzi diventano quella campana di vetro in cui soffochiamo se non ne veniamo fuori; nella prova vengono purificate come nel fuoco quelle convinzioni che ci custodivano nella nostra serena indifferenza, per vedere se erano vere, se avevano valore, se corrispondevano alla realtà delle cose o se erano solo anestetizzanti per la coscienza; nella prova viene fuori quello che abbiamo nel cuore come avvenne per Israele in cammino nel deserto; nella prova di conseguenza cerchiamo il Signore, riconosciamo che abbiamo bisogno di questo incontro se non vogliamo venire meno. Scriveva il cardinal Martini: “Affrontare la prova in un certo periodo è l’unica garanzia di serenità nell’esistenza. Non è il rimuoverla, bensì il viverla che rende singolare la gioia del cristiano”.

 

        Ma, dicevamo, che anche la gioia ci rivitalizza, perché la gioia non solo ci consola, non è solo una carezza del Signore, ma ci conferma, ci fortifica, ci fa sperimentare che il Signore è per noi e non contro di noi. Quella gioia di vivere con l’intima consolazione che Gesù, l’amico dei peccatori, ci vuole bene così come siamo e spinge anche noi stessi a volerci bene così come siamo, e se ci invita a diventare più santi è proprio perché ci vuole bene. La gioia ci rende attenti, ci apre alla vita che scorre attorno a noi e ci aiuta a vedere che ogni evento e ogni persona possono diventare una benedizione per me, perché la gioia ci fa amare la vita e ce ne rende pienamente partecipi.

 

Nei due richiami, quello austero di Giovanni Battista e quello esultante del Signore Gesù, ritroviamo queste due dimensioni di prova e di gioia che possono rendere il nostro cuore più morbido, più sensibile e dunque più vigile. L’attesa dell’avvento è proprio questa attesa vigilante, questa attesa non indifferente ma con le lampade accese, perché il tempo è vicino. Chiediamo allora al Signore per intercessione di santa Lucia, come abbiamo pregato nella colletta, che riempia di gioia il nostro cammino e di luce le nostre prove.

 

martedì 10 Dicembre 2013 – II settimana Avvento - fr. Giovanni-Battista FMJ

 

Il brano evangelico di stasera è un testo che ci fa capire un po’ di più il tempo liturgico dell’Avvento, che è un tempo che ci prepara ad un incontro, perché tutto in noi e fuori di noi sia preparato, pronto, sistemato in vista di questo incontro col Signore che viene. C’è una via da preparare nel deserto, abbiamo ascoltato dal profeta Isaia, e tutto ciò che ostacola, intralcia questa via, questa strada che il Signore percorre per giungere fino a noi, va rimosso.

Ora, del vangelo di oggi che, essendo una parabola, comunica con noi attraverso delle immagini, possiamo mettere in luce alcuni aspetti particolari che aiutano la nostra riflessione.

Un primo aspetto è la situazione di distanza, di separazione, che viene a crearsi tra il gregge delle novantanove pecore e la pecora che si perde, una separazione che è provocata appunto da uno smarrimento. La pecora si perde, la pecora non sa più qual è la strada giusta da percorrere e inizia un cammino un po’ a naso, secondo quello che capisce, secondo la sua capacità di orientarsi nel mondo, secondo i suoi gusti. Il suo cammino, da sequela del pastore all’interno di un gregge si trasforma in un vagare, un errare autoreferenziale dalla meta incerta e dalla compagnìa non ben definita o fortuita. Da un momento all’altro la pecora si ritrova ad essere una pecora senza pastore e senza gregge. L’essere senza pastore e l’essere senza gregge sono dunque le due caratteristiche che mettono la pecora perduta in uno stato di smarrimento, senza bussola e senza riferimenti. L’essere ritrovati dal pastore e l’essere reinseriti all’interno del gregge permettono invece alla pecora di riprendere il cammino verso il pascolo. La parabola finisce bene, ma al di là, o meglio, prima di arrivare a questo lieto fino potremmo chiederci: come mai la pecora si smarrisce?

Le cause, uscendo dalla metafora della parabola, potrebbero essere tantissime e non tutte necessariamente attribuibili solamente alla pecora smarrita. Ci possiamo limitare a tre considerazioni, una relativa alla pecora smarrita, un’altra che riguarda le altre pecore del gregge; infine, a queste due, potremmo aggiungerne una terza, riferita non al pastore divino ma ai pastori umani, cioè a tutti coloro che in famiglia, in comunità, nella Chiesa, svolgono un ruolo di guida, di responsabilità, incarnano un po’ la figura del pastore.

La prima considerazione la possiamo cogliere dalla parola di Dio, più precisamente dal vangelo secondo Giovanni: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me…ascolteranno le mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.” (Gv 10, 14.16) Quando smettiamo o trascuriamo di ascoltare la voce del pastore, ci esponiamo seriamente allo smarrimento; quando il nostro cuore e la nostra coscienza non dialogano più con Gesù, trascurano questa relazione fondamentale, pian piano, come si suol dire, prendiamo la tangente, cioè la prima cosa che viene a contatto con la nostra vita, magari cose anche buone ma che non sono la voce del pastore, che non sono la nostra chiamata, ci attrae e ci distrae, ci porta fuori, un pochino sempre più lontano. Questo perché è provato che chi non ascolta il vero pastore, poi si trova ad ascoltare e seguire altre voci estranee, voci fasulle, e cerca gratificazioni in altro. Come è provato che il contrario della fede non è la non fede ma l’idolatria.

La seconda considerazione, dicevamo, riguarda le altre pecore del gregge: il Catechismo, citando la Gaudium et spes, dice: “Alla genesi e alla diffusione dell’ateismo – che è una forma di smarrimento – possono contribuire non poco i credenti, in quanto per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione fallace della dottrina, o anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione” (CCC 2125) La nostra vita cristiana può nascondere o può rivelare il volto del pastore. Possiamo essere un aiuto alla fede e alla perseveranza degli altri come possiamo essere un ostacolo se non uno scandalo. Nessuno può dire: io seguo il Maestro e del cammino degli altri non mi interessa. Questo perché nessuno, nella Chiesa vive per se stesso ma siamo tutti corresponsabili gli uni degli altri e se c’è una pecora che lascia il gregge, che si smarrisce, è qualcosa che forse riguarda tutti, che interroga tutti; forse è un invito alla conversione non solo per chi si smarrisce, ma anche per tutta la comunità.

Infine, la terza considerazione, quella relativa a tutti coloro che in famiglia, in comunità, nella Chiesa, svolgono un ruolo di guida, di responsabilità, la possiamo attingere dalla prima lettura: “Ecco, il Signore Dio viene con potenza … come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri.” In questa metafora bellissima ci viene offerto un modello, una metafora che racchiude il senso e il modo di come il pastore ci guida: il pastore ci guida non solo indicandoci il cammino e dandoci una morale, ma il Signore ci guida accompagnandoci, facendo sentire il suo affetto e la sua presenza nella nostra vita, il suo calore. In poche parole, coltivando una relazione particolare con ciascuno: a tutto il gregge dà da mangiare, lo porta al pascolo, ma in modo diverso, in modo personale con ciascuno: il Signore si adatta a ciascuno di noi: gli agnellini, li porta sul petto, le pecore madri le conduce dolcemente, tutti raccoglie uniti attorno a sé.

         Insomma la parola di Dio di oggi ci indica, a più livelli, come preparare la via al Signore che viene nel suo Natale, perché Gesù possa trovare noi e, attraverso di noi, possa trovare tutti coloro che sono smarriti.

 

Domenica 8 dicembre 2013 – Immacolata Concezione – II di Avvento - fr. Giovanni-Battista FMJ


 

Pensare e venerare Maria come l’Immacolata concezione, la Tutta santa come ama definirla l’oriente cristiano, è quanto ci invita a fare la solennità di oggi, un invito che però va accolto e vissuto nel modo giusto. Infatti contemplare Maria come l’Immacolata concezione, potrebbe tradursi per noi in una sorta di viaggio ai confini o del tutto fuori della nostra realtà per entrare in un altro mondo, il mondo delle cose di Dio, e lì poter contemplare una figura così straordinaria come Maria. Esperienza bellissima ma forse un po’ muta, un po’ isolata, incapace di darci qualcosa al di là di tanto stupore e tanta meraviglia. E invece noi vorremmo fare l’operazione opposta, cioè non quella di uscire noi dalla nostra realtà per capire Maria, ma collocare Maria dentro la nostra realtà, ho meglio scoprire che lei è già nella nostra realtà e non in un altro mondo, che lei è presente nella nostra vita di cristiani e cercare di capire chi sia per noi e cosa ci cambia il fatto che Maria sia l’Immacolata piuttosto che non lo sia.

 

Prima però dobbiamo compiere un passo di carattere fondamentale e catechetico: dobbiamo chiederci cosa vuol dire che Maria è l’Immacolata concezione? Non è inutile ridirselo perché questo è un dogma che non sempre è capito bene infatti qualche volta accade che qualcuno pensi che questo dogma definisca la concezione verginale di Gesù nel seno di Maria. Senza nulla togliere alla verità di tale concezione verginale del Figlio di Dio nel seno di Maria, il dogma dell’immacolata concezione non riguarda però direttamente il concepimento di Gesù ma il concepimento di Maria stessa, pur rimanendo legato all’altro. Secondo quanto definito dal dogma proclamato da papa Pio IX nel 1854: “La beatissima Vergine Maria nel primo istante della sua concezione, per una grazia ed un privilegio singolare di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, è stata preservata intatta da ogni macchia del peccato originale.” In altre parole Maria è nata già redenta, è nata in uno stato di completa purezza e di integrità. La Chiesa, lungo i secoli, a cominciare da Maria stessa che, dice il testo, si chiedeva che senso avesse un saluto come quello che la definiva “piena, colmata di grazia”, ha cercato di capire anch’essa che senso avesse un saluto del genere e ha preso coscienza pian piano, o meglio ha raccolto quanto già abitava il comune senso della fede e così ha compreso meglio la condizione singolare della Madre di Dio, uno stato di incomparabile innocenza e santità. Maria nasce senza quella ferita, quella del peccato originale che significa anche inclinazione a peccare, inclinazione al male, debolezza nel fare il bene senza il sostegno della grazia di Dio, una ferita che noi tutti ci portiamo addosso e che solo il Medico celeste, può curare. La prima cura decisiva di questa terapia di guarigione è il Battesimo, ma è una terapia che non finisce mai, la ferita rimane, sanguina, fa sentire il dolore, soprattutto se trascuriamo di curarla se ci dimentichiamo del nostro Battesimo e per questo dobbiamo continuare a pulire la ferita, medicarla, fasciarla attraverso le speciali medicine soprannaturali che il Signore ci offre, che sono i Sacramenti. Ma questa ferita non passerà finché siamo qui sulla terra, anche se possiamo fare molto per ridurne gli effetti sulla nostra vita. La perfetta guarigione ce l’avremo in Cielo quando saremo pienamente redenti, cioè pienamente risanati e resi figli di Dio in pienezza nel regno dei cieli. Ecco Maria nasce, anzi viene concepita, per speciale privilegio da parte di Dio, senza questa ferita. Ciò non significa però che per questa ragione Maria appartenga ad un’umanità diversa dalla nostra, appartenga ad un’altra specie. No, Maria è donna come tutte le donne, è nostra sorella, con la sola differenza, che non è poco, che non porta in sé questa ferita, questo indebolimento del peccato e dunque anche l’inclinazione a peccare che ne consegue. Maria nel cammino di fede non ha conosciuto i ritardi e le deviazioni che conosciamo noi e non ha commesso peccati personali. (cfr. CdA 764) Maria è concepita già guarita. E deve questo suo stato di salute allo stesso Medico celeste che cura e curerà definitivamente anche noi. La differenza tra noi e Maria è cronologica: in lei, per privilegio, si è già compiuta in forma preventiva, prima della sua nascita, al suo concepimento, quanto a noi accade dopo e si perfezionerà in Cielo. Se noi veniamo tirati fuori dal fango, Maria è preservata dal cadervi.

 

Ora, di fronte a questo stato di purezza e di bellezza di Maria, cosa possiamo dire? Potremmo tornare ad ammirarla come una sorta di semidivinità la cui beatitudine è così unica che a noi ci cambia poco ci tocca poco. E invece non dobbiamo pensare così perché se Dio ha concesso questo privilegio a Maria non è per fare parzialità, non è per concedere qualcosa di più a lei rispetto che a noi per uno sfizio divino. I nostri cuori un po’ gelosi ed invidiosi talvolta hanno un po’ questa reazione quando ci sembra che qualcuno abbia ricevuto più o meno doni, più o meno talenti di noi, più o meno privilegi di noi. Ci scatta subito la logica del calcolo e del paragone. Sant’Antonio, padre dei monaci, assorto in ragionamenti simili a questi, di confronto, di paragone, si sentì rispondere da una voce: “Antonio, bada a te stesso. Sono giudizi di Dio questi: non ti giova conoscerli.” Una cosa però possiamo dirla, in particolare per quanto riguarda Maria: se Dio dona qualcosa di speciale, di unico, a qualcuno, se Dio predilige qualcuno, lo fa sempre per compiere attraverso questa scelta che è un’elezione, un dono speciale a tutti. La scelta di Dio di qualcuno non implica il disprezzo, o anche solo un amore inferiore per gli altri. E quanto ciò sia vero lo possiamo contemplare in Maria: se infatti è grazie alla Pasqua di Gesù che noi siamo salvati, molto lo dobbiamo anche al sì puro, limpido e pieno di Maria grazie al quale Gesù è venuto nel mondo. Grazie all’elezione e al privilegio stabilito da Dio per Maria, Gesù è giunto a noi.

 

Inoltre, seconda cosa, Maria non è solo portatrice del dono per eccellenza che è Gesù. Maria non è solo la porta attraverso cui Cristo entra nel mondo, o la bellissima confezione che contiene il Dono. Maria stessa è un dono per noi! Se Maria è senza peccato proviamo ad immaginare la straordinaria capacità di amare che è in grado di vivere ed esprimere questa donna. Maria è pura, Maria è perfetta ma non di una perfezione umana, non è che lei non si dimenticava mai nulla o facesse tutto con la massima efficienza, non si tratta di una perfezione di questo tipo. L’assenza di peccato in Maria le consente di vivere la perfezione che interessa a Dio che è la perfezione dell’amore: Maria ama perfettamente, pienamente. Quanto era, ed è tuttora in grado, di amare Maria! Senza il minimo attaccamento a se stessa e al male, era un cuore aperto che condivideva con tutti l’amore di cui era capace. Maria diventa così la Madre di tutti i viventi, la nuova Eva, la nostra Mamma che ci accoglie tutti come figli suoi! Quando guarda noi Maria pensa al suo Gesù, in noi vede Lui, e in Lui ritrova noi e ci affida a Lui. Potremmo dire addirittura che Maria riflette in lei e fuori di lei il volto materno di Dio. Da Maria possiamo imparare, tutti, uomini inclusi, le virtù più belle della maternità e della femminilità, ossia la tenerezza, la dolcezza, la fecondità, l’accoglienza, virtù purtroppo sempre più rare nel nostro mondo per lasciare il posto agli opposti: la durezza, l’acidità, la chiusura alla vita e su se stessi e la sterilità. Quanto abbiamo bisogno di incontrare un volto così dolce, così materno, così umano, e anche così attraente (perché la santità è la più alta forma di bellezza) come quello di Maria!

 

Infine, e qui concludo, non possiamo non collegare la solennità di oggi con il tempo liturgico che stiamo vivendo, il tempo dell’Avvento, un collegamento che oggi risalta ancora di più per l’incrocio, tra questa festa della Madonna e la II domenica di Avvento di cui abbiamo letto la seconda lettura. Paolo VI mise bene in risalto questo legame tra Maria e il tempo di Avvento, dicendo che il tempo dell’Avvento è un tempo particolarmente adatto per il culto alla Madre del Signore perché Maria è la Vergine in preghiera, Maria è la Vergine in ascolto e dunque chi meglio di Maria possiamo prendere come modello di attesa della venuta del Signore?

 

La festa di oggi però illumina in modo ancor più profondo il legame tra Maria in attesa e la venuta del Signore: Maria infatti era stata creata senza peccato in vista dei meriti di Gesù ancor prima che il Signore si facesse uomo nel suo seno, ancora prima che lei potesse anche solo immaginare che sarebbe stata chiamata a divenire la Madre di Dio. Ciò significa allora che la venuta di Gesù in lei è quell’incontro tra il Figlio di Dio e Maria, che da senso al privilegiato stato di purezza in cui lei era stata custodita. Così la venuta di Gesù nella vita di Maria compie e realizza il perché e il come lei è stata creata tutta santa. È quello che accade anche a noi quando incontriamo il Signore e soprattutto quando diciamo di sì al suo progetto per noi, alla sua elezione della nostra vita per fare qualcosa di bello e di grande. Anche noi scopriamo non solo il volto di Gesù, ma capiamo anche il senso pieno di noi stessi, della nostra vita, capiamo il senso di ciò che c'era prima, di ciò che viene dopo, capiamo il perché di molti doni unici, specifici, particolari che il Signore aveva fatto a noi e magari non ad altri. Attendere Gesù allora significa attendere anche noi stessi, la rivelazione dei figli di Dio, la rivelazione del Dio nascosto che svela l’uomo all’uomo.

 

L’attesa del Signore che viene diventi allora per noi speranza nelle sue due applicazioni concrete di cui fa menzione anche Paolo nella lettura di oggi: la perseveranza e la consolazione. Maria in questa attesa ci precede, ci accompagna, ci mostra in se stessa la metà. Passato, presente e futuro si fondono in lei, stella che annuncia il sorgere del Sole.

 

mercoledì 4 dicembre 2013 – I settimana Avvento - fr. Giovanni-Battista


 

La liturgia della parola è ricca di molti spunti interessanti per noi, ma vorrei soffermarmi su un aspetto particolare del vangelo di oggi, ossia il luogo specifico, preciso, verso cui Gesù rivolge la sua attenzione, verso cui indirizza la propria potenza miracolosa. Dove Gesù compie i due segni prodigiosi? Li compie stando sul monte ma, se abbiamo ascoltato bene questi eventi si svolgono in basso, per terra. Abbiamo due scene: nella prima Gesù cammina, poi si ferma e pian piano si raduna attorno a lui una folla che, dice il testo, depone ai suoi piedi zoppi, storpi, ciechi, sordi e gli altri malati. Nella seconda scena, invece, Gesù da pochi pani e pochi pesciolini sfama una moltitudine che, anch’essa, come i malati della prima scena, si mette per terra, è invitata a mettersi giù, a sedersi per terra. Dunque sia i malati prima, che le folle sfamate dopo, fanno esperienza del dono di Dio in questa posizione di abbassamento, giù, per terra.

 

Forse questo essere deposti ai piedi di Gesù, questo stare per terra che per ben due volte ritorna nel vangelo di oggi, come luogo non solo dell’incontro con il Signore ma soprattutto della scoperta, da quel punto di vista, del suo sguardo d’amore su di loro, forse questo luogo fisico è anche un po’ un luogo teologico, un luogo esistenziale che ha qualcosa da dire al cammino di Avvento che stiamo compiendo. Forse questo posto basso, questa prospettiva minoritaria, così umile da cui guardare il Signore e da cui essere guardati non è casuale ma porta in sé un significato e un valore prezioso. Per chi si mette per terra, ai piedi del Signore, si compie qualcosa di straordinario. Sembra quasi che chi invece sta troppo in alto il Signore non lo vede, non lo intercetta con lo sguardo, perché Gesù guarda chi sta in basso, è un Dio che si china, come dice il Magnificat e tanti salmi. La compassione di Gesù che è compassione, cioè ‘sentire-patire con’ chi sta in basso e non con chi si innalza, è proprio questo suo chinarsi sul povero, sul piccolo, sul malato, su chi non ha la forza di alzarsi da sé e si lascia tirare su da Gesù. E se Gesù vede qualcuno che sta in alto, per esempio, lo ricordiamo, Zaccheo, prima di operare la salvezza lo invita a scendere: Scendi subito Zaccheo perché oggi devo fermarmi a casa tua. E solo dopo essere venuto giù da quel sicomoro, da quella prospettiva un po’ individualista per entrare in una prospettiva di umile incontro e di relazione con il Signore, grazie a quella discesa, la salvezza si compie anche per lui e intorno a lui. Il Signore ama le persone che scendono; cioè egli ama tutti, questo è chiaro, ma predilige i piccoli, chi sta in basso.

 

A questo proposito papa Benedetto in una sua omelia, potremmo dire, inedita, inedita perché fatta da papa emerito, diceva: “noi ci troviamo sulla via di Cristo, sulla giusta via, se, in sua vece e come lui, proviamo a diventare persone che scendono per entrare nella vera grandezza, nella grandezza di Dio che è la grandezza dell’amore.” Collegando queste parole al tempo liturgico che stiamo vivendo, possiamo dire perciò che Gesù passa, Gesù viene a salvarci ed è lui che aspettiamo in questo tempo di Avvento, ma noi dobbiamo farci trovare sulla sua via, sulla strada dove passa Gesù, e papa Benedetto ci ricorda che si trova sulla via di Cristo chi prova a diventare una persona che scende.

 

Del resto questa era anche la vocazione di san Giovanni Battista, emblema, insieme alla Madonna, del tempo di avvento, lui che aveva fatto del suo diminuire, del suo scendere, per lasciar crescere Gesù, il cuore di tutta la sua missione. Anche lui ci invita così a metterci giù, per terra, ai piedi di Gesù, come i malati e le folle di oggi. Da questa prospettiva di abbassamento il Signore si vede meglio, il Signore ci vede meglio, lo si incontra meglio, la realtà e gli altri si vedono meglio.

 

Ma lo stare ai piedi del Signore è un luogo che ci fa tornare in mente anche un’altra situazione che possiamo collegare con il tempo liturgico che stiamo vivendo, ed è la vicenda delle sorelle di Betania, Marta e Maria. Anche qui abbiamo chi sta per terra, Maria ai piedi di Gesù per ascoltare la sua parola. Marta invece stava su, forse troppo su per accorgersi del Signore, lo serviva ma senza accorgersi veramente di lui, senza ascoltare quello che diceva, e infatti il testo dice che Marta “era distolta dai molti servizi”. Si accorgeva solo dell’inutilità della sua sorella, un’inutilità che però piace a Gesù. A Gesù piace che ci sia qualcuno che, stando ai suoi piedi, lo ascolta. Un luogo umile, un luogo inutile che però Gesù definirà “la parte migliore” che non sarà tolta a chi la sceglie. In questo senso in questo tempo di avvento potremmo imparare un po’ questa inutilità che Maria in ascolto ci insegna, l’inutilità di chi prende tempo per rimanere un po’ ai piedi di Gesù, per lasciarsi raggiungere dalla sua parola e dal suo sguardo, perché il Signore quando parla ti guarda negli occhi, guarda la tua vita, si prende cura di te. L’ascolto della parola di Gesù è un evento di guarigione e di nutrimento, come i personaggi del vangelo di oggi. Abbiamo bisogno di imparare questa inutilità e, come dice il Libro di Vita “il mondo ha bisogno che tu dica di essere inutile”. Gesù si china su questi inutili, Gesù si china su questi umili che scendono e si mettono ai suoi piedi. Tutti questi inutili, piccoli e semplici sono i primi che il Signore va a trovare al suo arrivo, perché li trova sulla sua strada, sono i primi che incontra perché si fanno trovare al posto giusto. E lo sentiremo la notte di Natale: i primi ad incontrare il Signore erano proprio dei semplici pastori.

 

Ecco che allora anche noi, forti di questa parola di oggi e di questi testimoni che con la loro vita ci esortano, possiamo provare a chiederci: dove il Signore mi aspetta? Dove vuole che io mi faccia trovare per non mancare al suo passaggio, per non essere assente, ad un piano troppo alto per lui, quando lui arriva? Da dove devo scendere per non essere troppo alto per lo sguardo, la compassione di Gesù? Se rimaniamo chiusi nei nostri castelli forse faremo un buon cenone di Natale, ma non godremo della vera festa, quella degli amici di Gesù.

 

In questo tempo speciale che è iniziato proviamo a metterci ai piedi di Gesù, scendiamo per terra come le folle e i malati di oggi: faremo felici lui, noi stessi e anche i nostri fratelli che da lì vedremo meglio che dalle nostre alte finestre.

 

Domenica 1 dicembre 2013 - Ia Domenica d'Avvento - fr. Massimo-Maria FMJ

 

“ Venite saliamo sul monte del Signore,

perché ci indichi le sue vie

e possiamo camminare nei suoi sentieri.”

 

   Quanto mai opportuno risuona oggi l'invito del profeta Isaia in questa prima domenica di avvento e di inizio di un nuovo anno liturgico.

   Quanto è importante camminare nei sentieri che siano di Dio e lasciarsi indicare da Lui le vie sicure che sono solo le sue. Tante infatti potrebbero essere le vie che crediamo sue, ma sono nostre, tanti sono i cammini che pensiamo del Signore, ma sono in realtà – direbbe il Papa – mondani.

 

   Ecco allora il tempo di grazia di Avvento che particolarmente in un clima di gioia serena e luce limpida viene a ri-orientare il nostro cammino, e ridare vigore al nostro passo e limpidezza all'obiettivo sul quale tenere fisso il nostro sguardo di pellegrini.

   Alla luce del tempo liturgico che si apre e sostenuti dalla Parola proclamata in questa liturgia, possiamo sicuramente individuare tre piste che conducono alle vie di Dio e che con gioia ed alacrità, audacia e determinazione dobbiamo percorrere.

  

   La vigilanza! Il desiderio! La speranza.

 

    Nella pericope evangelica del brano di Matteo, Gesù, parlando del suo ritorno, usa una immagine piuttosto originale, quella del ladro che viene nella notte, all'improvviso per derubare. Ora senza dubbio Gesù non sottolinea tanto il ladro e il furto, ma il fatto che per non essere presi di sorpresa occorre appunto essere desti e vigilanti.

      L'invito è chiaramente quello della vigilanza rispetto al Signore che, dice il testo di Matteo, “ viene”.

      Vigilare perché quando arriverà alla fine dei tempi ci trovi disponibili, pronti, in attesa, operosi nel bene: con le buone opere – dice la liturgia - e così ci ammetta al Regno, ma vigilare anche perché quando “viene” ora, in ogni istante possiamo riconoscerlo, godere la gioia della sua presenza e la pace della sua vicinanza.

       In un certo senso non vigilare perché arriva il punitore, il maestro che bacchetta gli scolari, o il padrone che sferza gli operai, ma vigilare perché arriva Colui che è il nostro tutto e non vogliamo perderlo né oggi nella sua venuta discreta ma reale e rallegrante, né domani nella sua venuta palese e che sancirà per sempre la nostra scelta nei suoi confronti.

       Papa Francesco per vivere questa vigilanza ha indicato qualche giorno fa due “strumenti” che particolarmente in Avvento, ma non solo, siamo chiamati a utilizzare senza parsimonia: la preghiera ed il discernimento.

       La preghiera che se volete ci tiene tutti tesi, orientati al Venient, al Signore. Il discernimento che ci strappa alla superficialità e ci fa non perdere nessuno dei segni che dicono che Gesù viene, qui, ora in una situazione, in una parola, in un avvenimento, in una persona.

        Vigilare quindi nella preghiera e nel discernimento.

       Come è importante porsi spesso la domande: Ma in tutto questo dov'è il Signore? Cosa mi dice? Cosa mi chiede? A cosa mi chiama? Cosa da me attende?

   

      La via della vigilanza sostiene e apre alla via del desiderio.

     Fratelli e sorelle, l'avvento è tempo di grazia per chiedersi con verità: ma noi cosa davvero desideriamo? Davvero desideriamo il Signore? La sua venuta?

      Proviamo ad esaminare in questo tempo il nostro desiderio di Dio, non quello che sappiamo come risposta del catechismo, ma quello profondo, vero, reale, che ci provoca una sana e salutare ansietà. Dall'intensità del desiderio di Dio capiremo la profondità dell'amore per Lui.

     A. Louf, monaco trappista definiva la vita monastica come: "...attesa dolcemente ostinata dello sposo.” Questo è vero anche senza dubbio per ogni vita cristiana autentica. Ma questa attesa che sia dolcemente ostinata postula un desiderio vero, sincero, profondo, incontenibile.

     Quanti desideri allora in questo avvento da presentare al Signore affinché li purifichi, li orienti, li converta, li tolga anche e li renda unificati in uno solo, quello di Lui.

      La vigilanza è sostenuta dal desiderio e certo fatta crescere dalla speranza.

      Vigilare perché il Signore viene, desiderare Lui che ci porti la salvezza con la sua venuta, per il credente si riassume nella speranza che è in un certo senso certezza, che questo si sta compiendo già nella storia personale, comunitaria, universale.

       Il discepolo di Gesù è essenzialmente un uomo e una donna di speranza perché sa semplicemente e sicuramente che tutto ciò è vero, reale, perché fondato, ancorato nella fedeltà di Dio che non ci prende in giro, non ci illude, non delude non ci abbandona......compie ogni promessa.

       In un mondo che pare dare solo segni di disperazione, di morte, di disillusione, di paure e angoscia di fronte al futuro noi una volta di più in questo Avvento dobbiamo non solo non lasciaci rubare la speranza – come dice il santo Padre-,ma di più alimentarla questa speranza.

      Il Signore viene ora, verrà alla fine dei tempi per compiere quello che già si sta lentamente, invisibilmente, ma sicuramente realizzando. E' vero che guerre, sconvolgimenti, cose terribili paiono avere la meglio, ma se noi sappiamo guardare più in profondità, forse anche non troppo lontano da noi c'è chi, magari nella ferialità della vita e nella discrezione  trasforma spade spezzate in aratri; lance  in falci, già c'è chi decide di non esercitarsi più nell'arte della  guerra ma piuttosto di camminare nella luce di Dio.

      Che il Signore allora ci trovi vigilanti, desiderosi di Lui, pieni della serena speranza del Regno perché venga e nella gioia ci rivesta interamente di Lui.

Amen

 

venerdì 29 Novembre 2013 – XXXIV Settimana T. Ordinario – fr.Giovanni-Battista FMJ
 

Nei vangeli che stiamo ascoltando in questi giorni, che sono gli ultimi dell’anno liturgico, con un linguaggio apocalittico ci viene presentata la fase finale della storia, gli ultimi giorni della storia, quando tutto il tempo dell’uomo entrerà pienamente nel tempo di Dio. Sarà davvero tutto in tutti in modo pieno, in modo visibile, e soprattutto, in modo definitivo. Cioè sarà un tempo in cui finirà per l’uomo la possibilità di scegliere da che parte stare, se con Dio o contro Dio, dalla parte del bene o dalla parte del male. La storia sarà tutta unificata, ricapitolata in Cristo.

 

Ora Gesù, se ci racconta questi eventi futuri, che hanno dei tratti anche un po’ spaventosi perché parlano di guerre, calamità, sconvolgimenti cosmici, cioè saranno eventi, giorni in cui sentiremo davvero il peso della nostra fragilità mortale, ontologica e anche morale, ecco, se Gesù ci mette in guardia su quanto accadrà, non è tanto per farci paura, per terrorizzarci. Ma più che altro per sollecitare la nostra attenzione su come viviamo il presente. Rivelandoci la destinazione ultima della storia Gesù è come se ci dicesse tre cose: la prima è che la storia ha anche una destinazione, e se ha una destinazione vuol dire che ha una direzione, e se ha una direzione significa perciò che ha un senso. La seconda è che questa destinazione ultima della storia non sarà l’uomo, per quanto potente ed influente nella storia, a deciderla ma sarà Dio stesso, e questo è per noi sia fatica e ascesi sia garanzia di liberazione. La storia, volente o nolente, converge verso questo punto stabilito da Dio e secondo una cronologia che a noi sfugge. La storia è nelle mani di Dio! È quanto abbiamo celebrato domenica nella feste di Cristo Re dell’universo, cioè del tempo e dello spazio. Terza cosa, Gesù mediante questi racconti apocalittici ed escatologici forse vuole chiederci: voi, all’interno di questo universo spazio-temporale, che direzione, che senso date alla vostra storia, alla vostra vita? A noi la risposta. Dove siamo e come ci collochiamo di fronte a questi eventi? È importante farsi queste domande perché Gesù, se ci pensiamo bene, ci da tutti gli strumenti, tutto ciò di cui abbiamo bisogno, per non navigare a vista nella nostra vita e nelle nostre scelte ma al contrario per vivere bene il presente. Cioè viverlo con discernimento, non come viene viene, ma conoscendo il senso del nostro tempo, vivendo con profondità, con sobrietà e con cuore libero, come ci direbbe il vangelo di domani che però non leggeremo perché c’è la festa di sant’Andrea: “state attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso”. Gesù ci invita a guardare a questo futuro che Lui in modo un po’ misterioso ci rivela, non per farci paura ma per farci vivere bene il nostro presente: diceva papa Benedetto nella sua enciclica sulla speranza: “La fede in Cristo non ha mai guardato solo indietro né mai solo verso l’alto, ma sempre anche in avanti verso l’ora della giustizia che il Signore aveva ripetutamente preannunciato. Questo sguardo in avanti ha conferito al cristianesimo la sua importanza per il presente” (§ 41)

 

In particolare nel vangelo di oggi Gesù ci indica uno strumento di grande importanza, una guida del tutto speciale per illuminare il nostro presente e per orientare il nostro cammino perché, appunto, non sia un navigare a vista, che rischierebbe di essere del tutto autoreferenziale. E questa guida è la Sua Parola. La Parola del Signore, che è espressione limpida della sua volontà di salvezza per l’uomo, cioè esprime tutto quel desiderio di alleanza e di amicizia di Dio con l’uomo, quel desiderio che l’uomo viva e viva sempre anche aldilà di questa vita ferita dal peccato e dalla morte, la parola del Signore ha questo di eccezionale: che è presente ed efficace nel nostro tempo pur senza essere limitata a questo tempo perché come dice il vangelo di oggi, non passerà mai. Se il cielo e la terra passeranno, le mie parole non passeranno. Obbedire a questa parola significa dunque prendere la strada giusta, non solo vivere bene oggi, ma soprattutto orientarsi con sicurezza verso quei cieli nuovi e terra nuova che prenderanno il posto degli attuali.

 

A cavallo allora tra quest’anno liturgico che si compie e il nuovo che si apre nell’attesa del Signore che viene, a cavallo tra un tempo che si consuma e un nuovo tempo che ci viene donato come talento da investire, da far fruttare per la nostra conversione e quella dei nostri fratelli, un tempo di cui dobbiamo rendere grazie, Gesù ci consegna la sua Parola, come pegno, come tesoro e nutrimento per il viaggio, ricordandoci che non saremo pellegrini per sempre e che dunque, finché lo siamo è importante imboccare la strada giusta, quella che la sua parola ci indica, perché il tempo si è fatto breve.

 

Domenica 24 Novembre 2013 – Cristo Re – fr. Giovanni-Battista FMJ
 

La figura del re in Israele porta in sé fin dalla nascita delle ambiguità. Se diamo uno sguardo, infatti, all’Antico Testamento, e più in particolare a quel periodo di passaggio dall’epoca dei giudici all’epoca della monarchia, vediamo che la presenza di un re in Israele fu una condiscendenza di Dio, non un suo comando o una sua volontà espressamente manifestata, ma solo un tollerare, un accettare un’iniziativa del popolo. Dio all’inizio non voleva che Israele avesse un re perché la sua richiesta di un re era proprio espressione di una volontà implicita di mettere Dio da parte. Diceva il Signore a Samuele: “Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dicano, perché non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di loro”. Il popolo chiede un re per esser come gli altri popoli (lo spirito del mondo già soffiava sulle Dodici tribù), e il profeta Samuele ammonirà subito l’ingenuità di questo desiderio con parole di realismo, un realismo che, purtroppo, troverà conferma anche in altre epoche della storia: Fate attenzione israeliti perché “il re prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli … li costringerà ad arare i suoi campi e mietere le sue messi … prenderà le vostre figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie … metterà la decima sulle vostre greggi e voi stessi diventerete suoi servi.” Questo fu l’ammonimento di Samuele agli israeliti che chiedevano un re, un ammonimento che però rimane inascoltato: “No! Ci sia un re su di noi. Saremo anche noi come tutti i popoli; il nostro re ci farà da giudice, uscirà alla nostra testa (espressione tra l'altro simile a quella usata per il vitello d'oro, un dio che cammini alla nostra testa) e combatterà le nostre battaglie.” (cf. 1 Sam 8) Per cui la figura del re in Israele si presenta già fin dalla sua nascita carica di tutte queste contraddizioni, di tutte queste ambiguità, quelle cioè, da un lato, di un re che conduce alla salvezza il suo popolo (questa era la speranza degli Israeliti), un re salvatore che appunto cammina davanti al popolo, è il primo a dare la vita per tutti; e un re che invece si servirà del popolo per il suo regno, farà dei suoi sudditi strumenti del suo regno e non più fine del suo regno; un re che dunque cerca di salvare se stesso prima che il suo popolo. Il desiderio di Israele di essere come gli altri popoli si rifletterà anche su diversi dei suoi re che saranno re come i re delle nazioni pagane.

 

Ora, se noi leggiamo il vangelo di oggi ritroviamo esattamente la stessa tensione, la stessa presenza di questi due modi di concepire il re, ossia, quello del re che salva se stesso e quello invece del re che è il primo a dare la vita per salvare gli altri, che è Gesù C’è chi dice proprio questo: se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso. Per cui la prova della regalità sarebbe in questo caso la propria salvezza, Gesù dovrebbe dimostrare agli altri che è veramente re perché vince la Croce non attraversandola ma evitandola. È ancora una volta l’idea mondana di re, il re super-eroe, il più forte e potente di tutti, il prediletto da Dio che dunque non sfiora nemmeno la tragicità della sorte umana; è questa idea di re che viene proiettata sulla persona di Gesù. Gesù, secondo quest’ottica non è un vero re perché non salva se stesso. Tutti dubitano della sua regalità e cercano pure di gettare addosso a Gesù questo dubbio con la frase provocatoria: “se tu sei il re dei Giudei” un “se” che ci fa tornare in mente il “se tu sei il figlio di Dio” sussurrato dal demonio all’orecchio di Gesù nel deserto. Qui è come se Gesù si trovasse davanti all’ultima tentazione, quella del scendere dalla Croce per mostrare a tutti la sua onnipotenza. Ma Gesù rinuncia ancora una volta a quest’ultima seduzione. Capiamo bene perché Gesù, nel suo ministero pubblico, stava zitto e invitava sempre i suoi apostoli al silenzio sull’identità della sua persona e ne parlava solo in privato, ai suoi più intimi discepoli: perché troppo forte era il rischio che il Dio vero venisse frainteso, troppo forte era il pericolo che il Messia atteso da secoli, venisse celato, pilotato, e potremmo persino dire, bestemmiato, dalla proiezione in grande dell’io egocentrico e assetato di potere dell’uomo. La venuta del Figlio di Dio sulla terra sarebbe stata una non-rivelazione e non la manifestazione del Dio amore, del Dio crocifisso. Gesù è consapevole di questi pericoli che hanno osteggiato tutta la sua vita terrena e per questo sempre fuggiva le acclamazioni trionfali di chi lo voleva il re che moltiplica i pani, il re che fa i miracoli, il re che risuscita i morti, insomma il re che gratifica. Oggi invece Gesù si rivela per molti non come il re che gratifica, ma come il re che delude (le aspettative mondane), il re che è meglio non guardare tanto è sfigurato il suo aspetto per essere ancora umano, il re che preferiremmo non conoscere e infatti quasi tutti i suoi discepoli scapperanno dal Golgota e Pietro dirà di non conoscerlo.

 

Solo uno, nel brano di oggi, capisce che Gesù non è re per queste ragioni, ma è re perché è uomo fino in fondo, soffre con l’uomo, piange con l’uomo e accompagna l’uomo fin nella fogna più nera della morte. Solo uno capisce che Gesù è re perché liberamente si spinge fino a questo inferno della crocifissione: colui, che accanto a lui, ne condivide la sorte: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” Tra i due crocifissi con Cristo, nel loro modo di guardare a Gesù, uno che lo insulta come un fallito, l’altro che scopre che sta morendo per lui e lo professa Dio, si ripresenta per l’ennesima volta la secolare tensione che ha segnato la storia d’Israele e che abita nel cuore dell’uomo di sempre, quella tensione che può decidere anche del nostro cristianesimo di oggi, quella tra il re che si salva e il re che muore per salvare gli altri.

 

Di fronte a questa ambiguità che anche noi ci portiamo dentro e con cui dobbiamo fare i conti ogni giorno della nostra vita, una domanda ci si pone oggi senza possibilità di fuga: di quale re noi vogliamo essere sudditi? Nella prima lettura il popolo osanna Davide dicendo: “noi siamo tue ossa e tue carne”, ecco, noi di quale re vogliamo essere carne e ossa? Che religione vogliamo vivere? Quale Dio vogliamo servire nella nostra vita? Quale modello di discepolato stiamo cercando di incarnare nel nostro cristianesimo e nella nostra vita consacrata?

 

Il vangelo di oggi ci pone questa domanda e ci invita a dare una risposta, non solo guardando a noi stessi, alla nostra coscienza e ai nostri desideri, ma soprattutto guardando Gesù crocifisso. Oggi guardiamo Gesù Crocifisso e impariamo da lui come essere cristiani. Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani, ci chiede se, con lui e come lui, vogliamo anche noi divenire “scandalosi e stolti” come lui lo è stato agli occhi dei pii e degli intelligenti del suo tempo, i grandi della religione e i grandi dell'erudizione, che si erano messi così in alto da non accorgersi che il Re dell'universo era quel “maledetto” che pendeva dal legno.

 

Ancora una volta il Dio vero spiazza tutti, la Verità spiazza tutti, rivelando le contraddizioni del falso, dell'artificioso, del tarocco, dell'apparente. In questa contraddizione si colloca lo spazio della nostra conversione, del modo di pensare oltre che del modo di agire, se accettiamo di essere anche noi spiazzati, contraddetti dai suoi pensieri che non sono i nostri pensieri, dalle sue vie che non sono le nostre vie. (Cf. Is 55,9)

 

venerdì 22 Novembre 2013 – XXXIII Settimana T. Ordinario – Commento ora media - fr.Giovanni-Battista


        La persecuzione che il popolo ebreo sta subendo ad opera dell’impero di Antioco IV giunge ad un momento di svolta. Gli israeliti zelanti, quelli che non intendono cedere ad un cambiamento culturale e religioso imposto con la forza, preferiscono morire pur di abbandonare il Signore. La situazione provocata dall’oltraggio subito dai pagani, che si era spinto fino a profanare il tempio di Gerusalemme costruendo un altare dedicato a Zeus proprio sopra l’altare dei sacrifici, poneva in serio pericolo non solo il culto al Dio dei padri, ma l’esistenza stessa del popolo di Dio che o apostatava o veniva eliminato. “Ecco le nostre cose sante, la nostra bellezza, la nostra gloria sono state devastate, le hanno profanate le nazioni. Perché vivere ancora? (1 Mac 2,3)”. “La gioia era sparita da Giacobbe, erano scomparsi il flauto e la cetra” (1 Mac 1, 45).

Mattatia, protagonista della lettura di ieri, fu il primo a dire no, con tutta la sua famiglia, no all’apostasia, sì al Signore: “Se non combatteremo contro i pagani per la nostra vita e per le nostre leggi, in breve ci faranno sparire dalla terra” (1 Mac 2,40). Alla sua morte l’impresa fu portata avanti dai suoi figli, soprattutto da Giuda Maccabeo che guidava il piccolo gruppo di ribelli.

In questa lotta contro il potere nemico essi capiscono ben presto che non sono soli a lottare contro il male. Per quanto sguarnito e poco numeroso, il piccolo gruppo di fedeli, memore degli antichi successi del popolo d’Israele, rivive i prodigi dell’Esodo, quando il Signore stesso combatteva contro l’Egitto. Il Signore, come un tempo, anche ora è dalla loro parte, ed essi ottengono grandi successi contro eserciti esperti nella guerra e ben organizzati. Ma ciò che forse dava loro ancora più gioia era scoprire che la loro sorte non era in mano ai potenti del tempo, non era in mano al più forte, ma c’era una giustizia superiore, un Re sopra tutti i re, un Dio sopra tutti gli dèi della terra, che libera il debole dal più forte, il misero e il povero dal predatore (Cfr Sal 35 (34) 10). Le loro vittorie non erano vittorie personali ma era il Signore che difendeva se stesso e combatteva per i suoi amici.

Per questo, appena fu loro possibile, Giuda e i suoi decisero di riconsacrare il tempio di Gerusalemme dopo la profanazione subita. In questa celebrazione non è solo uno spazio, quello del tempio e dell’altare, a ritornare sacro; ma è l’intera storia da loro vissuta che viene riconsegnata al suo vero autore, se ne riconosce la sacralità che le viene dall’intervento in essa del Signore, Colui che trascende e il tempo e il tempio pur rimanendo immanente ad entrambi. Passato, presente e futuro, vengono ricapitolati nel culto al Dio eterno autore della salvezza: come liberò un tempo i nostri padri, così ora ha liberato noi e ci libererà ancora. Ed è per questo che si presenta la necessità di fare memoria anche in futuro di questi giorni di festa, celebrando ogni anno, per otto giorni, la festa della dedicazione dell’altare.

Cosa ritenere da queste vicende che forse possono lasciarci perplessi per l’uso, quasi giustificato che si fa secondo la logica, e potremmo dire anche, della teologia del tempo, della violenza e della guerra a servizio di Dio? Per quanto distante dalla nostra mentalità di cristiani, la testimonianza di questi fedeli alla Legge ci ricorda in modo molto plastico che la fedeltà al Bene, con la B maiuscola, implica persone disposte a lottare contro il male. Una lotta che non porteremo avanti con armi che uccidono e feriscono, ma con le armi potenti del perdono, di una testimonianza coerente al Vangelo in parole ed opere, e con l’efficacia suprema della preghiera. Ancor di più per noi monaci cittadini si pone l’urgenza della battaglia, come riconosce anche il nostro Libro di Vita: “il monachesimo urbano richiede gente che lotta” (§ 129). La lotta evangelica non è altro che assumere i tratti di Gesù, del Suo modo di lottare, disarmato e disarmante, come i martiri, tra cui santa Cecilia, hanno avuto il coraggio di imitare. Gesù e i martiri inaugurano un nuovo modo di lottare, assurdo per la mentalità bellica e vendicativa che ancora un po’ regna nel nostro tempo: si tratta della lotta dell’amore che amando anche il nemico e persino il carnefice, gli presenta quell’arma che può annientare l’odio che porta in sé: la scoperta di essere amato. Quante conversioni da questa scoperta! Ed è per questo che si dice che il sangue dei martiri, Gesù in testa, è semen christanorum. Anche questo è cercare e lavorare per il regno di Dio e la sua giustizia: non lasciarsi vincere dal male, ma vincere il male con il bene (cfr Rm 12,21)

 

mercoledì 20 Novembre 2013 – XXXIII Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ


Il vangelo di oggi potremmo forse intitolarlo ‘fiducia e paura’. Sono questi i due terreni, per usare un’immagine, in cui vengono seminati i doni che il re della parabola fa ai suoi cittadini. Fiducia e paura sono i veri protagonisti della parabola di oggi: fiducia dell’uomo nobile che affidando ai suoi servi le monete d’oro si espone con loro, si fida di loro, da loro qualcosa di proprio e di prezioso. Fiducia dei primi due servi che rispondono alla chiamata ricevuta, alla fiducia ricevuta con la loro operosità fiduciosa. E infine paura del terzo servo che nasconde la moneta in un fazzoletto. Ci troviamo di fronte ad una panorama di immagini che richiama a situazioni molto reali, concrete, per nulla fantasiose, della nostra vita umana e spirituale, della nostra relazione con Dio e anche, possiamo dirlo, del nostro rapporto con gli altri. Paura e fiducia sono due dei poli in cui si gioca la nostra relazione con l’esterno, con ciò che sta fuori di noi, che sia Dio, che sia l’uomo, che siano le cose, che siano tutte e tre questi interlocutori.

 

Secondo il vangelo di oggi la fiducia porta alla fedeltà e alla bontà: bene servo buono ti sei mostrato fedele nel poco ecc.. La paura porta a chiudere la moneta, metafora non solo di ciò che abbiamo ma di ciò che siamo, in un fazzoletto, certo al sicuro, ma anche nell’isolamento. La fiducia apre, dilata, da coraggio, da la forza di rischiare, di esporsi per portare a termine il mandato ricevuto. La paura chiude, blocca, non è solo un sentimento del cuore, ma è qualcosa che ha un riverbero sulle nostre azioni, è un’energia negativa, una non-energia, che ci rinchiude in noi stessi.

 

Ma paura di che? Da cosa nascono le nostre paure e da dove può venire invece la nostra fiducia? Secondo la parabola di oggi il terzo servo ha paura perché sa che il re è un uomo severo che prende quello che non ha messo in deposito. L’immagine del padrone che porta in sé determina fortemente, totalmente in questo caso, la sua azione. Questa è una prima fonte della paura: le immagini, i fantasmi che ci portiamo dentro. Spesso abbiamo paura di fantasmi più che della realtà; ed è così anche per il terzo servo. Spesso ci fidiamo più dei nostri fantasmi che della realtà che ci sta intorno. Però il terzo servo non ha tutti i torti, in parte ha ragione nel definire il suo padrone come uomo severo che prende ciò che non ha messo in deposito ecc. , e il padrone non lo contraddice, non gli dice: non è vero non sono severo. Cosa manca però al terzo servo per liberarsi da questa paura che lo blocca? Gli manca una sguardo più completo perché questo servo vede solo una parte del volto del suo padrone, vede solo l’esigenza della lavoro da fare, il traguardo da raggiungere, il dovere da attendere e di cui rendere conto, ma non coglie la fiducia del padrone che l’ha incaricato dandogli qualcosa di suo. Vede il dovere da compiere senza cogliere la relazione in cui questo dovere si colloca e da cui nasce. Rinunciando alla missione che il padrone gli affida, rinuncia anche a fare esperienza di lui, del suo modo di agire. Per questo sarà spinto più ad una relazione di timore e di rispetto che a una relazione di fiducia e di amore. E questo fa del padrone un nemico a priori, un avversario con cui non avere a che fare e con cui non entrare in relazione.

 

Però una cosa possiamo imparare da questo servo malvagio, non certo l’avere paura e il rimanere bloccati in essa, ma avere il coraggio di riconoscere, come lui, le nostre paure. Come lui dobbiamo dirci: ho avuto paura. Perché spesso non solo anche noi siamo bloccati dalle paure, di Dio, degli altri, dei nostri difetti e delle nostre immaturità che ci rovinano l’immagine, ma facciamo fatica a riconoscere che abbiamo paura. La paura ci fa paura e così abbiamo paura di dirci che abbiamo paura. E preferiamo rimanere chiusi nel nostro elegante, rassicurante fazzoletto, piuttosto che vincere le paure. Ecco che dal terzo servo possiamo imparare questo: vedere e riconoscere quali sono le nostre paure. Il primo passo per vincerle è riconoscere che ci sono davvero e dirci quali sono. Anche noi, senza aspettare il momento del rendiconto finale a cui questa parabola fa riferimento, dobbiamo avere la sincerità, prima che il coraggio, di riconoscere quali sono le nostre paure. Non abbiamo da dimostrare nulla a nessuno perché Dio, non cerca dei super uomini, e i santi non sono dei super uomini, come ci ha ricordato anche il Papa, né sono nati perfetti. Sono come noi, come ognuno di noi, sono persone che prima di raggiungere la gloria del cielo hanno vissuto una vita normale, con gioie e dolori, fatiche e speranze. Ma che cosa – ha aggiunto il Papa – ha cambiato la loro vita? Quando hanno conosciuto l’amore di Dio, lo hanno seguito con tutto il cuore, senza condizioni e ipocrisie; hanno speso la loro vita al servizio degli altri, hanno sopportato sofferenze e avversità senza odiare e rispondendo al male con il bene, diffondendo gioia e pace. La paura ci impedisce di conoscere l'amore di Dio. L’amore invece scaccia il timore, la misericordia libera dal peccato e custodisce sicuri da ogni turbamento. Di questo abbiamo bisogno di fare esperienza per vivere non solo da servi ma da amici, e come dice il nostro Libro di vita, “da uomo sottomesso diventa figlio che collabora.”

 

venerdì 15 Novembre 2013 – XXXII Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ (Strasbourg)

 

Dans l'évangile d'aujourd'hui, Jésus fait une comparaison entre les jours du Fils de l'homme et les jours de Noé et de Lot.

 

Si nous relisons les chapitres de la Genèse qui parlent de l'histoire de Noé et de Lot, deux aspects très différents, qui sont aux antipodes entre eux, sont présentés à notre attention : d'une part la méchanceté des hommes , le mal radical du cœur humain ; le texte dit même que «le cœur de l'homme ne formait que de mauvais desseins » et « le Seigneur se repentit d'avoir fait l' homme sur la terre et il s'affligea dans son cœur » (Gn 6,5-6 ). D'autre part, le désir de Dieu de purifier et sauver le genre humain, un désir de salut du Seigneur pour l'homme qui se réalise dans l' appel adressé d'abord à Noé  ensuite à Lot  à se sauver face au désastre imminent. Nous avons donc, d'une part , les hommes qui mènent leur vie selon leur désir, comme Jésus aussi le dit: " on mangeait, on buvait, on se mariait" et qui ne sont pas au courant des plans de Dieu; et d'autre part, l'intervention de Dieu dans l'histoire qui saisit tout d'un coup , par surprise, sauf ceux qui avaient été préparés  à cette action. Il y a une histoire qui semble aller  son propre chemin dans laquelle s'inscrit le plan de Dieu.

 

Ces  aspects nous les retrouvons  aussi bien au temps de Jésus, comme lui même le met en lumière dans l'évangile, que de  nos jours, où beaucoup mangent, boivent, achètent, vendent, bref  vivent comme si Dieu n'existait pas et  ne saisissent donc pas le but et le sens de leur marche dans le temps.

 

Pour nous aussi il est urgent, nécessaire,  d'être avertis chaque jour  de passer d'une existence toute occupée d'elle-même, toute plongée en elle-même comme si rien d'autre n'existait que nous et le temps présent dont tirer profit, à une vie qui, comme le texte de la Genèse le dit de Noé, marche avec Dieu, au pas de Dieu, sous le regard et dans l'écoute de l’appel quotidien de Dieu. Une existence qui ne regarde à elle-même qu' après avoir saisi le regard de Dieu  sur elle, et munie de cette  nouvelle intelligence,  lumineuse, prophétique aussi dirions-nous,  avance vers son but.

 

A ce stade, nous pouvons voir un autre aspect de la similitude entre les jours de Noé et de Lot et les jours du Fils de l'homme, une analogie que nous pourrions considérer synthétisée en ces mots de Jésus: "Qui cherchera à conserver sa vie la perdra, et qui la perdra la sauvegardera"  Le jour qui manifestera le Fils de l'homme manifestera aussi dans toute sa vérité et de manière inévitable notre radicale incapacité à nous sauver tous seuls, de nous-mêmes. Toute tentative d' “auto - salut” ne mènera à aucun résultat , sera vaine et totalement inefficace . Il s'agit d'une logique qui commande déjà notre vie terrestre: sans Jésus nous ne pouvons rien faire . Sans Jésus, non seulement nous ne pouvons pas vaincre la mort , mais nous ne pouvons même pas nous libérer du péché qui déjà tue un peu notre vie, la rend un peu moins vie et un peu plus mort . Le saint , le chrétien radical n'est rien de plus, en fin de compte, qu'un homme  qui accepte de se laisser sauver par Jésus, qui accueille dans toute sa vie et par toute sa vie, sans faire de choix sélectifs , (ceci oui, cela non ) la parole de Dieu qui blesse et guérit , purifie et renforce , met à l’épreuve et console . Comme nous l'a dit, il y a quelques jours, le Pape François: «Les saints ne sont pas des super-hommes , ne sont pas non plus nés parfaits. Ils sont comme nous, comme chacun de nous, ce sont des gens qui avant d'arriver à la gloire du ciel ont vécu une vie normale, avec ses joies et ses peines , ces luttes et ses espoirs . Mais qu'est-ce qui a changé leur vie?”, a ajouté le Pape. “Quand ils ont connu l'amour de Dieu , ils l'ont suivi de tout leur cœur, sans conditions et sans hypocrisie; ils ont passé leur vie au service des autres, ont enduré la souffrance et l'adversité , sans haine et en répondant au mal par le bien, répandant joie et paix. " ( Angelus , 1 Novembre 2013).

 

L’évangile d'aujourd'hui n'est donc pas une invitation à avoir peur des jours du Fils de l'homme, du jour où nous rencontrerons le Seigneur face à face , ni du jour où nous sera demandé de rendre compte de notre vie, mais il s'agit plutôt d'une exhortation à nous préparer, à nous entraîner tous les jours à cette rencontre, à nous accrocher dès aujourd'hui à la main que le Seigneur nous tend , la seule qui peut vraiment nous arracher au mal et à la mort. C'est reconnaître que nous avons besoin de l' amour et du salut de Dieu, et faire de ce besoin chronique, ontologique de nos vies, la porte par où nous laisser rejoindre par la puissance salvatrice de Jésus.

 

mercoledì 13 Novembre 2013 – Mercoledì XXXII Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ


Il vangelo di oggi è un vangelo che ha molto da dirci e da insegnarci, qualcosa che va oltre il miracolo compiuto da Gesù, che va oltre la guarigione fisica per arrivare ad una guarigione integrale dell’uomo che coincide con la sua salvezza. Ed è proprio questo il culmine della vicenda di oggi, l’annuncio di salvezza di Gesù sul lebbroso: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato”. Il racconto di oggi, nella sua semplicità, tocca il come ed il perché noi andiamo a Gesù, il come ed il perché noi cerchiamo il Signore, un come ed un perché che trovano risposte diverse nei protagonisti di oggi, i dieci lebbrosi.

 

La vicenda si gioca su due movimenti: il primo è il movimento dei dieci lebbrosi che, dice il testo, “vennero incontro a Gesù”, rimanendo a distanza lo chiamano, invocano il suo aiuto, chiedono la sua misericordia e ottengono la guarigione sperata. Punto e basta. La relazione con Gesù, per nove di loro, si esaurisce qui. Esauritosi lo stato di bisogno si esaurisce anche la loro sete di lui. Finita la necessità finisce anche l’interesse a correre a lui, a gridare a lui, a invocare il suo aiuto. Al centro di questo incontro non c’è la relazione con Cristo, ma il beneficio che si può ottenere da lui.

 

Gesù però non è soddisfatto, e nel mostrare la propria delusione mostra anche qual’era lo scopo del miracolo concesso ai lebbrosi: l’incontro con loro, l’ingresso in una dimensione di dialogo che Gesù esprime con il “tornare a rendere gloria a Dio”. Un lebbroso però torna indietro, un lebbroso che forse non tollerava l' aver visto solo da lontano colui che l’ha guarito: voleva vederlo bene, forse abbracciarlo, comunque voleva essergli vicino, voleva conoscerlo. Allora torna indietro e fa quello che prima non poteva fare, non solo con Gesù ma con nessun altro uomo sano, in quanto lui era un lebbroso e non poteva avvicinarsi a nessuno: si butta ai piedi di Gesù. Ecco che per quest’uomo Gesù non pronuncerà solo una diagnosi, per così dire, di guarigione, ma addirittura, una sentenza di salvezza: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato”. Gesù non solo gli fa passare la lebbra che era quanto lo isolava da tutti, gli impediva di vivere una vita normale con gli altri, ma Gesù gli regala soprattutto una relazione nuova con se stesso, lo mette in comunione con lui, lo salva, pur non essendo nemmeno un membro del popolo eletto perché era un Samaritano, uno straniero, politicamente e religiosamente estraneo. Grazie a Gesù quest’uomo incontra Dio, ritrova la propria salute, si orienta, dopo questo incontro, ad una nuova relazionalità con gli altri: questi sono i frutti della salvezza, queste le conseguenze dell’amicizia con Gesù!

 

Da questi due movimenti del vangelo si pongono allora per noi due icone, due modelli del vivere la nostra vita di fede. Il primo modello è quello che vede in Gesù una tappa del proprio cammino: vado incontro a Gesù tenendo le distanze a causa della mia lebbra, che possiamo facilmente identificare con la lebbra del nostro peccato, chiedo ciò che voglio, lo ottengo e poi proseguo oltre per la mia strada. Questo è il primo modello, il modello nel quale Gesù non è il mio fine ma è una tappa dove transitare; poi vado avanti per la mia strada, non torno da Gesù. Il secondo modello è invece il modello del “tornare indietro”, un rallentare, arrestare la propria corsa per tornare a Gesù e riconoscere il suo dono, riconoscere me stesso, la mia vita come suo dono e rendere, davanti a lui, gloria a Dio. Tornare a Gesù per ripartire da Gesù.

 

A noi il collocarci in uno dei due modelli: quello dell’andare avanti, dritti per la nostra strada,o quello del tornare al Signore. A noi chiederci che relazione vogliamo vivere con il Signore, se mi interessa una sorta di lucro, di guadagno, e poi tengo bene le distanze con il Signore, oppure se mi interessa essere suo amico, essere un suo adoratore, essere un testimone che può dire a tutti: “il Signore mi ha amato e ha dato se stesso per me”, come diceva san Paolo. Sta a noi allora la scelta, se vogliamo solo ottenere qualcosa dal Signore o se vogliamo incontrare lui. Ha proprio ragione san Silvano del monte Athos quando diceva “Credere in Dio è una cosa, conoscerlo un’altra” (pag 188).

 

giovedì 7 Novembre 2013 – XXXI Settimana T. Ordinario – fr.Giovanni-Battista FMJ


Il vangelo di oggi, con due delle splendide parabole della misericordia, ci rivela un volto particolare del Signore, un volto che se stasera vogliamo scoprire e lasciarci raggiungere dal suo sguardo dobbiamo fare una scelta previa, dobbiamo disporre il cuore, la mente, cioé intelligenza, affetti e volontà, nel modo giusto. L'introduzione del vangelo di oggi infatti ci mostra due modi ben diversi di accostarsi a Gesù che parla: quello dei farisei che mormorano e quello dei peccatori che ascoltano. I farisei se mormorano è perché credono di saperne di più di Gesù tanto che si possono permettere di criticare il suo atteggiamento. La mormorazione infatti è l'esatto contrario dell'ascolto, esprime una diffidenza di fondo, una non fiducia, che trabocca anche nelle parole: ma costui accoglie i peccatori e mangia con loro! I peccatori invece sanno di non saperne di più di Gesù, consapevoli della loro miseria morale vogliono imparare qualcosa e si avvicinano a lui e lo ascoltano. Anche noi allora stasera possiamo chiederci da che parte stare: dalla parte di coloro che credono già di sapere tutto e non hanno niente di nuovo da imparare dalla bocca di Gesù, oppure dalla parte di coloro che hanno bisogno di crescere, hanno bisogno di essere guariti dal peccato, hanno bisogno di essere cercati. Preparare il cuore nel modo giusto è quanto ci consente non solo di sentire la Parola ma di accoglierla in noi e lasciarla agire, lasciarci cambiare.

 

E questa Parola stasera, come dicevamo, ci rivela un volto particolare del Signore, un Dio che è alla ricerca dell'uomo. Il pastore lascia le novantanove per cercare la pecora perduta. Chi è questa pecora perduta? É l'uomo che, con il peccato, si allontana da Dio, è l'uomo che si allontana da Dio si smarrisce e rimane solo; l'uomo che perde Dio perde anche se stesso. É il vivere per se stessi e morire per stessi di cui ci parla Paolo nella prima lettura: tutto parte da me e tutto ritorna a me, non c'è nessun'altro all'infuori di me stesso. E attenzione, questo modo di pensare è il più stimato e valorizzato oggi giorno: l'uomo che si arrangia da sé, l'uomo che non ha bisogno di nessuno è il vero uomo, che è riuscito a divenire immune da ogni necessità di essere umile, da ogni necessità di aver bisogno degli altri e di Dio. É l'uomo autosufficiente. Ma l'uomo autosufficiente, lo sappiamo, in fin dei conti è un uomo solo! Ciò che mette in pericolo la pecora perduta è proprio l'aver abbandonato questa relazione con il Signore e con le altre pecore del gregge, questo è il vero pericolo e il peccato è proprio la strada per giungere a questo stato di solitudine e di separazione da Dio e dagli altri. Qualche volta anche in noi rimane un po' il miraggio, il segreto desiderio, il prurito di questa vita finalmente emancipata, autonoma, finalmente sono indipendente e faccio da me. È il vivere per se stessi e morire per se stessi che sta esattamente all'opposto del vivere per il Signore. Finché siamo quaggiù non siamo mai del tutto vaccinati a questa malattia. Ma c'è una medicina, c'è una terapia che può essere o una prevenzione o una vera e propria cura di recupero, e che la parabola ci presenta con l'immagine della pecora ritrovata. La medicina è proprio questa: il lasciarsi ritrovare e prendere da Gesù, fuori di metafora, il fare esperienza dell'amore che il Signore ha per noi, che ha per me, amore speciale, personale, così unico per ciascuno che impedisce gelosie ed invidie. Così è l'amore di Gesù per noi. Perché il pastore va a cercare non le pecore, ma la pecora. La donna non trova le monete, ma la moneta. Fare esperienza di questo amore, cioè scoprire che c'è davvero e che è per me e per me solo, perché per gli altri il Signore ha gli altri suoi infinti modi tutti unici, tutti ad hoc per amarli e trovarli, ecco lo scoprire e fare veramente questa esperienza ci strappa a noi stessi per restituirci ancora a noi stessi ricchi di un amore che prima ignoravamo nella nostra solitudine.

 

Infine un'ultima cosa che possiamo scovare nella parabola di oggi è l'immagine della pecora che rientra nel gregge non da sola ma sulle spalle del pastore. Proviamo a pensare le altre pecore rimaste nel gruppo cosa vedono: non vedono solo la pecora, ma vedono anche quanto il pastore che ce l'ha sulle spalle le vuole bene, e allora anche loro, se vedono che il pastore vuole così bene a quella pecora, cercheranno di amarla così, come la ama il pastore. E quanto dobbiamo fare anche noi gli uni con gli altri: vederci, guardarci, stimarci non con i nostri occhi, le nostre valutazioni, se no va a finire che facciamo come i farisei che mormoravano. Ma, almeno un attimo, almeno un pochino, proviamo non solo a vedere il fratello, la sorella, il coniuge, il collega di lavoro, il datore di lavoro, ma anche a vedere l'amore che Gesù ha per lui, quell'amore unico e irripetibile che ha per ciascuno ad hoc, e allora, in quell'istante, forse vedremo non solo Gesù che porta lui o lei sulle spalle, ma anche Gesù che porta noi, e sarà davvero gioia grande davanti agli angeli di Dio.

 

venerdì 1° Novembre 2013 – Solennità di Tutti i Santi - fr. Giovanni-Battista FMJ


Celebriamo oggi la solennità di tutti i santi, giorno nel quale siamo particolarmente invitati ad unirci alla preghiera di questi nostri fratelli e sorelle che ci hanno preceduto nel cammino cristiano, e che l’hanno portato a compimento, aiutati dalla grazia di Dio. Il prefazio, cioè quella preghiera che diremo prima della consacrazione parla dei santi come di amici e modelli di vita, cioè come dei compagni di viaggio che ci sono vicini, con la loro intercessione, nel nostro cammino verso la Gerusalemme del Cielo; ma anche come modelli, cioè come esempi veri e propri, concreti, che il cammino della santità è possibile per tutti coloro che lo desiderano. Loro sono la prova che la santità non è qualcosa di assurdo o irrealizzabile. A nessuno, in qualsiasi stato di vita cristiana si trovi ecc. è chiuso il cammino della santità.

 

Le letture che ci sono proposte per questa festa ci invitano a riflettere un pochino sull’identità di questi santi, cioè su chi sono i santi. E guardando alla seconda lettura vediamo che il santo non è altro che qualcuno che è diventato pienamente figlio di Dio. Il santo è qualcuno che è generato dall’amore di Dio. “vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio e lo siamo realmente”. L’amore del Padre ci ha generati e continua a generarci come figli di Dio. Noi in quanto cristiani e figli di Dio veniamo da questo amore del Padre in Cristo e camminiamo verso la realizzazione sempre più piena di questa vita di carità. Da questo dono che è identità profonda per noi discende un primo dovere di cristiani che è proprio quello di non dimenticare mai da dove veniamo, non dimenticare che è l’amore del Padre che ci ha generati, ed è un amore che dobbiamo sempre accogliere, sempre fare nostro nella nostra vita. Se noi dimentichiamo o trascuriamo di accogliere questo amore del Signore, di conseguenza diventa anche più pallida, meno lucente, la nostra identità di figli di Dio, cioè non viviamo più in modo profondo la nostra vera identità. Ci sviliamo non solo moralmente, perché il nostro agire sarà vuoto d’amore, ma anche ontologicamente, sul piano dell’essere. Se noi invece viviamo di questo amore, coltiviamo una relazione profonda d’amore con il Signore, ci lasciamo amare, allora ecco che tutto in noi cambia, non solo il nostro rapporto con Dio, ma anche il nostro rapporto con gli altri. Questo perché l’amore è qualcosa che non riusciamo a tenere solo per noi stessi, è qualcosa che in modo naturale ci porta agli altri, ci apre agli altri, cambia, trasfigura, il nostro modo di guardare la realtà e le cose.

 

Il vangelo di oggi ci fa andare più lontano ancora nella comprensione di chi sia un santo. Se abbiamo detto che il santo è un vero e proprio figlio di Dio, ecco che il vangelo va a declinare, a elencare, diciamo così, il contenuto, l’esplicitazione, la concretizzazione di questa vita da figli di Dio. E il profilo che viene fuori da questa pagina straordinaria delle Beatitudini è proprio il volto di Gesù. È lui il povero in spirito, il mite, l’afflitto, l’operatore di pace che realizza nella sua carne la pace fra cielo e terra e dai due popoli divisi fa l’unico popolo santo di Dio. Nei santi noi ritroviamo il volto di Gesù. E qui non è solo una questione di immagine, non è solo una questione di contemplazione, ma è una questione di vita! Il santo non è qualcuno che attira a sé per se stesso, il santo ci fa andare più lontano; il santo è qualcuno che ci rimanda a Gesù, che ci indica Gesù, che ci incoraggia ad andare a Gesù e con Gesù. Il santo è contagioso, perché ci attira e ci coinvolge in questo sguardo di adorazione e di lode che tutta la Chiesa rivolge al Dio Trinità. Il santo ha il profumo di Cristo e ci inebria di questo stesso profumo di cui lui è stato inebriato.

Il nostro mondo come quello di ogni epoca e di ogni luogo ha bisogno di questo profumo di santità, questo profumo di Cristo, ha bisogno di santi, non solo in Cielo ma anche sulla terra, che riflettano, portino in essi il volto di Gesù così che tutti possano riconoscere che davvero Dio c’è, davvero Gesù è il Dio che è sempre con noi. Potremmo dire, in certo senso, che i santi sono carne di Cristo, sono sangue di Cristo, sono presenza di Cristo nel tempo che inaugura l’eternità già in questa terra.

 

Infine in questo giorno ci viene fatta una promessa, ci viene consegnata una speranza che dobbiamo conservare sempre viva nel nostro cuore e nella nostra mente: scrive l’apostolo Giovanni: “saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”. Saremo simili a lui! Proviamo a pensare come cambia il nostro sguardo sulla vita presente se custodiamo nel cuore questa speranza: vedremo Dio, saremo simili a Dio! Questa speranza ci cambia, non solo ci rallegra, ma, dice il testo, ci purifica, ci rende puri come egli è puro, ci rende capaci di vedere Dio. Il ricordo di Dio ci rende puri, capaci di guardare la realtà con quell’occhio luminoso che vede Dio, lo riconosce e lo ama in tutte le cose. Capiamo allora perché i santi sono davvero felici, beati. Perché in ogni cosa incontrano e amano il loro Signore, il Bene supremo amato per se stesso, in vista del quale amano tutto il resto, come dice S. Agostino. La vita santa è una vita degna di essere vissuta senza sconti. Una vita che è iniziata e non finirà mai più.

 

mercoledì 30 Ottobre 2013 – Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ

 

Le letture di oggi si illuminano a vicenda nell’illustrare il nostro cammino verso la salvezza.

Un primo frutto di questa reciproca illuminazione, di questo incontro tra i due testi di oggi, è la specificazione di che cosa sia la salvezza. “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” Ma cos’è questa salvezza vista dal punto di vista umano e non solo di compimento escatologico, cioè nella vita dopo la morte? Paolo ci presenta la salvezza come un realizzare pienamente la chiamata che abbiamo ricevuto ad essere conformi all’immagine del Figlio di Dio. Essere salvi non è solamente non andare all’inferno, ma in positivo, diventare conformi a Gesù. Questa è la salvezza: raggiungere pian piano quello stato di somiglianza con Cristo in vista del quale siamo stati creati, tanto che Paolo parla addirittura di predestinazione: siamo stati creati in vista di questo destino, ed è raggiungendo questo destino che di conseguenza raggiungiamo anche la pienezza di quello che siamo.

 

Da questo capiamo anche un’altra cosa, e cioè che la salvezza è già iniziata. Non ci sta semplicemente davanti come qualcosa che potrà realizzarsi in un lontano futuro, ma la salvezza è già iniziata. Nella misura in cui noi progrediamo in questa aderenza sempre più perfetta a Gesù, a questa trasformazione da creature a figli di Dio cristiformi, cioè dalla forma di Cristo, noi godiamo già della salvezza, entriamo già un pochino e sempre di più in quella trasformazione che un giorno ci prenderà totalmente. E credo che ciascuno di noi, se guarda alla propria esperienza può vedere e riconoscere quanto l’accogliere in sé questa vita di Cristo abbia veramente già portato salvezza nella propria vita, anche in termini di pienezza di vita, pur tra le difficoltà del tempo presente.

 

Ma c’è un altro aspetto che merita la nostra attenzione: Gesù nel vangelo di oggi è molto schietto, è estremamente chiaro nel metterci di fronte all’esigenza reale, e anche alle fatiche a cui andiamo incontro se vogliamo entrare in questa salvezza. Gesù non ci illude, non ci dice tanto per ammiccarci e sedurci un po’: venite è tutto facile! Ci richiama invece alle vere esigenze e fatiche dell’essere suoi discepoli. Gesù vuole dei discepoli che diano tutto di sé, che mettano tutto se stessi in questa relazione con lui. Ma questo Gesù lo può chiedere perché lui, per primo, ha dato tutto se stesso, ha messo e continua a mettere tutto se stesso in questa relazione. E questo non dobbiamo dimenticarlo mai. Noi, quanto possiamo fare in ordine alla nostra salvezza, in ordine alla nostra crescita umana e spirituale in cui questa salvezza già prende carne, tutto questo è sempre legato e debitore, a quanto Dio in Cristo ha fatto e continua a fare per noi. La salvezza allora non sarà per noi il premio perché siamo stati bravi, ma sarà il frutto concreto ed eterno di questo dialogo con il Signore che Lui ha provocato per primo e nel quale, dopo, noi siamo entrati. Gesù può dirci dunque sforzatevi perché lui, prima di noi e per noi, si è sforzato con tutto se stesso per farci salvi.

 

Infine un’ultima cosa importante che vien fuori dal vangelo di oggi è questa: abbiamo detto che salvezza è entrare fino in fondo in questo dialogo che vede come primo interlocutore, il primo a prendere la parola, il Signore stesso. Ora, la parola dialogo è una parola che se la applichiamo con il significato corrente che ha, così com’è, al nostro rapporto con Dio, rischia di ridurlo un po’, rischia di non esprimerlo bene. Nel nostro linguaggio infatti il dialogo è qualcosa che riguarda solo o prevalentemente l’ambito delle parole, dei discorsi, dei ragionamenti. Ecco, con Dio non è così. Con Dio è lui che, avendo preso la parola per primo, stabilisce anche il linguaggio da usare, il tenore del dialogo. E Dio non ha parlato solo con le parole, ma ha parlato anche e soprattutto con la vita, con la carne del suo Figlio. Questo è importantissimo perché significa che se noi vogliamo parlare, dialogare con Dio, il nostro dialogo non potrà essere solo un dialogo a parole ma dovrà diventare un dialogo con tutta la nostra vita. Dialogo dunque non solo a parole ma un dialogo vitale, esistenziale, entrare in questo rapporto d’amore e di salvezza con tutta la nostra vita, con tutta la nostra carne. Non possiamo essere cristiani, religiosi e preti solo a parole, ma tutta la nostra vita, deve mettersi in gioco con Dio e, in lui, con gli altri. Se no rimarremo sempre un po’ degli estranei a Dio e anche agli altri, come quelli a cui il Signore nel vangelo di oggi dice “Non so di dove siete”. Ma come Signore, “abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”, c’eravamo anche noi! “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me.

 

Signore, non cessare di chiamarci a te, non cessare di vincere le nostre resistenze! Il tuo Spirito venga in aiuto alla nostra debolezza!

 

venerdì 25 Ottobre 2013 – XXIX Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ


 

Gesù, nel vangelo di oggi, parla alle folle, con un linguaggio che cerca di fare leva sulla loro intelligenza, sulle conoscenze che queste persone avevano delle cose della vita normale, della vita comune, nel caso specifico la questione del clima, del tempo meteorologico, per invitare loro e anche noi ad esercitare questa capacità di comprensione, questa intelligenza, anche nelle cose di fede, che per loro era riconoscere in quel tempo la pienezza dei tempi, e in quel Gesù, il Messia atteso da secoli. Mai, come in quell’epoca, capire la storia significava capire il disegno di Dio, l’apice della storia della salvezza. Queste povere folle forse nemmeno immaginavano in quali eventi storici erano coinvolte, tanto che noi, duemila anni dopo, siamo ancora qui a parlare di loro.

 

Dalle parole di Gesù però si apre una pista ulteriore che spinge a riflettere anche noi sul tempo, sul tempo in generale e sul nostro tempo. C’è un tempo infatti che non è solo tempo cronologico, un susseguirsi indifferente e anonimo di tanti attimi uno dietro l’altro, ma è un kairòs (ed è proprio questa la parola greca del testo), cioè un tempo che chiede di essere interrogato, chiede di essere compreso, perché è un tempo gravido di senso, ha una direzione, ha qualcosa da rivelare, da dire, da esprimere all’uomo. Il tempo, come anche lo spazio, ci parlano, ci dicono qualcosa che riguarda la nostra vita. Il tempo, la storia e lo spazio, già solo per il fatto che ci sono ci obbligano a chiederci il perché, il perché di loro e il perché di noi. Porsi questa domanda è necessario per una vita che voglia camminare in una direzione ben precisa e non sia un andare dove capita o un abbandonarsi a se stessi, alla perplessità o allo scetticismo. L’invito che oggi Gesù ci rivolge è forse proprio questo: credere che c’è un senso del vivere, del morire, dello spazio e della temporalità, credere che tutto questo ha un senso dal quale capiamo anche ciò che è giusto e ciò che non è giusto. E credere che il tempo ha un senso è la base per iniziare ad investigarne il senso.

 

La cosa non è di poco conto in un’epoca, come la nostra, in cui ogni paletto fisso, ogni indicazione di verità, di morale e dunque di senso, danno fastidio, sono viste non come luci per camminare sulla strada giusta, ma come minaccia alla mia libertà che preferisce rimanere nel buio, nella confusione, o negli strettissimi confini del mia opinione personale che, anche se non ha alcun fondamento, ha valore semplicemente perché è la mia. Se le due ali che sostengono, se di sostegno si può parlare, questo modo di pensare, sono relativismo e soggettivismo, il cristiano può invece fare affidamento su due ali ben più sicure che sono le fede illuminata dalla ragione, dall’intelligenza. Con queste due ali possiamo arrivare pian piano a riconoscere anche nel nostro tempo, nella nostra epoca, il senso, la verità che ci rende liberi. Ed è a ciò che ci invita oggi il Signore spronandoci a valutare, a giudicare noi stessi questo tempo e ciò che è giusto.

 

Tra l’altro nella seconda parte del vangelo di oggi il Signore ci offre già una sorta di interpretazione del tempo dell’uomo. Gesù ne parla con un’immagine come di un cammino dell’uomo verso un giudice insieme ad un avversario che, evidentemente, ha delle buone chance per farlo arrestare. I padri della Chiesa si sono scervellati per capire chi fosse questo avversario. Agostino ne da un’interpretazione a dir poco geniale che forse possiamo fare nostra: “Questo avversario – dice Agostino – è la Parola di Dio se tu non sei in armonia con lei. Questa armonia si realizza quando tu trovi il tuo piacere nel fare ciò che ti ordina la Parola di Dio. L’avversario diventa così amico e al termine della strada non ci sarà più nessuno che ti consegnerà al giudice.”

 

Che bello allora pensare che il nostro avversario non è altro che la Parola di Dio, un avversario che vuole il nostro bene, la nostra salvezza e che da nemico può diventare, se lo vogliamo, l’amico che ci accompagna nel cammino di tutta la nostra vita verso la vita piena e ci rivela il senso del nostro vivere e il senso del nostro morire, il senso del nostro tempo. Ma che bello anche pensare e credere che la Parola di Dio orienta verso il bene e la pienezza quel desiderio di verità, di autenticità, di senso, che tutti portiamo nel cuore. Ancora una volta scopriamo che il Signore può tirare fuori il meglio di ciò che siamo e abbiamo, e ci rende capaci di riconoscere il suo volto, la sua presenza, nelle nostre giornate e nella nostra città.

 

giovedì 24 Ottobre 2013 – XXIX Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista

 

C’è un passaggio delle parole di san Paolo che abbiamo ascoltato, che potremmo considerare un sorta di definizione, una delle possibili definizioni del cristiano. Chi è il cristiano? Il cristiano è un liberato dal peccato, fatto servo di Dio e avente come traguardo la vita eterna.

 

Questa condizione, questo status privilegiato che ci ha messi in un rapporto nuovo con il Signore, un rapporto di figli, noi l’abbiamo acquistato una volta per tutte nel battesimo, ma dobbiamo essere consapevoli di una cosa: il battesimo e tutti i sacramenti con cui siamo stati generati alla vita cristiana, realizzano in noi una realtà nuova, un nuovo stato di vita i cui effetti però non si compiono del tutto se, questo dono di Dio, noi non lo prolunghiamo, non lo riattualizziamo, non lo rendiamo ogni giorno presente e vivo nella nostra vita. Ciò significa che noi, pur essendo già stati liberati dal peccato e fatti servi di Dio, dobbiamo ogni giorno e ogni minuto rivivere questo evento, questa Pasqua, questa liberazione dal peccato per metterci al servizio di Dio. È una specie di battesimo continuo in cui noi dobbiamo immergerci. Come nella Messa è sempre lo stesso sacrificio di Gesù che si riattualizza, così potremmo dire, la nostra vita, se vogliamo che sia una vita coerente col nostro battesimo, dev’essere un rendere sempre nuovamente presente e attiva nella nostra vita la grazia del battesimo che abbiamo ricevuto.

 

Come vivere questo? Come fare per far sì che ogni giorno noi passiamo dalla schiavitù del peccato al servizio di Dio? Nel vangelo Gesù ci parla di un fuoco che lui stesso è venuto a gettare sulla terra. Il fuoco è un elemento dall’alto valore simbolico nella Bibbia perché il fuoco era quanto consumava i sacrifici dell’Antico Testamento. Un animale, da qualcosa di profano com’era, passando attraverso il fuoco, consumato dal fuoco, diventava un’offerta a Dio che poi poteva essere un’offerta di comunione o un’offerta di espiazione; passava cioè dal piano terrestre al piano di Dio, dalla profanità alla santità di Dio. Nel nuovo testamento invece il fuoco, come sappiamo, esprime anche un altro significato: il fuoco come simbolo dello Spirito Santo. Il fuoco dello Spirito non ci consuma fisicamente come il fuoco vero e proprio ma ci consuma spiritualmente, cioè ci purifica, ci rende persone gradite a Dio, capaci di vivere fedelmente nella sua amicizia.

 

È forse questo il fuoco che Gesù è venuto a gettare sulla terra, quel fuoco con cui ci ha infiammati la prima volta nel battesimo ma che deve rimanere acceso fino all’ultimo nostro battesimo, che sarà quello della nostra morte, in cui, come tutti speriamo, entreremo definitivamente nella santità di Dio. Gesù ha acceso questo fuoco ma sta anche a noi tenerlo acceso ed esporci ad esso che continua in noi questa trasformazione da uomini vecchi a uomini nuovi. Il fuoco dello Spirito non agisce in noi automaticamente e contro la nostra volontà, ma brucia se lo lasciamo bruciare, consuma se lo lasciamo consumare, ci rinnova se gli permettiamo di rinnovarci, ci converte se ci lasciamo convertire. In una parola dobbiamo, è proprio il caso di dirlo, buttare benzina sul fuoco! E invece quante volte, forse, buttiamo acqua su questo fuoco dello Spirito, quante volte spegniamo l’opera di Dio in noi, non cogliamo le provocazioni e gli inviti che il Signore ci porge per farci crescere e per farci santi! Abbiamo talvolta la capacità di renderci ignifughi perfino di fronte a Dio, corazzarci a tal punto che tutto “ci rimbalza” addosso, nulla ci tocca, nulla ci entusiasma e ci sprona per una sequela di Gesù più radicale.

 

La preghiera che possiamo rivolgere a Gesù che è venuto proprio per gettare questo fuoco dello Spirito Santo sulla terra sia allora questa: Signore, aiutaci a lasciarci toccare, bruciare, purificare, infiammare dal tuo fuoco, perché sperimentiamo che di fronte a te non abbiamo bisogno di difenderci, ogni difesa è nociva a noi stessi, perché sei tu il nostro muro di fuoco che ci custodisce e ci rende caldi del tuo calore, e luminosi della tua luce.

 

Domenica 20 Ottobre 2013 – XXIX Domenica T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ

 

Le letture che abbiamo ascoltato ci introducono in modo splendido al tema della preghiera, una preghiera immersa nelle vicende più concrete della vita del popolo d’Israele nella prima lettura e della vita di una vedova, nella parabola che Gesù narra nel Vangelo. Entrambe queste letture ci pongono di fronte a due casi, uno reale e l’altro, quello della vedova, espresso in modo metaforico, ma certo verosimile e pieno di senso, di preghiera insistente esaudita. La preghiera fatta con fede e perseveranza viene esaudita.

 

Su questo aspetto dobbiamo però soffermarci un pochino perché talvolta noi abbiamo un po’ un’idea della preghiera, soprattutto delle preghiere in cui chiediamo qualcosa a Dio, come di una sorta di nostro intervento su Dio, sulla sua volontà, perché il Signore conceda ciò che noi vogliamo. Quasi un esercizio per distogliere Dio da sé e volgerlo a noi, alle nostre necessità e a ciò che vogliamo. Poi, quando le cose non vanno come volevamo noi, secondo la nostra preghiera, diciamo che Dio non ci ha esaudito. Su questo dobbiamo soffermarci un pochino, dobbiamo provare a riflettere sulle preghiere non esaudite, non per arrivare a decretare che non è vero la preghiera fatta con fede e perseveranza viene esaudita, ma per capire meglio cosa vuol dire “essere esauditi”.

 

Se partiamo dal vangelo di oggi notiamo, per esempio, che non si dice che Dio esaudisce sempre la preghiera, ma si dice che Dio farà giustizia prontamente, Dio farà ciò che è giusto per i suoi eletti. La cosa è ben diversa, perché ciò che è giusto secondo Dio non è detto che necessariamente corrisponda alle mie aspettative, a ciò che è giusto secondo il mio giudizio. Come nota anche Origene, non sempre il bene è ciò che noi consideriamo bene e che chiediamo da Dio, e non sempre il male è ciò che vogliamo evitare ad ogni costo (In Spidlik pag 188). Ma possiamo spingerci ancora più in là dicendo che Dio può anche trarre un bene dalle conseguenze di un male pur non volendo positivamente il male.

 

Da questo, ma anche dall’esperienza di preghiera che ciascuno di noi ha, capiamo allora che pregare ed essere esauditi non sono cose meccaniche e automatiche perché pregare significa accettare di entrare in una relazione libera e disponibile con Dio: libera perché esprime il nostro desiderio di rivolgerci a Dio; disponibile perché richiede, da parte nostra, che una volta chiamato Dio in causa, accettiamo anche che il Signore operi nelle nostre cose e le disponga come vuole lui, secondo quanto ritiene giusto. E Dio farà ciò che è giusto.

 

La preghiera dunque ci inserisce in una reciprocità con il Signore che non chiama solo Dio in causa, ma coinvolge anche noi, cambia anche noi, cioè la preghiera ci rende idonei, capaci di camminare nei disegni di Dio, da lui voluti o da lui tollerati, la preghiera plasma in noi un cuore di discepolo che non pretende qualcosa dal Signore ma presenta qualcosa al Signore e poi attende la sua opera, come dice anche un salmo bellissimo: “Affida al Signore la tua via, confida in lui ed egli agirà.” (Sal 37,5).
 

E qui possiamo inserire un altro aspetto che Gesù mette in risalto della preghiera: che sia una preghiera costante, che vinca la stanchezza. Ciò perché in effetti la preghiera può conoscere la stanchezza, lo scoraggiamento, la noia, il senso di inutilità, che cioè pregare non abbia senso, sia una perdita di tempo. La nostra preghiera è spesso chiamata ad attraversare il deserto dell’attesa. Alle volte sembra davvero che il Signore non voglia esaudirci subito. Però quando il cristiano attende, non solo attende, ma il cristiano spera! E così l’umana attesa diventa teologale speranza. C’è un legame che unisce preghiera e speranza nel quale sant’Agostino coglieva un particolare esercizio del desiderio: “Rinviando il suo dono, – dice sant’Agostino – Dio allarga il nostro desiderio; mediante il desiderio allarga l’animo e dilatandolo lo rende più capace di accogliere Lui stesso” (Spe Salvi 33). Se la preghiera è dunque espressione di un nostro libero desiderio espresso a Dio, la preghiera in ultima istanza, fa di noi stessi desiderio, desiderio di Dio. La preghiera, anche in questo caso, non tocca solo Dio, ma trasforma anche noi.
 

Infine, detto questo, possiamo tirarne le conclusioni: se, come abbiamo detto, Dio non esaudisce tout court, ma fa ciò che è giusto; se la preghiera non è solo qualcosa che parte da noi per agire su Dio, ma è anche qualcosa che cambia, trasforma noi stessi, plasma in noi un cuore di discepolo che accetta di camminare nei disegni di Dio; se infine la preghiera non semplicemente dice il nostro desiderio di qualcosa ma rende noi stessi desiderio, e non più solo desiderio di un bene specifico, ma desiderio di Dio stesso, possiamo allora affermare che il termine di questo cammino di preghiera non può essere solo il pregare ma il divenire preghiera. Questa è la meta, come scriveva in proposito don Divo Barsotti: “Noi dobbiamo vivere questa eterna preghiera, noi dobbiamo trasformarci in questa preghiera. Non si deve pensare che la preghiera sia un mezzo per l’apostolato, un mezzo di santificazione: è anche un mezzo, ma, mentre l’apostolato avrà termine, quando avremo raggiunta la meta, la preghiera non potrà terminare mai perché la preghiera è anche il fine stesso, la meta del lungo cammino. Per questo un “chassid” diceva che la preghiera è Dio stesso.” (Divo Barsotti, La preghiera, lavoro del cristiano, Ed. San Paolo, pag 129)

 

Possiamo allora capire perché il Signore dice che pregare sempre non è un optional ma è una necessità, qualcosa di necessario non solo per preti e monaci, ma per vivere fino in fondo la nostra comune vocazione cristiana. Perché la preghiera è qual cordone ombelicale che nutre in noi la vita divina, che ci fa crescere e maturare come uomini e figli di Dio. In fin dei conti perché la preghiera rende il nostro cuore più simile a quello di Dio e credo che ciò sia quanto noi tutti desideriamo.

 

venerdì 18 Ottobre 2013 – Festa di San Luca - fr. Giovanni-Battista FMJ


            La figura dell’evangelista Luca non riusciamo a considerarla con pienezza, nella sua profondità, se prima di guardare a ciò che Luca ha fatto per la Chiesa, cosa ha lasciato alla Chiesa, cioè degli scritti di estrema importanza per la nostra fede e per la nostra conoscenza del Signore, non volgiamo lo sguardo a ciò, o meglio, a chi egli era. Ed è proprio a questo tipo di sguardo su san Luca, a chi egli era prima che a ciò che faceva, che le letture scelte per festeggiarlo, ci invitano.

 

Il vangelo parla infatti dell’invio dei settantadue discepoli e ne parla non principalmente descrivendone l’opera, ma prima di tutto mettendo in luce i tratti essenziali del discepolo. Quali sono queste caratteristiche del discepolo?

 

Una prima caratteristica è che il discepolo è un inviato: non parte da se stesso, per sua iniziativa, ma come Gesù è mandato dal Padre, così anche il discepolo è un inviato, è un mandato perché è il signore della messe che manda i suoi operai! Inviati perché chiamati.

 

Secondo aspetto: il discepolo è inviato davanti a Gesù, letteralmente “davanti al suo volto”; la gente prima di vedere, di incontrare il volto di Gesù, incontrava il volto del discepolo e da questo si faceva un idea del volto di Gesù prima ancora di vederlo.

 

Poi c’è una terza caratteristica che è l’essere inviato come agnello e non come lupo, esattamente come Gesù che è il Pastore perché è il vero Agnello.

Infine il discepolo porta la pace di Gesù, costruisce e diffonde la pace del Signore che, come sappiamo, è il primo dono del Cristo risorto, che la prima cosa che diceva quando appariva era proprio “Pace a voi”.

 

Ora, queste caratteristiche del discepolo – se ne potrebbero certo trovare altre – sono caratteristiche, sostanzialmente, di somiglianza con Cristo. Il discepolo è uno che somiglia a Gesù, che porta in sé e porta agli altri l’immagine di Cristo, ed è per questo che può dire: Il regno di Dio è vicino. Il discepolo, l’inviato davanti al volto di Gesù, non porta in giro se stesso ma trasmette, dona agli altri il volto autentico del Signore.

 

Venendo a San Luca: cosa sono i suoi scritti, Vangelo ed Atti degli apostoli, se non un prolungamento di questa missione di portare a tutti il volto autentico del Signore? Ma questo è stato possibile perché san Luca, prima che evangelista guidato dallo Spirito per trasmettere la Parola di Dio, è stato quel discepolo che ha assunto in sé i tratti di Cristo, ha lasciato che lo Spirito scolpisse in lui l’immagine di Cristo e così, sempre assistito dalla mano di Dio, ha saputo disegnarci il volto di Gesù nei suoi scritti. Luca, prima che un biblista o un evangelista, è un discepolo santo! E chi accoglie Gesù in sé, lascia anche un frutto che rimane, un frutto che nutre gli altri, che aiuta gli altri nel loro cammino di somiglianza a Gesù. La Parola di Dio, che un po’ oggi pure festeggiamo insieme a san Luca, è infatti anche questo: non è solo annuncio ma è anche forza che lavora in noi, potenza che ci trasforma in ciò che ascoltiamo, in ciò che contempliamo, in ciò che adoriamo, potremmo dire.
 

Luca come discepolo e come evangelista, non solo ha accolto la Parola, si è lasciato plasmare; non solo l’ha annunciata, ma l’ha donata, si è posto con tutta la sua opera a servizio del dialogo, dell’incontro di Dio con gli uomini. Sono queste le persone che lasciano davvero un segno indelebile nella storia della Chiesa e nella storia dell’umanità, quelle persone che accettano di lasciare posto a Dio, lasciare Dio agire in loro e attraverso di loro, lasciare Dio scrivere, attraverso di loro, quel dialogo che salva l’uomo perché lo strappa dal dialogo vuoto con gli idoli – e anche oggi ce ne sono molti – i falsi dèi, e lo mette, in dialogo, in comunione con il suo Signore, il Dio vero.

 

giovedi 17 Ottobre 2013 – XXVIII Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ


Le parole dure di Gesù sia nel vangelo di oggi sia in quello di ieri sono parole che non vogliono terrorizzare né i farisei di allora né noi oggi, ma sicuramente sono parole che ci vogliono scuotere in senso positivo, cioè ci vogliono responsabilizzare. Infatti il nocciolo del problema incarnato qui da scribi, farisei e dottori della Legge, ma che può ripetersi anche oggi, è più o meno lo stesso, l’ipocrisia, cioè il fare qualcosa non con il cuore, non perché ci si crede veramente, non per entrare e vivere una vera relazione con Dio e con gli altri, ma per fini diversi, fini di apparenza, di convenienza, di immagine o di fama.

 

Ora, questo atteggiamento che noi comunemente, ma Gesù stesso, definiamo ipocrita, se ci pensiamo bene è un atteggiamento, in fondo, irresponsabile cioè che nasconde una situazione umana e spirituale che si mantiene sempre al di fuori della relazione con Dio, mantiene sempre le distanze, non si mette mai in gioco fino in fondo in modo sincero e responsabile, appunto, per rispondere con tutto il proprio io al Tu di Dio. Per cui, anche la prassi religiosa si dedica agli aspetti più marginali agli occhi di Dio ma più visibili agli occhi della gente: si pagano le decime delle erbe e si trascura la giustizia e l’amore di Dio; si cercano i primi posti più che la vicinanza vera con il Signore; si stilano ardui programmi morali per gli altri (i pesi insopportabili) così si da un’immagine di radicalità e di fine conoscenza della Legge di Dio, ma che rimangono per gli altri e non per sé. Insomma si fa tutto ciò che non tocca veramente il cuore e la coscienza, che perciò rimangono sotto la signoria di qualcos’altro o di qualcun altro. È forse per questo che Gesù oggi riporta queste persone, che ammonisce duramente, alla loro responsabilità: vi sarà chiesto conto del sangue di tutti i profeti; voi siete responsabili del sangue versato da Abele in poi. La cosa ci sembra assurda e perfino ingiusta che costoro paghino per le colpe dei loro padri, ma la sensazione di ingiustizia finisce quando viene alla luce il loro vero pensiero: persone pie, persone ineccepibili quanto a fama e osservanza della Legge, eppure iniziano ad agire esattamente come i loro padri con i profeti: “cominciarono a trattare Gesù in modo ostile … tendendogli insidie” dice il testo, e poi sappiamo come la storia andrà a finire: lo uccideranno come tutti gli altri e anche peggio.

 

Con questo stile sbagliato di vivere la religione dobbiamo anche noi confrontarci. Il nostro libro di vita dice: o sarai monaco nel più profondo del cuore o non lo sarai mai. Credo che possiamo estendere il concetto a tutta la vita cristiana: o saremo cristiani nel più profondo del cuore o non lo saremo mai. O il Signore lo lasciamo entrare nel nostro cuore sempre di più, o almeno desideriamo giungere a questa meta, o se no faremo di tutto, per difenderlo da Dio stesso, per tenere lontano il Signore e anche i canali modi, personali ed impersonali, che lui usa per parlarci, per entrare il comunione con noi, dalle cose che davvero contano nella nostra vita. È il Signore così diventa per noi un estraneo, un avversario perfino un nemico.

 

Sant’Ignazio di Antiochia il cuore l’aveva davvero aperto e consegnato a Gesù ed è per questo che ha saputo offrire anche il corpo con tanto coraggio. Ignazio, se arriva a questo livello di ardore come quello che si legge nei suoi scritti, non è perché era un super eroe perché era anche lui un uomo come noi, ma perché pian piano si era allenato, aiutato dalla grazia, a lasciar vincere il Signore nella sua vita, e aveva sperimentato che quando vinceva il Signore in realtà lui, Ignazio, non perdeva, ma vinceva anche lui. E così ha fatto vincere il Signore anche nell’ultima professione di fede, quella che gli costò la vita. Ignazio sapeva che Gesù era morto per lui, si sentiva responsabile del sangue di Cristo e ha saputo renderne conto, cioè rispondere a questo dono totale d’amore con il suo dono totale d’amore.

 

Vediamo quale libertà ci ha procurato il sangue di Cristo e quale libertà ci testimoniano i martiri! Cerchiamo di non cadere nella schiavitù di una vita cristiana, e anche religiosa, vissuta come ricerca di sé.

 

sabato 12 Ottobre 2013 – XXVII Settimana T. Ordinario - fr. Giovanni-Battista FMJ


 

Il vangelo di oggi tocca il tema della beatitudine con una prospettiva particolare che è quella mariana, che mette in luce cioè, indirettamente, quale sia la vera beatitudine di Maria, che appunto non è solo quella di aver portato in grembo Gesù e di averlo allattato, ma prima ancora, un prima non solo cronologico ma vitale, esistenziale in Maria, quello di essersi aperta tutta alla Parola di Dio, e così lasciarsi fecondare da Dio nel cuore prima che nel corpo.
 

Di come Maria ascolta la parola e la osserva si potrebbero dire molte cose, ma una in particolare possiamo collegarla con il tema della beatitudine del vangelo di oggi. Maria ha vissuto un ascolto della Parola di Dio non semplicemente in modo generico, come dire: se voglio vivere come buona giudea devo vivere secondo queste regole, questa fede, questo culto. Non solo questo. Cioè in Maria non c’è stata unicamente, se così la possiamo definire, una generale opzione fondamentale di essere una donna di fede. In Maria ci sarà stato questo sicuramente, ma soprattutto, ed è ciò che conta ai fini di questa beatitudine di cui parla il vangelo di oggi, c’è stato il momento dell’Annunciazione in cui Maria ha ascoltato, certo in modo unico e straordinario la Parola di Dio, ma in essa, ha accolto la chiamata di Dio, la volontà di Dio per lei, per la sua vita, per la storia futura. E questo è un punto importantissimo anche per il nostro cammino. Dio parla, va bene, questo lo crediamo tutti, ma le cose nella nostra vita iniziano a cambiare davvero quando crediamo che Dio parla a noi, ci parla, Dio ci chiede qualcosa di specifico che magari non chiede ad altri o che ad altri chiede in modo diverso. Quando anche noi, come Maria, riconosciamo attraverso l’ascolto che c’è una volontà precisa e una chiamata, una vocazione particolare per noi stessi, quando scopriamo che nella parola di Dio c’è la sua voce che ci chiama personalmente, allora capiamo quanto diventi concreto ed urgente non solo l’ascolto del Signore e della sua Parola, ma soprattutto il rispondere a questa Parola. Perché l’ascolto diventi beatitudine non può restare un ascolto vago, generico, passivo. Finché non cogliamo nella Parola di Dio, la parola per noi, la chiamata per noi, la volontà precisa del Signore per noi, anche la conseguente messa in pratica, la sua osservanza, come dice il testo, resterà ad un livello, appunto, di osservanze, di pratiche e di precetti; difficilmente la vivremo come risposta alla voce, al tu di Dio che ci chiama e che in ultima istanza ci invita alla beatitudine.

 

In questo modo ci è dato già fin d’ora di partecipare un pochino alla beatitudine piena che ci attende nei cieli, quando entreremo nella gloria di Cristo e di tutta la Trinità. La beatitudine inizia proprio quando noi accogliamo e rispondiamo a questa chiamata che Dio ci rivolge, in cui fin dei conti è Dio stesso che già si dona a noi, come a Maria. E allora il nostro cammino sarà un continuo progredire verso questo fine ultimo della beatitudine in Dio, verso questo bene supremo, il “bene di ogni bene” che, come diceva sant’Agostino, “è quella cosa in vista della quale amiamo le altre, mentre essa è amata per sé medesima.”

 

Apriamo allora, come abbiamo pregato nella colletta, il nostro cuore alla beatitudine dell’ascolto con la fiducia di chi non cammina nel buio o nella nebbia, ma guidato da Gesù che ci ha fatto una promessa: “Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica” (Gv 13,17).

 

venerdì 11 Ottobre 2013 – XXVII Settimana T. Ordinario – Commento ora media - fr. Giovanni-Battista FMJ

 

Nel testo che abbiamo ascoltato ci troviamo di fronte ad un esempio molto concreto di lettura dei segni dei tempi, di esercizio del carisma profetico da parte del profeta Gioele. Cioè il profeta contempla la presenza di Dio all’interno delle vicende del suo popolo, positive o negative, felici o tristi, e grazie a questo sguardo contemplativo sulle vicende umane, riesce a cogliere il segno lasciato da Dio, o meglio, riesce a percepire ed annunziare che la storia non è assurda, non è priva di senso, ma converge verso un punto, un compimento che, nel brano di oggi, è intravisto nel giorno del Signore: “è vicino il giorno del Signore”.


           L’uomo di sempre, quando è nella gioia o quando è nel dolore, quando le cose gli vanno bene e quando invece gli vanno male, è sempre tentato da due atteggiamenti opposti ma simili ed entrambi negativi, che sono la presunzione e la disperazione. Sono due atteggiamenti opposti e insieme simili perché il primo crede di poter fare tutto con le proprie forze senza aver bisogno di nessuno, il secondo invece, la disperazione, è il fallimento di questa illusione pur rimanendo ancora chiuso in essa, e dunque rimanendo incapace di chiedere aiuto e di aprirsi alla speranza. Sia nella presunzione che nella disperazione, è sempre l’autosufficienza a regnare. Quando l’uomo pensa di salvarsi da sé, finché le cose vanno come voleva lui tutto contribuisce alla sua gloria, ma quando la vita gli fa capire che non è lui a dirigere ogni cosa, l’autonomia e l’indipendenza che prima tanto lo esaltava e gli stava a cuore, diventa la causa della sua rovina.

 

Il profeta Gioele è confrontato con una situazione simile: il popolo è stato colpito da una terribile invasione di locuste che hanno mangiato tutto e non hanno lasciato nulla, nemmeno quanto offrire al Signore. Dice addirittura il testo che: “Quello che ha lasciato la cavalletta l’ha divorato la locusta; quello che ha lasciato la locusta l’ha divorato il bruco; e quello che ha lasciato il bruco l’ha divorato il grillo” (1,4) proprio per far capire le dimensioni della calamità. È un danno non da poco, soprattutto per l’economia del tempo che viveva di agricoltura.

 

Umanamente, in casi come questi, la reazione sarebbe la disperazione, corroborata anche dall’idea che una tragedia come questa sarebbe il segno esplicito, evidente, che Dio ci ha abbandonato, ci ha lasciati. Noi oggi diremmo che Dio non esiste: come fa Dio ad esserci con tutto questo male? O se c’è è un dio cattivo! Di fronte ad una tentazione così forte per il popolo che, già provato materialmente, sprofonderebbe ancora di più, si leva la voce profetica di Gioele: “Proclamate un solenne digiuno, convocate una riunione, gridate al Signore!”. Gioele, che vede più lontano degli altri perché è assistito dallo Spirito del Signore, invita all’attesa nella preghiera, esorta il popolo ad aprirsi a Dio, ad impedire che questa tragedia chiuda ancora di più i cuori già provati dalla sofferenza, una chiusura che sarebbe un lasciar penetrare la morte e la desolazione circostante, nel cuore dell’uomo. Gioele invita ad aprirsi a una speranza che nasce dal rimettere Dio al centro della propria vita: è questo in fin dei conti il giorno del Signore, in tutte le varianti con cui è stato espresso nella letteratura profetica e apocalittica, un giorno in cui Dio prenderà in mano lui le cose, la sorte del suo popolo. Perché il Signore, come sentiremo domani nel proseguo del testo, “è un rifugio per il suo popolo, una fortezza per gli israeliti.”

 

La voce del profeta Gioele è rivolta anche a noi come invito a non cedere mai alla tentazione di vedere e capire, sia le cose belle che quelle dolorose, mettendole fuori dal disegno di Dio come se il braccio del Signore fosse troppo corto per intervenire nelle nostra vicende, oppure di farne una lettura “laica”, come si dice oggi, con la pretesa di una sguardo più neutro ed oggettivo. Si tratta di vivere il munus profetico che abbiamo ricevuto nel battesimo e che dobbiamo esercitare non solo per sostenere noi, ma anche per incoraggiare coloro che soffrono, coloro che sono nella prova, e anche coloro che non hanno fede e che, proprio per questo, forse hanno bisogno di qualcuno che li incoraggi, li consoli, li aiuti a vedere che Dio c’è, perché ce lo ha promesso.

 

mercoledì 9 Ottobre 2013 – XXVII Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ


 

Una prima cosa che ci colpisce del vangelo di oggi è vedere Gesù pregare. Possiamo immaginare lo stupore e la curiosità anche dei suoi discepoli quando lo vedevano in preghiera. E anche noi ci stupiamo, ci colpisce pensare a Gesù che prega perché sappiamo che Gesù è Dio e allora che bisogno ha Dio di pregare? Perché Gesù prega se qualsiasi cosa desidera può ottenerla con la sua Parola in modo immediato?


 

Ma un discepolo rompe gli indugi e gli chiede: Signore insegnaci a pregare! Lui, il discepolo, forse non ci pensava tanto, ma una domanda come questa avrebbe portato, come di fatto è accaduto, ad entrare un pochino di più nel mistero della persona di Gesù, il Figlio di Dio. E infatti Gesù risponde, apre la sua preghiera con una sola parola, tra l’altro ancora più spoglia nella versione di Luca che ci è data stasera, la parola Padre. Gesù nella sua preghiera, qui come anche in altre sue preghiere che ci sono state trasmesse dagli evangelisti, dice Padre. Cioè ripete quel Tu che da sempre ripete nel seno della Trinità. La preghiera di Gesù è questo: è un prolungamento di quel dialogo filiale che egli vive da sempre nella Trinità. Nel suo modo di pregare di fatto Gesù traduce, prolunga, esprime con cuore, mente ed anima umane, ma anche divine, quel dialogo di amore incessante che da cui egli stesso, potremmo dire, lui il Verbo, ha avuto origine dall’eternità. Se dall’eternità il Padre dice Figlio, il Figlio dall’eternità dice Padre, e nel vangelo di oggi ci giunge un eco di questa relazione carica di mistero. Il pregare di Gesù segue dunque con perfetta continuità l’essere di Gesù: cioè Gesù prega secondo quello che è, come è. Lui che era già in piena comunione e continuità ontologica, di natura, di essere, con il Padre, vive, nella sua preghiera, questa immersione nel suo essere profondo che sarebbe indefinibile, oltre che inesistente, senza il Padre, perché senza il Padre non ci sarebbe neanche il Figlio e viceversa.

 

Se questo è quanto vale per Gesù, il discepolo del vangelo di oggi sposta però l’attenzione su di noi perché chiede: Signore insegna a noi a pregare! Una richiesta che già ci fa capire una prima cosa: il cristiano, il discepolo che vuole pregare deve mettersi alla scuola di Gesù. Questo non semplicemente perché è Gesù il Signore e noi, nel nostro agire, dobbiamo obbedienza a lui, dobbiamo fare come ci dice lui, dunque non solo per una ragione di subordinazione e di obbedienza a Gesù. Ma anche per un’altra ragione più profonda, che tocca l’essenza del cristiano. Il discepolo non è chiamato a diventare altro, qualcosa di diverso, rispetto al Suo maestro, ma a diventare come il suo maestro. E noi, lo sappiamo, siamo figli nel Figlio, siamo inseriti, innestati per grazia in questa relazione di Gesù con il Padre. Se la preghiera di Gesù è qualcosa, come abbiamo visto, che si irradia dal Suo essere, da chi lui è, ciò è vero anche per noi. Nella preghiera infatti noi non semplicemente chiediamo a Dio qualcosa, ma nella preghiera noi ritorniamo alle radici del nostro essere, della nostra adozione filiale. La preghiera è quel grembo che ci genera in quanto cristiani (pensiamo al battesimo e agli altri sacramenti che sono preghiera liturgica della Chiesa) è quel grembo che ci riporta all’origine, ci riporta a questo confronto e contatto autentico, puro ed immediato con quell’identità di Dio Trinità da cui proviene anche la nostra identità di figli di Dio. È infatti, se ci pensiamo, il Pater è la prima preghiera che viene consegnata al catecumeno desideroso di ricevere il battesimo. Con Gesù, in Gesù, allora anche noi possiamo dire Padre.

 

Ma la preghiera del Padre Nostro non si ferma qui, va ancora più in là. Se nella preghiera noi ritorniamo all’origine della nostra figliolanza divina in Cristo, per cui non possiamo dire in modo pieno e in modo autentico Padre se non ci riconosciamo e non viviamo come figli, questo va esteso anche ad un’altra prospettiva che è quella della fraternità: come siamo figli in Cristo, così siamo fratelli e sorelle in Cristo. Dire Padre non solo prevede ma obbliga a dirsi fratelli! Ne va di mezzo il nostro essere figli. E dirsi fratelli segue l’essere fratelli, un essere con cui pure veniamo a contatto nella nostra preghiera, come quanto valeva per l’essere figli. Il Padre nostro è esplicito in questo perché ci esorta a chiedere a Dio, e dunque a volerlo profondamente, che ogni debito tra noi sia rimesso come Dio lo rimette a noi. E questo linguaggio del debito e del peccato è il linguaggio della comunione perché sappiamo che è il peccato che rompe la comunione con Dio. Per cui quanto noi chiediamo e vogliamo essere in comunione con il Signore, così dobbiamo chiedere e volere questa comunione anche tra noi fratelli. Se il peccato contro Dio può infrangere la comunione anche con la Chiesa, che è l’assemblea, la comunione dei fratelli in Cristo, così il peccato contro un fratello danneggia anche il mio legame, la mia comunione con il Signore. Il vangelo, o prima ancora la nostra identità di figli di Dio e fratelli in Cristo, non ammette doppiezze o ambiguità in questo. Spesso ci sta tanto a cuore la riconciliazione con Dio, ci confessiamo e magari facciamo anche, lodevolmente, penitenza, ma se si tratta di fare il primo passo per ricostruire o rinforzare la comunione con il fratello siamo molto più restii e talvolta nemmeno lo riteniamo doveroso. Ecco non dimentichiamo che queste relazioni fraterne con gli altri sono interne al nostro rapporto e alla nostra comunione con Dio, non estranee.


 

Da tutto questo capiamo che la preghiera cristiana allora non è meno esigente di quanto lo sia la vita cristiana, che è vita nuova, cioè non è vita secondo i criteri della carne e del sangue, ma secondo quelli dello Spirito perché è lo Spirito che ci rende e fratelli e figli, e che costruisce, attraverso di noi, la vera comunione.

 

Domenica 6 Ottobre 2013 – XXVII  Domenica Tempo Ordinario  - fr. Giovanni-Battista FMJ

Ab 1,2-3; 2,2-4 / Sal 94 (95) / 2 Tm 1,6-8.13-14/ Lc 17,5-10


 

Le letture di questa domenica, come abbiamo sentito, sono attraversate dal tema della fede, un tema che potrebbe essere guardato e illuminato da diverse prospettive e da diversi punti di vista. E già i testi di oggi ci offrono almeno tre o anche quattro chiavi di lettura di questo argomento. Però, invece che riflettere noi, possiamo provare a metterci, per quanto ci è possibile, nei panni di questi apostoli, dei Dodici che rivolgono a Gesù una domanda straordinaria: Gesù, accresci in noi la fede!

 

Perché questa domanda? Sulle labbra dei Dodici non è scontato sentirla perché i Dodici, lo sappiamo, sono proprio coloro che sono stati scelti, costituiti apostoli, e saranno i testimoni privilegiati degli eventi pasquali tanto da fare della loro fede, la fede di tutta la Chiesa, che è appunto non una fede qualsiasi ma una fede apostolica, è la fede degli apostoli. Ecco, proprio loro chiedono a Gesù di aumentare la loro fede, loro che, istintivamente, ci sembrerebbero nelle condizioni di non avere bisogno di altra fede, con tutti i prodigi che hanno visto e data la loro posizione privilegiata di apostoli. Se fossimo stati noi al loro posto, diremmo, credere sarebbe un gioco da ragazzi. Eppure questi Dodici si rendono conto che, alla fine, hanno bisogno di fede perché solo se acquistano uno sguardo di fede sempre più autentico, sempre più puro, possono essere davvero dei discepoli di Gesù. Senza la fede Gesù rimane un incompreso se non uno sconosciuto, rimane un interrogativo senza risposta o con risposte sbagliate, e senza la fede i Dodici smettono di essere dei discepoli in uno stato di sequela e ritornano ad essere gente errante per i fatti suoi; i Dodici smettono di essere un gruppo compatto, cessano di essere Chiesa e Gesù, da Signore quale è rimane per loro un Maestro tra gli altri, o un profeta, come infatti la gente diceva. La fede è quanto ci fa vedere la realtà intorno a noi e la realtà che è in noi nel suo significato più autentico, ci fa andare oltre l’apparenza delle cose e ci fa percepire l’essenza più vera di tutto. Proviamo a pensare a quante cose cambierebbero nella nostra vita se cessassimo di guardarle con uno sguardo di fede. Dal nostro stato di figli di Dio, ai sacramenti, alla nostra vocazione particolare, alla realtà della Chiesa e dei suoi pastori che la guidano in nome di Cristo, alle stesse persone che ci vivono accanto, alla speranza di salvarci dopo la morte. Tutto questo riusciamo a sostenerlo, a viverlo e anche a comprenderlo in modo profondo ed autentico solo nella fede. Senza la fede molto, per non dire tutto delle cose più importanti che fondano la nostra vita, crollano. Ecco che allora ci rendiamo conto di una prima motivazione del perché gli apostoli fanno questa a domanda a Gesù. Perché iniziano a comprendere che per quanto stiano con il loro Maestro, se non coltivano uno sguardo di fede non possono continuare a seguirlo, ad essere suoi. Quando molti, quasi tutti lasceranno Gesù per il suo linguaggio duro, proprio Pietro motiverà il perché della loro perseveranza con ragioni di fede: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio.” (Gv 6,68-69) Senza la fede né gli apostoli né tanto meno noi, possiamo perseverare dietro a Gesù.
 

Ma da questa richiesta degli apostoli a Gesù di aumentare in loro la fede, possiamo capire anche un’altra cosa ed è questa: se i Dodici il dono della fede lo chiedono al Signore, vuol dire che non sono loro a darsi la fede ma riconoscono che hanno bisogno di supplicarla, di pregare Gesù per ottenerla. Per poter essere veri discepoli di Gesù che credono in Lui, hanno bisogno che Gesù li illumini. La fede è un dono di Dio, “la fede – dice il Catechismo – è dono dello Spirito Santo, che la previene, la suscita, la sostiene, l’aiuta a crescere” (CdA 90). “Nessuno può venire a me – dice Gesù – se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Gv 6,44).
 

Purtroppo molta gente capisce solo questo aspetto della fede, cioè che è un dono di Dio, e dicono: io non ho fede, Dio a me non l’ha data, non ci posso fare niente. Ora, questo modo di pensare non è corretto, perché è vero che la fede è un dono di Dio, ma è vero anche che la fede bisogna volerla. La fede è vero che è un dono di Dio, è vero che è Dio che suscita la fede, che attrae a sé l’adesione dell’uomo attraverso le mozioni interiori dello Spirito Santo. Questo è vero ma questo non basta, perché se questo bastasse allora i discepoli non avrebbero dovuto chiedere a Gesù di aumentare la loro fede, avrebbe fatto tutto lui in modo automatico (tra l’altro senza rispettare la loro libertà). Il fatto che loro invece lo chiedono ci dimostra anche che loro questo dono lo vogliono, vogliono credere. E qui arriviamo a un punto capitale, non perché sono io a dirlo ma perché lo diceva già sant’Agostino e pure san Tommaso lo riprende. Agostino diceva: “Nessuno crede se non perché lo vuole”. Per credere bisogna volerlo, non nel senso che è la mia volontà che crea artificiosamente i contenuti della mia fede, o si impone volontaristicamente e in modo forzato di credere qualcosa, ma perché è la mia volontà che deve accettare, deve dire sì al fatto che Dio possa essersi rivelato al mondo e possa ancora rivelarsi a me.

 

Perché non sembrino assurdità queste cose che diciamo, vi riporto un’applicazione concreta, un esempio vivente nel suo tempo (ora non più) di questo desiderio di credere, che il Signore poi esaudì con larghezza: il beato Charles de Foucauld. Charles de Foucauld ricordando, in un suo scritto, la sua fase di conversione, cioè quando non solo non era ancora né monaco trappista né eremita, ma nemmeno cristiano, scrive: “ho iniziato ad andare in chiesa senza essere credente, non mi trovavo bene se non in quel luogo e vi trascorrevo lunghe ore continuando a ripetere una strana preghiera: «Mio Dio, se esisti, fa’ che io ti conosca!»”. Ecco, questo è un esempio di voler credere, di intelligenza e volontà aperte alla fede. Capiamo allora che credere non è solo avere in testa delle idee, darci la fede non è solo responsabilità di Dio; credere è qualcosa che tocca la volontà, chiede un cambiamento, una conversione del cuore, da uno stato di chiusura o indifferenza, ad uno stato di disponibilità a lasciarsi guidare, disponibilità all’eventualità che ci sia un Dio che voglia rivelarsi, e che si riveli così com’è, non come ci piacerebbe a noi.
 

Per cui, ricapitolando, crediamo se Dio lo vuole e se ci offre gli aiuti soprannaturali per venire alla fede (e ce li offre!), ma anche crediamo se noi lo vogliamo, se accettiamo che l’incognita Dio, abbia un volto.

 

Infine, per concludere, un ultima domanda che chiediamo al testo di oggi: a chi i Dodici chiedono la fede? Certo a Dio, ma a quel Dio che è il Signore Gesù che sta di fronte a loro: Tu, Gesù, accresci in noi fede! Ora, Gesù, lo sappiamo, non è solo Dio ma è anche uomo. Per cui Cristo non è solo il destinatario dell’atto di fede nostro e dei discepoli del Vangelo, ma è anche il modello perfetto del credente. Per cui i Dodici che chiedono a Gesù: aumenta la nostra fede, in concreto è come se gli chiedessero anche: Gesù, facci credere come credi tu, facci vedere Dio, il mondo, noi stessi, gli altri e perfino te stesso, come li vedi tu. È come quando vedendolo pregare gli chiesero: “Signore insegnaci a pregare!” Ecco, qui abbiamo il frutto magnifico della fede, il vero sguardo contemplativo: vedere le cose come le vede Gesù. La fede che tocca, che interpella la volontà dell’uomo, può coinvolgerla fino ad entrare nello sguardo stesso di Gesù. Anche il Papa ce lo insegna. Dice il Santo Padre Francesco: “Nella fede, Cristo non è soltanto Colui in cui crediamo, la manifestazione massima dell’amore di Dio, ma anche colui al quale ci uniamo per poter credere. La fede, non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere.” (Lumen fidei 18)

 

Di fronte ad una prospettiva così alta e così bella di vita cristiana, che anche il Papa ci ricorda, riusciamo a capire un po’ di più cosa vuol dire che con il battesimo noi abbiamo iniziato un cammino di divinizzazione, partecipiamo alla natura divina, ci siamo rivestiti di Cristo (come abbiamo cantato all’inizio). O sono cose che stanno per aria, o se no, come sono davvero, sono realtà che ci trasformano, ci trasfigurano ad immagine di Gesù, ci rendono non solo suoi discepoli ma anche suoi amici e suoi fratelli. Chi ci guarda potrà dire: “Quello lì assomiglia a Gesù!”.

 

mercoledì 2 Ottobre 2013 – Memoria dei Santi Angeli custodi - fr. Giovanni-Battista FMJ


 

San Girolamo così commenta il passo evangelico che abbiamo ascoltato, quello che dice: “I loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli”. Girolamo dice: “è tanto grande la dignità delle anime che ciascuna di esse ha, fin dalla nascita, un angelo deputato alla sua custodia.”

Da questo commento di Girolamo possiamo ritenere subito una cosa, che è questa: a ciascuno di noi è stato assegnato un angelo custode, o piuttosto l’inverso, ciascuno di noi è stato assegnato ad un angelo custode. Tutti, fin dalla nascita. E ciò significa allora che questo vale non solo per i cristiani battezzati, ma anche per i non cristiani. Ogni uomo è accompagnato dalla nascita fino alla morte dal suo angelo custode.

 

Cosa possiamo dire di questa assistenza dell’angelo, di che genere di aiuto si tratta? Come lo dice la parola stessa, si tratta di un’opera di custodia. Gli angeli ci accompagnano, ci proteggono, ci custodiscono. Ma tentando di andare più in là nella riflessione dobbiamo cercare di capire in cosa consiste quest’opera di custodia. È importante questo non solo per conoscere come agisce l’angelo custode con noi, ma anche per tentare di imitarlo, con noi stessi e con gli altri, in questa attività di custodia che talvolta riduciamo solo ad un aspetto, che è quello – che rimane vero – del prendersi cura, della protezione di quanto di buono abbiamo e siamo.

 

         San Tommaso intende quest’opera di custodia dell’angelo come un guidare e muovere l’uomo al bene. Ora, per fare il bene, dice san Tommaso, si richiedono due cose: la prima è che l’affetto cioè il desiderio dell’uomo sia inclinato al bene: e in noi ciò si compie mediante l’abito delle virtù morali. La seconda cosa è che l’uomo non solo abbia l’affetto, il desiderio, la volontà orientati al bene, ma bisogna anche che la sua ragione trovi la via giusta per operare l’atto virtuoso, capisca quali scelte concrete deve fare per giungere al bene, e questo è un compito che Aristotele prima e Tommaso poi assegnano alla virtù della prudenza, cioè la virtù che orienta verso il fine giusto, il fine del bene, tutte le nostre buone potenzialità, le nostre virtù. A questo livello si pone l’opera degli angeli: gli angeli non solo ci proteggono, ma ci aiutano, ci orientano, ci favoriscono, come loro sanno fare, in questo cammino verso il bene. Si tratta della cosiddetta “illuminazione” dell’angelo custode, come anche chiediamo nella preghiera all’angelo custode: “angelo di Dio che sei mio custode, illumina, custodisci, reggi e governa me”.
 

Un altro aspetto che possiamo mettere in luce e da cui possiamo imparare qualcosa dall’angelo custode è quello di frapporsi, interporsi tra Dio e noi; cioè l’angelo svolge un ministero, una missione ricevuta da Dio per noi, come abbiamo ascoltato anche nella prima lettura in cui si diceva: “Ecco io mando un angelo davanti a te per custodirti nel cammino”; e poi aggiunge: “il mio nome è in lui” e anche “Se tu dai ascolto alla sua voce e fai quanto ti dirò”. Cioè ascoltando la voce dell’angelo si obbedisce a Dio stesso, ciò significa che l’angelo non agisce da sé ma si muove e muove l’uomo secondo il volere, la Provvidenza di Dio. L’angelo buono non viene a noi se non perché mandato da Dio. E qui potremmo avere non solo un criterio di “angelicità” ma anche di buona e santa umanità. Sentirsi – in quanto cristiani – non solo inviati ai fratelli, inviati a chi ci è prossimo, ma inviati per custodire, per proteggere, per guidare al bene, per muovere al bene. In una parola, inviati del Signore, con i tratti di cura e amore che il Signore vuole per tutti. In questo senso anche noi possiamo essere angeli di noi stessi e degli altri, cioè persone capaci di aiutare gli altri secondo il volere di Dio, muovere gli altri al bene, stimolarli, suscitare delle passioni positive, buone, salutari.
 

Infine un’ultima caratteristica dell’angelo custode è la sua invisibilità, il suo nascondimento. L’angelo c’è ma non si vede, o meglio, non si vede ai nostri occhi ma è visibile solo agli occhi di Dio. L’angelo opera eppure ci sfugge nel concreto, nei particolari, che cosa dobbiamo attribuire al suo aiuto. In questo l’angelo è ancora, non solo un custode ma anche un maestro per noi. Un maestro che ci insegna che il bene va fatto non, come dice san Paolo, ad oculum servientes, cioè per farci vedere ed ammirare dagli altri, ma il bene vero, il bene autentico, si accontenta che sia Dio a vederlo, senza troppi sbandieramenti più o meno espliciti e manifesti. “Il bene non fa rumore” dice il Libro di vita.
 

Ecco allora quante cose impariamo e riceviamo dagli angeli: protezione, custodia, guida verso il bene, ma anche, se lo vogliamo, uno stile “angelico”, è proprio il caso di dirlo, nel fare il bene.

 

martedì 1° Ottobre 2013 – XXVI Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni- Battista FMJ

Memoria di S. Teresa di Gesù Bambino

 

La lettura continua del vangelo di Luca ci conduce oggi ad un momento di svolta all’interno della narrazione, perché si sottolinea che siamo all’inizio del compimento, ossia si stanno compiendo, si stanno perfezionando, stanno per consumarsi, nel senso di giungere al loro fine, i giorni in cui Gesù, dice il testo, sarebbe stato elevato in alto – espressione questa che indica l’avvicinarsi di Gesù ai giorni della Pasqua decisiva, della Sua Pasqua e nella Sua, anche della nostra.

 

Gesù è consapevole di questo stato di cose, è consapevole a tal punto da scegliere liberamente di dirigersi verso Gerusalemme, con una ferma volontà. Gesù, dice letteralmente il testo, indurì il volto nel senso di rendere saldo, stabilire, decidere in modo fermo e irrevocabile di mettersi in cammino verso Gerusalemme. È questa un’espressione molto chiara e concreta, plastica, per descriverci l’atteggiamento di Gesù che va a Gerusalemme con tutto se stesso, in tutta la sua volontà.
 

Ora, noi sappiamo che questo dirigersi verso Gerusalemme rappresenterà per Gesù l’incamminarsi verso il cuore della propria missione. Gesù aveva già operato molti segni, molti prodigi, aveva guarito e liberato molta gente, eppure non sono queste le opere grazie alle quali noi siamo salvati. Gesù sa che in questo viaggio e soprattutto negli eventi che stanno al termine di questo viaggio, lui avrebbe compiuto la missione ricevuta dal Padre e il perché profondo della sua presenza tra gli uomini avrebbe trovato una risposta definitiva. E tutto quanto accadrà dopo gli eventi di Gerusalemme, dopo il mistero di passione, morte e risurrezione, sarebbe stato, rispetto ad essi, relativo. Gesù va verso un punto di arrivo che sarà di fatto un punto di partenza, il cuore, il centro di tutto ciò che seguirà ma anche di ciò che veniva prima. La Pasqua di quell’anno 30 – secondo i calcoli degli studiosi – sarà quella Pasqua totale, quella Pasqua eterna grazie alla quale non solo qualcuno ma tutti vengono salvati. Così il cuore, il centro della missione di Gesù diventa il cuore il centro di tutto il mondo.


Anche Santa Teresa di Gesù Bambino si era chiesta: qual è il cuore della mia missione, qual è il cuore della mia vocazione? E questa non è una domanda stupida o inutile, una domanda per chi ha tempo da perdere, ma è una domanda a cui tutti prima o poi dobbiamo dare una risposta, e soprattutto, una risposta che sia giusta, che sia secondo Dio se non vogliamo vivere alla periferia di noi stessi o fallire un’esistenza intera. Teresa dunque si chiese meditando un testo di San Paolo: ci sono apostoli, profeti, dottori, e io che cosa sono, che cosa faccio, come servo questo corpo del Signore che è la Chiesa? Teresa capì, con l’aiuto di san Paolo, che anche i carismi migliori sono un nulla senza la carità, e che questa carità, dice Teresa, è la via più perfetta che conduce con sicurezza a Dio. E concluse questa sua riflessione con la celebre frase: “Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l’amore ed in tal modo sarò tutto.”

 

Ma, detto questo, dobbiamo aggiungere una cosa: Teresa capì che l’amore non era solo il cuore della sua vita, della sua vocazione, ma era anche il modo per raggiungere tutta l’umanità pur rimanendo chiusa nel suo chiostro. Teresa ha saputo così avere un cuore così grande da vivere, in questo incontro con l’Amore che esercitava nel concreto verso le sue consorelle monache, l’incontro con tutti. Teresa aveva scoperto il modo di arrivare fino agli estremi confini della terra servendo ed amando l’umanità che incontrava nel monastero. E questa sua testimonianza che sarà poi ratificata dalla Chiesa che la proclamerà patrona delle missioni insieme a S. Francesco Saverio, lei, una monaca di clausura, è una testimonianza che certamente ci edifica, ci stupisce, ma soprattutto, ci deve far riflettere. L’amore ci rende prossimi anche se fisicamente non lo siamo. L’indifferenza e l’egoismo invece ci rendono lontani anche se siamo fisicamente prossimi, anche se siamo nel centro di una metropoli, nel cuore della città. In questo senso possiamo affermare che dalla Croce di Cristo in poi ormai tutto è relativo perché la Croce di Gesù ha stabilito non il che cosa bisogna fare per amare, ma il come fare ogni cosa se vogliamo che sia un vero atto d’amore, un’incarnazione e un prolungarsi nel tempo e nello spazio dell’amore di Gesù. Questo è quanto ci ha insegnato e ci ha consegnato Gesù, questa è la fecondità che ci testimonia oggi santa Teresa di Gesù Bambino che nella sua “piccola via” come si dice in genere, ha trovato la strada per un amore universale, per amare tutti.

 

Davvero per chi vive ed ama in Cristo non ci sono più barriere da superare se non quelle del proprio cuore quando sceglie di non amare.

 

Domenica 29 settembre 2013 - 26 Domenica del T.O. - fr. Massimo-Maria FMJ

Lampada per i miei passi è la tua parola luce sul mio cammino.” Questa parola del salmista risulta quanto mai preziosa oggi per cogliere il senso della Parola di Dio di questa Domenica.

La Parola sempre vuole fare luce sul nostro cammino, e la Parola di questa domenica ha certamente una luce particolare, una luce vivida, forte, diremmo una luce impegnativa per il nostro itinerario.

Pensando specialmente al Vangelo mi pare sia necessario prendere le distanze da alcune possibili tentazioni affinché la Parola possa illuminare davvero il cammino.

La tentazione della paura: la paura non è mai il segno della presenza di Dio e delle cose di Dio.

Ma la paura in effetti può sorgere da questa parola; si parla di tormenti, di castighi e di inferno. Allora ecco la tentazione: presi dalla paura, si sorvola, si cerca di passare in fretta ad una altra Parola che magari cogliamo molto più consolante, rassicurante. Occorre in realtà esorcizzare questa paura ed accostarsi serenamente a questa parola discostandosi decisamente da queste paure poiché la Parola o meglio lo scopo della Parola non è farci paura, ma rivelarci in positivo qualcosa di importante per la vita di oggi.

Altra tentazione è quella dell’accostamento alla Parola in modo intellettuale in cui gli faccio dire quello che voglio – tra l’altro è un modo diverso di esorcizzare la stessa paura di cui sopra - e non mi lascio invece illuminare da quello che lei mi vuol dire: E’ la tentazione di chi ragiona più o meno così: Suvvia tormenti, inferno e cose simili etc. Dio è buono, siamo dopo il Concilio, il pensiero teologico contemporaneo, l’esegesi storico critica e così via, ci permettono di capire che la Parola vuol dire questo o quest'altro. Occorre prendere le distanze anche da questo approccio perché ancora - benché l’inferno, il fallimento totale di una esistenza resta una possibilità che noi possiamo scegliere e resta nel catechismo della chiesa cattolica definito in senso lato l’ultimo documento del concilio – tuttavia la Parola in questione non vuole parlarci di questo principalmente. Quindi prendere le distanze da questo approccio che può essere tentazione che scandalizza – fa ostacolo – alla Parola.

Ultima tentazione – altre sarebbero possibili – tentazione piuttosto ricorrente, è quella di chi troppo in fretta tira conclusioni: non sono mica io un riccone di quelli di cui parlano i gossip dei mass media. Sono magari benestante, ma faccio regolarmente l’elemosina e se mi chiedono un panino diamine gli do anche la frutta e il dolce. Questa parola non è per me! Ecco quella che chiamo la sindrome del vicino di banco – molto diffusa- in cui quando una Parola è proclamata sono maestro nell’individuare bene con chiarezza di chi sta parlando, a chi si sta rivolgendo, chi dovrebbe ascoltarla: tutti, il vicino di banco o di coro, ma non io.

E invece cari fratelli e sorelle la buona notizia di oggi è che questa parola è tutta per ciascuno di noi, nessuno escluso.

Cosa ci vuol dire? Facendo saltare le tentazioni di cui sopra certo già tanto dirà a ciascuno, ma almeno una mi pare importante sottolineare.

La Parola sta dicendo che i ricchi vanno all’inferno e i poveri in paradiso? Non propriamente. Il problema di sempre non è la ricchezza, ma l’attaccamento del cuore di fronte ad essa, l’atteggiamento del cuore di fronte al suo fascino.

Nella Parabola allora c’è Lazzaro il cui nome vuol dire “ Dio aiuta “ e c’è un ricco che dalla stessa descrizione pare esplodere dall’opulenza della sua vita. Talmente carico di cose, di cibo, di ricchezza con la quale non vive, ma per la quale vive, che – ecco il vero peccato, ecco il vero inferno, ecco la vera tragedia – non vede Lazzaro non si accorge di colui che sotto la sua tavola mangia gli scarti, le molliche di pane che gettava dopo essersi pulito la bocca – così come era usanza presso i ricchi orientali.

La ricchezza anziché strumento per fare del bene, lo rende cieco, lo rende incapace di vedere chi gli stà accanto. Ecco la Parola per noi. Non è necessario avere conti in banca con tanti zeri per essere ricchi, ognuno ha delle ricchezze materiali spirituali, intellettuali, umane. Queste le uso per gli altri o mi impediscono di vedere gli altri, di accogliere gli altri, di ascoltare gli altri, di servire gli altri, di accorgermi degli altri?

Il problema non è solo l’inferno di domani, ma è già l’opportunità persa di fare del bene oggi, di vivere bene oggi. Il Manzoni nei promessi sposi dopo aver parlato di un personaggio simile al nostro ricco epulone raccomanda al lettore: “Non pensare a star bene, pensa a fare il bene: starai meglio.”

Ecco l'invito allora della Parola di Dio: non una minaccia per intimorire, ma un invito alla condivisione, all'attenzione agli altri, a conservare intatto vivendolo il comandamento di cui parla Paolo scrivendo a Timoteo, il comandamento dell'amore. A conformarci sempre più al Signore che non solo si accorge degli altri, ma si prende cura. Il ricco epulone non si era accorto di Lazzaro, eppure lo aveva a fianco. Ma Dio sì! E gli viene in aiuto.

Questo fare del bene piuttosto che pensare a star bene per riprendere la frase del Manzoni non solo ci fa star meglio, ma ci conforma al mistero del Signore, al suo amare incondizionato, al suo condividere diremmo esagerato, al suo donarsi smisurato e disinteressato.

Il rischio di vivere ciechi a causa delle ricchezze che tutti abbiamo è sempre molto forte, ma la chiamata è a fare come Dio che spogliò se stesso per rendere noi ricchi con la sua povertà.

Il rischio di non accorgerci dell'altro perché presi dai nostri interessi, spesso buoni addirittura molto buoni, è più reale di quanto sembri, ma la chiamata è per noi ad uscire da se per andare verso l'altro, il Papa continua a dire verso le periferie e spesso queste periferie non sono molto lontane da noi.

Il Signore ci doni allora in questo giorno di non temere di accogliere questa Parola nella nostra vita, di non esitare a cercare il bene dell'altro condividendo le nostre ricchezze – di ogni tipo - e non solo staremo meglio, ma ciò che più conta è che il Signore ci chiamerà oggi amici e un giorno beati. Amen

 

giovedì 26 Settembre 2013 – Giovedì XXV Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ


 

Nei vangeli noi troviamo vari modi di Gesù di relazionarsi con le persone, di guardare la gente che incontra, una relazione che si esprime nei termini di una chiamata, talvolta di una guarigione, altre volte con un esorcismo. Gesù chiama i Dodici e altri discepoli, guarisce da malattie, libera dal demonio, oppure semplicemente annuncia la parola di Dio e racconta parabole.

 

Nei vangeli però non c’è solo questo, ma ci sono anche modi diversi dell’uomo di relazionarsi con Gesù. Si va dalla supplica, alla richiesta di aiuto impetrata da terzi, altra gente pone a Gesù quesiti di scuola, cioè quesiti teologici o morali.

 

Comunque, da entrambe le prospettive, quella di Gesù verso di noi e quella dell’uomo verso Gesù, ci troviamo nell’ottica del dialogo, della reciprocità. Nei vangeli, o meglio in Gesù, l’Emmanuele, prosegue quel dialogo che da secoli che Dio aveva intessuto con il popolo d’Israele, un dialogo che in fin dei conti non era altro che un rispondere ad una chiamata, un dire un sì sempre nuovo all’alleanza con Dio. E gli antichi profeti non erano altro che degli uomini scelti proprio per nutrire, per alimentare con tutto il loro essere, vita e parole, questo dialogo tra Dio e l’uomo. Così il popolo giungeva alla conoscenza del Dio dei Padri, e sempre nella relazione, nello scambio e nel dialogo, la gente incontrava e conosceva Gesù.

 

Con Gesù non esistono i monologhi in cui parla uno solo, e Gesù stesso alle volte era lui stesso che chiedeva, interrogava, provocava una conversazione, cercava risposte dai suoi interlocutori o si mostrava anche bisognoso di aiuto, pensiamo al brano della samaritana. A Gesù interessa non anzitutto insegnare dei contenuti nuovi, che pur ci sono, trasmettere delle verità nascoste, anzi molto di questo lo “delegherà” alla futura opera dello Spirito che appunto, dice, vi condurrà alla verità tutta intera, prenderà del mio e ve lo annuncerà, ecc. A Gesù interessa anzitutto farsi conoscere dagli uomini, incontrare gli uomini, stare con gli uomini, far vedere che è loro amico, creare una relazione con noi per portarci alla salvezza. La Dei Verbum dirà proprio questo: “Il Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si trattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé” (DV 2)
 

Ora, qual è l’opposto di questa relazione di amicizia che il Signore vuole costruire con gli uomini? Come rendersi impermeabili a questo legame? Ecco non anzitutto con l’odio o il disprezzo, ma con l’indifferenza, o nel caso del vangelo di oggi, con la neutralità.

 

C’è una cosa che accomuna Erode e Zaccheo, ed è proprio questa neutralità nel guardare Gesù. In questo lo sguardo di Erode su Gesù è simile a quello di Zaccheo dall’alto del suo sicomoro. Simile ma non identico: c’è infatti una differenza importante: Zaccheo è vero che sale sul sicomoro per guardare senza essere visto, per conservare la sua neutralità, ma quando Gesù lo chiamerà e gli dirà “scendi subito”, Zaccheo accetterà di entrare in questa reciprocità di sguardi.

 

        Come invece Erode guarda Gesù? Lo rivela l’atteggiamento di Gesù. Gesù, davanti ad Erode rimane in silenzio. Questo silenzio è la risposta di Gesù alle provocazioni di Erode che lo interrogava e sperava di vedere qualche miracolo. Erode tratta Gesù come un oggetto di divertimento, come una cosa sua, come qualcosa con cui saziare la sua curiosità. Insomma tratta Gesù volendo dominare la situazione. Erode non cerca il dialogo sincero, come non lo cercava con Giovanni Battista. Erode non cerca una vera relazione con Gesù e Gesù allora con lui non parla.

 

Da tutto questo capiamo allora che non possiamo conoscere Gesù se vogliamo rimanere nella nostra neutralità, o peggio ancora, nella nostra arroganza, tranquilli nelle nostre case ben coperte, come dice il profeta Aggeo, e guardare tutto dalla finestra. No! Se vogliamo conoscere Gesù dobbiamo avere il coraggio della relazione con Gesù, dobbiamo avere il coraggio di entrare in questo dialogo, in questo trattenersi di Gesù con noi. Dobbiamo avere il coraggio dell’umiltà, quell’umiltà che si lascia guardare da Gesù, si lascia chiamare da Gesù, si lascia amare da Gesù, e gli risponde, gli parla, lo ama. Gesù non cerca degli spettatori ma degli amici, e chi diventa amico di Gesù attira poi altri amici, impara da Gesù l’arte, il balsamo dell’amicizia, impara da Gesù a essere amico, a farsi amico, a uscire da sé per andare verso un incontro, una relazione che è già evangelizzazione perché era il modo stesso di evangelizzare che usava Gesù.

 

venerdì 27 Settembre 2013 – XXV Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ
 

Se proviamo a dare una lettura veloce al vangelo di Luca vediamo che il brano che leggiamo oggi è la prima occasione in cui Gesù interroga i suoi discepoli sulla loro fede. Già da tempo lo seguono, cioè già da tempo vanno dietro a Gesù, ascoltano Gesù, obbediscono a Gesù pur non sapendo ancora bene chi sia, e ora il Signore vuole sondare la loro fede.

 

Perché questa domanda, o meglio queste domande, perché sono due? Forse perché il Signore non conosceva ciò che domandava, lui, che come dice san Giovanni, conosce quello che c’è nell’uomo? Chiaramente non è per questa ragione. Perché allora Gesù si informa su cosa pensano gli altri e su cosa pensano loro, i discepoli?

 

Una prima ragione possiamo dedurla dal contesto in cui questo brano è collocato nel vangelo di Luca. La posizione di questo brano è più o meno centrale nel vangelo di Luca, non in senso geometrico, perché non siamo esattamente a metà, ma nell’andamento del vangelo stesso. Gesù sta per salire a Gerusalemme, e come sappiamo, Gesù non ci salirà da solo ma vi andrà con tutto il gruppo degli apostoli. Gesù prima di salire a Gerusalemme vuole mettere alla prova la fede dei suoi, o più che metterla alla prova, vuole che la esplicitino, vuole che dicano le loro sensazioni, le loro idee su di lui, vuole che la loro opinione su Gesù venga a galla. Gesù vuole che i suoi discepoli lo seguano in modo consapevole. E questo è molto importante anche per noi. Non possiamo seguire Gesù senza sapere chi è Gesù. Sapere chi è Gesù significa infatti rendersi consapevoli, riconoscere in se stessi prima che di fronte agli altri, che Gesù è degno di fede, è degno di fiducia e perciò è degno di essere seguito. Se la vocazione cristiana è una vocazione libera vuol dire anche che è una vocazione consapevole, cioè che non va alla cieca, non avanza senza un perché. Ciò non significa che dobbiamo necessariamente capire tutto del nostro cammino, però è essenziale capire e credere una cosa, almeno questa cosa: Colui che stiamo seguendo non è un uomo qualsiasi ma è il Cristo, il Figlio di Dio. Se questa fede è chiara e consapevole in noi tutto il resto può anche rimanere meno chiaro, ma l’importante è sapere che colui che ci guida è il Figlio di Dio. Se questa fede invece non c’è, è dura andare avanti, perseverare dietro a Gesù.

 

Anche perché, e qui arriviamo ad un secondo punto, Gesù non è un Dio come ce lo faremmo noi, come ce lo immagineremmo noi. E meno male! Se no avremmo un dio che sarebbe proiezione in grande dei nostri ideali, dei nostri desideri e perfino della nostra personalità: per cui il dio super-uomo, il Gesù femminista e così via. Insomma una versione perfetta di noi stessi. Per cui le nostre idee su di Gesù rimangono idee che vanno sottoposte ad una conversione, ad una crescita, dobbiamo esporle ad una maturazione perché Gesù non è un Messia qualsiasi, se così possiamo dire, o come lo vorremmo noi. Gesù è un Messia crocifisso, il Dio crocifisso come lo chiama sant’Agostino. La Croce ha segnato una volta per sempre il corpo di carne di Gesù, ormai è qualcosa che fa parte di Lui come fa parte di Lui la risurrezione. Non possiamo separare Gesù dalla Croce. Come non possiamo scindere il mistero pasquale, cioè come non possiamo più pensare che la morte abbia l’ultima parola dopo la risurrezione di Cristo, così però non possiamo separare Gesù dalla Croce. Chi fa questa operazione indebita e antistorica, predica un altro Gesù, un Gesù che non è il Gesù di Nazareth, non è più Gesù Cristo. E questo è un rischio per tutti perché talvolta vorremmo che la vita cristiana non fosse una sequela di Gesù, ma qualcosa di diverso, un modo di vivere bene, una saggezza interiore o una bella morale o perfino un battezzare il nostro modo di pensare lasciandolo così com’è. Il cuore del cammino cristiano è e rimane un cammino dietro a Gesù che ha anche per noi, come per Gesù e i Dodici, un punto di partenza e un punto di arrivo, o piuttosto, luogo di transito, che si chiama Golgota. Non possiamo seguire Gesù senza portare la Croce.

 

Se non abbiamo chiaro questo, di fatto ci troviamo a pensare anche noi come pensano le folle: Gesù è Giovanni Battista, è Elia, è uno degli antichi profeti, ma non è il Messia da seguire. Si va da Gesù, come le folle (e infatti questo brano viene subito dopo quello della moltiplicazione dei pani) quando abbiamo bisogno noi, ma di seguirlo dove vuole lui non ci stiamo. E attenzione, le folle, non era gente che non aveva mai incontrato Gesù, ma era gente che l’aveva incontrato, l’aveva visto all’opera nel fare i miracoli Eppure queste folle non pensano come discepoli di Gesù, non sono discepoli di Gesù, parlano di Gesù senza seguirlo. Ci sono infatti i lontani dalla Chiesa, ma ci sono anche i lontani nella Chiesa. Questo può accadere anche a noi cristiani e a noi consacrati e monaci quando dimentichiamo che Gesù lo si venera, lo si adora, lo si cerca, (il famoso quaerere Deum) seguendolo, camminando dietro di lui. Questa è la nostra professione di fede.

 

Domenica 22 Settembre 2013 – XXV Domenica T. Ordinario – fr. Giovanni Battista FMJ


          Le letture di oggi ci invitano a riflettere sul rapporto che il cristiano, il discepolo di Gesù, deve avere con il denaro, con la ricchezza e con il lavoro, un rapporto che non è disgiunto dal fine dell’uomo, dal bene della sua anima, dalla salvezza eterna. Un rapporto del quale dovremo rendere conto come l’amministratore del Vangelo di oggi.

 

Un primo criterio di valutazione di questo rapporto ce lo offre il vangelo stesso che si conclude con un’affermazione chiara e netta che ci invita ad una scelta, ci esorta a prendere posizione, ci impedisce di tenere il piede in due scarpe: “ non si possono servire due padroni, non potete servire Dio e la ricchezza.” Queste parole già ci interrogano e ci invitano a chiederci: chi noi vogliamo servire? Chi è il Dio che vogliamo adorare? Di quale Dio vogliamo essere discepoli? È importante farsi questa domanda e, chiaramente, rispondervi.

 

La prima lettura ci trasmette, tramite il profeta Amos, le parole di coloro che hanno scelto come loro dio il denaro; non solo ce ne trasmette le parole, ma ci presenta a quali frutti porta, a quali conseguenze conduce una scelta di vita che mette al primo posto la ricchezza: ingiustizie sul povero e sull’umile, uso di bilance false, compravendita di persone come se fossero oggetti di cui disporre liberamente. L’uomo che sceglie di fare della ricchezza il suo Dio di conseguenza subordina tutto il resto, persino le relazioni con gli altri uomini, a questo valore supremo che è il diventare ricchi, l’accumulo per sé. Tutto deve servire a rendermi grande, a rendermi ricco, a rendermi potente. E attenzione, questo non vale solo per la ricchezza materiale ma possiamo estenderlo anche per la ricchezza umana come la cultura, l’intelligenza, lo studio, le proprie capacità umane e persino spirituali, queste cose che in sé sono buone, possono diventare il dio della nostra vita e creare violenza, discriminazione o anche schiavitù intorno a noi. La lettura però si conclude con delle parole che ci fanno capire che Dio, il vero Dio, non è un Dio distratto, ma è un Dio che vede tutto e si prende cura dei suoi poveri: “Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: «Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere»”.

 

Se però noi decidiamo di servire Dio e non la ricchezza, di conseguenza dobbiamo anche riconoscere, se vogliamo andare fino in fondo nelle cose, per essere coerenti con questa scelta, che allora la ricchezza non può avere il primo posto nella nostra vita, non possiamo considerarla come una valore assoluto ma dev’essere ridotta al rango di un valore strumentale, cioè qualcosa che non dev’essere per noi un obbiettivo da raggiungere in se stesso o per accrescere il nostro grandeur, ma qualcosa che ci serve solamente per raggiungere gli obbiettivi che più sono coerenti con la nostra scelta fondamentale di servire Dio. È un po’ quello che cerca di fare l’amministratore disonesto che, con quella scaltrezza che viene elogiata dal padrone, fa di tutto per sistemare le cose. Lui che aveva sperperato i beni del suo padrone, cioè aveva fatto dei beni del suo padrone un uso che non era più un servire il suo padrone ma un lucro per se stesso, ora cambia: organizzando diversamente gli stessi beni cerca di fare qualcosa che possa salvarlo. Potremmo certo ribattere che comunque l’amministratore ritoccando le ricevute dei debitori sta agendo ancora per il proprio interesse, per il proprio vantaggio. Sì, ma adesso l’amministratore non cerca più solo un vantaggio economico, finanziario come prima, ossia un lucro fine a se stesso, ma sta cercando un guadagno per il futuro, quel futuro che nella parabola che usa un linguaggio simbolico, un linguaggio metaforico, è presentato con l’immagine del trovare accoglienza, del trovare ospitalità, che fuor di metafora significa, trovare accoglienza nella vita eterna. La ricchezza a questo punto diventa di giovamento per la propria anima, per la propria salvezza.

 

Un secondo aspetto che possiamo cogliere dalle letture di oggi e che già ci è diventato un po’ più chiaro, un po’ più evidente, è questo: la ricchezza in sé non è nè buona nè cattiva, può essere invece buona o cattiva la scelta che l’uomo fa di come utilizzare questa ricchezza. L’uomo ha il potere di rendere buone o cattive le cose, può cioè renderle dei beni o dei mali, degli strumenti di benedizione di Dio e di beneficio per sé e gli altri, o trasformarle in strumenti per maledire il Creatore e far del male a sé e anche agli altri. L’uomo, in tutto questo, svolge una mediazione, l’amministratore di fatto è un mediatore, qualcuno cioè che si pone tra il vero proprietario della ricchezza (che è Dio in ultima istanza) e gli effetti che l’utilizzo di questa ricchezza provocano a valle. Una mediazione di cui l’uomo-mediatore dovrà rendere conto.

 

Ora, la seconda lettura di oggi fa menzione anch’essa di un mediatore dicendo che uno solo è il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù. Come media l’uomo Cristo Gesù? Di che genere è la mediazione di Gesù? È una mediazione, come sappiamo, nell’ordine della creazione (per mezzo di lui tutte le cose sono state create) e nell’ordine della redenzione (per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo). In tutto questo Gesù esegue fedelmente il volere di Dio per il quale esercita la mediazione, la amministrazione, e la volontà di Dio è espressa chiaramente pocanzi nella lettura: “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità”. Ecco il criterio ultimo, vero e fondante della mediazione di Gesù a cui si deve conformare il discepolo di Gesù: tutto ciò che fa sia in ordine alla salvezza e alla conoscenza della verità. Se dunque noi ci chiediamo come essere amministratori non solo di quanto possediamo in questa vita ma soprattutto di quanto siamo, come dobbiamo essere amministratori di noi stessi, dobbiamo continuamente guardare a Gesù, fare nostro il criterio, il modo, il fine della mediazione dell’unico mediatore fra Dio e gli uomini che è Gesù, e cioè la salvezza nostra e di tutti. Come è la sua mediazione così dev’essere anche la nostra mediazione non nel senso che ci siano più mediatori tra Dio e uomo, solo Gesù lo è. Ma nel senso che la nostra mediazione non dev’essere altro che un prolungamento, una continuazione di quell’unica mediazione con cui Gesù ci ha procurato la salvezza, dev’essere un collaborare con l’opera di Cristo. A questo punto la linea per agire è più chiara: se qualcosa di ciò che facciamo nuoce alla salvezza degli uomini o è di ostacolo all’incontro con Dio o alla conoscenza della verità, non dobbiamo farla. Tutto ciò che invece è fedele a questo volere di Dio dobbiamo farlo con tutte le nostre forze. È questa l’amministrazione che ha successo agli occhi di Dio, il buon governo di sé e del mondo.
 

Infine, per concludere, possiamo spendere due parole su quanto Gesù dice alla fine della parabola, una parola che ci piace sentire sulla bocca di Gesù perché ci sfata un po’ la caricatura del cristiano come uno un po’ tonterello, poco sveglio. Gesù riconosce che i figli di questo mondo, con i loro pari, sono più scaltri dei figli della luce. Sono parole interessanti per due ragioni: la prima è che Gesù, nonostante la disonestà dell’amministratore, riesce a cogliere qualcosa di positivo nel suo atteggiamento, che è la scaltrezza. Noi forse saremmo stati più sdegnati, dall’alto della nostra onestà, avremmo visto solo la scorrettezza del servo, avremmo detto che quell’uomo era un’opportunista, cercava i propri interessi, un furbastro, cose che possono essere vere. Gesù però che ha uno sguardo più vero e più equilibrato del nostro sulle vicende e sulle dinamiche umane, mette in luce gli aspetti positivi del mondo e di questa vicenda. Gesù non è nemico del mondo, non è nemico degli uomini. Nella sua mediazione di cui vogliamo diventare partecipi rientra anche questo: uno sguardo che certo vede le cose del mondo, ma che cerca anche di comprendere, di discernere, di far emergere il buono e non solo il cattivo.

 

La seconda ed ultima cosa, è che se Gesù non è nemico degli uomini e del mondo, non è nemico neanche dell’intelligenza e della furbizia dell’uomo. Anzi, Gesù ci invita ad una santa furbizia. Oggi, come altrove nel vangelo come per esempio quando dice: “Sapete interpretare l’aspetto del cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi?” (Mt 16,3), Gesù ci esorta ad usare la nostra intelligenza non solo nelle cose che ci stanno a cuore come il lavoro, la famiglia, gli affetti ed il guadagno, ma anche nel considerare ed organizzare il nostro cammino di santità. Per questa ragione loda la scaltrezza del servo disonesto e invita così anche noi ad imparare da lui e a farci furbi nelle cose di Dio come i figli del mondo lo sono nelle cose del mondo. Talvolta mettiamo tutto il nostro impegno, la nostra professionalità e la nostra intelligenza nelle cose di questa terra (sport, calcio, lavoro, politica ecc.) e poi rimaniamo atrofizzati, un po’ ignoranti e poco pratici nelle cose di Dio che sono, tra l’altro, quelle da cui possiamo ottenere il bene, il guadagno maggiore e migliore. Ascoltiamo allora quest’oggi la voce di Gesù che è come se ci dicesse: Fatevi furbi! Fatevi santi!

 

mercoledì 19 Settembre 2013 – XXIV Settimana T. Ordinario – fr.Giovanni-Battista FMJ


 

Il vangelo di oggi si chiude con un’affermazione che ricorre anche altrove nel vangelo, in genere associata a episodi di guarigione, di miracolo compiuti da Gesù: “la tua fede ti ha salvata, vai in pace.” Gesù, con queste parole, sottolinea la fede di questa donna peccatrice che si rannicchia ai piedi di Gesù, ma, se leggiamo i versetti precedenti con attenzione, sembrerebbe che la cosa più importante non fosse tanto la fede. Gesù non aveva parlato di fede ma di amore e di perdono, e d’altro canto la donna, non dice nulla che dimostri la sua fede se non un atteggiamento di affetto e di pentimento nei confronti di Gesù. Ci saremmo dunque aspettati che Gesù dicesse non la tua fede ti ha salvato ma una frase come: il tuo amore ti ha salvato, il tuo pentimento! E invece no, Gesù parla di fede. Gesù vede nell’atteggiamento della donna, e in particolare nell’amore con la quale essa esprimeva il suo pentimento e la sua gratitudine verso Gesù, in tutto questo Gesù legge la fede della donna. La donna professa la sua fede, proclama, potremmo dire, il suo Credo, il suo Te Deum, amando. Da questa donna possiamo imparare molto anche noi, anzitutto una cosa: se la fede cristiana non ci porta ad amare, a vivere nella compassione, ad avere in noi il germe del bene che è l’amore, potremmo essere anche le persone più osservanti, più generose, più ossequienti alla Legge; potremmo perfino, direbbe san Paolo, consegnare il nostro corpo per essere bruciato, tutto questo a nulla ci gioverebbe senza l’amore. L’amore rivela la fede, l’amore è epifania della fede perché dove c’è l’amore c’è Dio!


          Un secondo aspetto interessante del vangelo di oggi lo troviamo nella breve parabola che Gesù racconta: Gesù dice che i due debitori non avevano di che restituire il debito. In questa situazione ci troviamo noi tutti e anche ogni uomo nei confronti di Dio. Davanti a Dio tutti siamo persone in debito, persone non in grado di restituire quanto da lui riceviamo, e neanche capaci di risanare, di recuperare pienamente di fronte a lui e di fronte agli altri, il danno causato dai nostri peccati. Nei confronti di Dio siamo e saremo sempre in debito, persone in deficit. Questo stato di perenne e cronica, potremmo dire, incapacità di dare una risposta a Dio che sia, anche solo minimamente, alla pari di quanto da lui riceviamo, invece che essere una disgrazia è quanto può aprire davvero il nostro cuore ad una relazione liberante, ad una relazione che non abbia più da dimostrare o da rimborsare nulla a Dio, una relazione d’amore. L’amore non attende che essere amato, non vuole altro; l’Amore non attende altro che essere accolto ed essere vissuto, ringraziato, imitato. È questa la vita divina che deve scorrere nelle nostre vene e che può cambiare noi, il nostro modo di pensare e perfino il mondo intero. Se non accettiamo questo squilibrio cronico tra noi e Dio saremo sempre persone che vorranno farsi ed apparire grandi e giusti, persino di fronte a Dio. Rimarremo anche noi al livello del fariseo, molto giusto ma di una giustizia che non è quella di Dio, devoto del suo dio e non del volto autentico del Signore che infatti non riesce a riconoscere pur avendolo di fronte. Da questa giustizia più umana che divina nascono, di conseguenza, relazioni tra gli uomini più secondo il mondo che da figli di Dio, relazioni di giudizio, di critica, di separazione in categorie di giusti e di ingiusti, di amici e di nemici, di peccatori e di santi. La misura che Gesù usa nel vangelo di oggi è l’amore: questa donna per quanto peccatrice nella sua vita passata ha incontrato in Gesù un amore che il fariseo nemmeno riconosce. Ha sperimentato quella potenza della misericordia di Dio, di cui parla l’orazione colletta di oggi, che l’ha rinnovata, l’ha resa una donna nuova. I capelli, le labbra, gli occhi, il profumo, le mani, tutto quanto prima in lei era a servizio di una vita di peccato, ora lo usa per onorare il corpo del Signore.

 

          È questa la vera conversione, è questa la potenza della misericordia: quella forza che non distrugge ma rinnova, rida dignità perché tutti siano felici e fieri di abitare nella casa del Padre.

 

Domenica 15 settembre 2013 -  XXIV Dom. del T.O. - fr. Massimo-Maria FMJ

 

   La Parola di Dio che questa domenica la liturgia ci offre è particolarmente ricca. Cerchiamo di raccogliere alcuni riflessi di questi testi luminosi perché il nostro cammino ne sia rischiarato e nulla della nostra vita personale o comunitaria sia volutamente tenuto fuori dalla grazia di questa Dono.

   Il tema senza dubbio è quello misericordia di Dio verso l'uomo peccatore. Ma stranamente la liturgia della Parola si apre con testo – quello dell'Esodo – in cui, se non ci fosse stato Mosè, i sentimenti e i propositi di Dio avevano decisamente preso tutt'altra direzione rispetto alla clemenza ed alla misericordia.

     “ Il Signore disse a Mosè: "Ho osservato questo popolo: ecco, è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. “

  Una Parola dura, diremmo tremenda da parte di Dio, ma ecco la figura di Mosè: non solo tratta con Dio, ma gli ricorda dell'alleanza, gli ricorda il patto che aveva fatto giurando su se stesso. E Dio grazie all'intervento di Mosè si pentì del suo proposito.

     Davvero strano questo testo, davvero misterioso. Dio che minaccia e Mosè che intercede.  Cosa vuole rivelarci la Parola ? Ci si chiede allora!

   L'autore Sacro mostra volutamente Dio simile all'uomo – utilizza un cosiddetto antropomorfismo -  presenta cioè un Dio che, come l'uomo, si irrita e persino parrebbe volersi vendicare scoprendosi tradito. Ma così facendo prepara il terreno perché attraverso l'atteggiamento di Mosè si sveli il vero volto di Dio che, Mosè, in realtà conosce bene.

     Mosè infatti, nonostante le parole forti e i propositi drammatici di Dio, insiste, ha il coraggio di andare oltre le parole di Dio perché ormai conosce il cuore di Dio e quindi non crede in un certo senso a questo proposito di Dio.

 E' interessante come si esprime il testo:"Mosé  supplicò", ma piuttosto il verbo significa "incominciò ad accarezzare il volto del Signore".

   In altre parole Mosé accetta di essere come un figlio che sa di essere amato e che gioca con il padre e usa tutte le sue risorse per poter portare il padre al sorriso. E lo fa perché lo conosce, lo conosce bene, e sa che il cuore è altro rispetto al volto apparentemente irato. Ecco che questo brano è un testo davvero bello della Scrittura.

    Mosé, ha scoperto veramente il volto di Dio, un volto che dà fiducia e garantisce confidenza. Da qui nasce l'intercessione di Mosè, intercessione che profetizza l'Intercessore e Mediatore per eccellenza: Gesù il Figlio amato.

    Gesù infatti intercede perché conosce il cuore del Padre. Potremmo soffermarci tanto sul mistero e ministero della preghiera di intercessione nel corpo della Chiesa- ministero che appartiene particolarmente al ministero sacerdotale e ed al ministero monastico, ma non certo in modo esclusivo.

 Intercede veramente, con gioia, con intensità e  - diremmo con convinzione  - chi conosce il cuore di Dio profondamente perché ne ha fatto esperienza.

    Il vero intercessore infatti,  come Gesù, ha scoperto la bellezza e la bontà di Dio, crede in Lui e sempre misteriosamente si mette davanti a Lui sentendo di poter serenamente prendere la parte del più debole, del fratello più bisognoso di bontà e misericordia, perché in fondo Dio non aspetta altro.

      Ma, evidentemente, la misericordia del cuore di Dio splende sul volto di Gesù e nella Parola che attraverso l'evangelista Luca ancora oggi ci dona.

         Voglio sottolineare tre cose importanti della Parabola del Padre Misericordioso; la terza che Gesù racconta nel capitolo 15 di Luca.

      La Parabola dice che il Padre: divide le sostanza, lascia partire il figlio e lo aspetta.

Che il Padre attenda il figlio non è detto chiaramente, ma lo si capisce dal fatto che, nel momento del ritorno, il padre – dice il testo-  lo vide quando era ancora lontano.

    In questa attesa c'è tutta una prima sfumatura di questa misericordia. La misericordia non perde mai la speranza!

   Se Mosè conosce il cuore di Dio e per questo intercede, possiamo ora dire che il padre conosce il cuore del figlio e sa che in fondo c'è del buono, c'è della bontà, perciò spera, lo ama, lo aspetta.

     La misericordia è molto di più che perdonare dall'alto della nostra magnanimità, è credere al buono che c'è nel peccatore anche se non si vede. Spesso proprio quel buono, pur infinitamente piccolo, diviene il piccolo resto da cui tutto – per misterioso disegno di Dio – tutto riparte, il cammino di conversione rinasce. La misericordia è – possiamo dire - sostenuta dalla speranza.

     Ma ancora: nel momento in cui il figlio ritorna, si era preparato un bel discorsetto, forse per far colpo sul Padre. Ma non c'era bisogno! Il Padre misericordioso infatti non glielo fa dire tutto, ma solo una prima parte, e cioè: “ Padre ho peccato verso il cielo e davanti di te. Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio.”

       Se la misericordia è sostenuta dalla speranza, è anche suscitata e animata dalla verità. Non è una grazia a buon mercato disse il Papa Benedetto; ci è offerta sempre, immeritatamente, all'infinito, non fa che assicurarci Papa Francesco: a noi però è chiesto di fare verità. Non ci è chiesto di flagellarci, di farci rodere dai sensi di colpa, ci è però chiesto di essere veri, di non far finta di nulla davanti al male, ci è chiesto di chiamarlo col suo nome. Chiamare le cose con il proprio nome quanto è importante, e quanto libera e dà pace. L'ipocrisia è l'esatto contrario.

    Colpisce se ci fate caso che Papa Francesco, che forse passerà alla storia come il Papa della misericordia e della tenerezza – e Papa Benedetto come Papa della mitezza e l'umiltà -  insista – Papa Francesco - sul confessare il proprio peccato, chiamandolo per nome, individuandolo chiaramente. Non basta quando ci si confessa dire sono un peccatore – ha detto – ma chiamare le cose con il proprio nome: ho fatto questo, questo e questo.

    E tanto meno non è il caso di confessarsi dei peccati degli altri per non vedere i propri.

    Essere veri davanti a Dio, davanti a noi stessi, non raccontarsela su tanto, questa verità davvero spalanca la porta ad una gioia immensa e liberante: si chiama esperienza della misericordia.

      E in ultimo: il Padre non semplicemente fa al figlio un discorso tenero, bello, incoraggiante pieno di misericordia, ma pone dei gesti chiari, concreti, visibili, esperimentabili: gli si gettò al collo, lo baciò, gli mise l'anello, il vestito e i calzari, e fece una grande festa.

     Dio fa così con noi! Ecco che forse il primo invito allora è aprire gli occhi per vedere questi segni concreti della sua misericordia nella nostra vita. Quanta misericordia Dio ci usa e ci ha usato! Il Salmista come stupito da una tale esperienza canta: “ Canterò senza fine le misericordie del Signore.” 

   Accorgerci di questo non solo ci da la gioia di sentirci sempre più perdonati, ma anche ci guarisce dal male della nostalgia e della lamentela.

     Ma anche possiamo chiederci – a partire da ciò - come noi testimoniamo concretamente agli altri la misericordia ? Lo facciamo con le teorie, o con gesti, con segni, con fatti concreti? Dio ci ha detto e dato la sua misericordia con il Figlio suo Crocifisso e risorto, noi non possiamo pensare di dire la sua misericordia  ai fratelli solo con discorsi, senza porre gesti, senza sporcaci le mani, senza fare della nostra vita un dono. ( La vita monastica è cantare questa misericordia nel dono di sé a Lui per i fratelli )

    Il Signore ci invita oggi allora a lasciarci provocare dalla sua misericordia: accogliendola. Chi davvero ne fa esperienza, chi davvero conosce il cuore di Dio non solo diventa intercessore – come Mosè e soprattutto Gesù – ma di questa misericordia diviene concretamente testimone.

     Il Signore ci conceda ci credere davvero a questa misericordia che è sostenuta dalla speranza, animata dalla verità e sempre molto concreta.

    S. Ambrogio ne era convinto e scriveva infatti: “ Non avere mai timore che Egli non ti accolga. Già ti corre incontro al vederti tornare. Tu temi il castigo, ma Egli ti porge un bacio; ti aspetti un invettiva ed Egli ti invita al banchetto.....Ti riporta a spalle come fa un pastore, viene a cercarti come fa una madre; ti riveste come fa un padre.”

 

sabato 14 Settembre 2013 – Festa dell’Esaltazione della Santa Croce - fr. Giovanni-Battista FMJ


 

     La liturgia di questa festa dell’esaltazione della santa Croce non poteva non scegliere come lettura un passo del vangelo secondo Giovanni, il vangelo che più mette in risalto la dimensione gloriosa della Passione di Cristo,un Cristo padrone di sé che se viene ucciso è perché si consegna volontariamente e liberamente alla morte. Non è uno sventurato il Gesù secondo Giovanni, ma è un uomo libero, un uomo che dona se stesso fino alla fine per amore e può farlo in modo unico e pieno proprio perché è pienamente libero. Per questo la sua morte è innalzamento, contiene già in sé qualcosa di glorioso cha la risurrezione non farà che ratificare, esplicitare, rendere evidente a tutti coloro che credono. Da ciò possiamo ritenere una prima luce di questa festa: l’offerta libera di Cristo al Padre mediante la sua consegna nelle mani degli uomini, è frutto di quella libertà così piena, così perfetta di Gesù da non essere altro che la traduzione, in forma umana, dell’onnipotenza di Dio. L’uomo-Dio Gesù mostra la sua onnipotenza donando se stesso per amore, e donandosi liberamente, e traccia, in questo modo, anche per noi, il cammino della vera grandezza, quello dell’offerta libera di sé per amore.

 

     In tale dono di sé è già impresso il segno della gloria. Il cristiano che vive nella sua vita, e talvolta anche nella sua carne, il mistero della Croce in comunione con Cristo, sperimenta quanto san Paolo esprimeva in termini di sapienza e forza, stoltezza e debolezza: “Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini. (…) Quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti. (…) Perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio” (1 Cor 1,25.27b.29). Si tratta di un mistero di dolore redento, e per questo, di dolore fecondo, cioè un dolore, una sofferenza che ormai, come affermerà Giovanni Paolo II, ha un valore redentivo. La Croce di Cristo sottrae ormai per sempre al non senso, all’inutilità, alla solitudine, la sofferenza umana, per innestarla in quel dolore di Cristo per noi uomini nel quale si è consumata la redenzione di tutto il genere umano. Il cristiano che soffre con Cristo e per Cristo e in Cristo è ormai inserito nel mistero pasquale che Gesù ha sigillato con il suo sangue e che nessuno potrà mai più scindere o separare. Non si può spezzare il mistero pasquale, non si può più, per l’uomo unito a Cristo, separare abbassamento ed innalzamento, dolore e beatitudine, morte e vita. L’uomo che soffre con Gesù, infatti, fa una sola cosa con Cristo, è diventato quella carne di Cristo che completa ciò che manca ai suoi stessi patimenti a favore del Suo corpo che è la Chiesa.

 

     Stiamo forse facendo del dolorismo come qualcuno potrebbe pensare della fede cristiana? Tutt’altro! Stiamo piuttosto proclamando che la gloria di Cristo ha ormai invaso e fecondato anche il deserto più arido della sofferenza per renderlo terra di speranza, luogo di vita nuova, rivelazione dell’onnipotenza divina, presagio di gloria.

 

     Non dobbiamo però dimenticare che tutto questo viene da Dio: questo linguaggio, agli occhi del mondo rimane stoltezza, debolezza, follia. Senza la fede in Gesù la sofferenza rimane senza un vero senso, e Cristo stesso uno sventurato, per non dire un maledetto.

 

     L’uomo perciò secondo questo modo di ragionare, deve cercare di esaltarsi da solo, di costruire da sé stesso la propria gloria ma così facendo è come se rinunciasse alla gloria che viene da Dio. La prima lettura di oggi lo dice esplicitamente: “Cristo Gesù umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di Croce. Per questo Dio lo esaltò, e gli donò il nome che è al di sopra di ogni altro nome.” L’uomo che si esalta da sé, l’uomo che si fa un nome, come a Babele, è un uomo che sbaglia strada, non segue la via della vera realizzazione, che per Cristo è stata la salita al monte Golgota, è un uomo che abbandona la via di Cristo. Benedetto XVI ha detto recentemente ai suoi ex studenti: “Noi ci troviamo sulla via di Cristo, sulla giusta via, se in sua vece e come lui proviamo a diventare persone che “scendono” per entrare nella vera grandezza, nella grandezza di Dio che è la grandezza dell’amore.” “La Croce – continua il papa emerito – nella storia è l’ultimo posto” e il “Crocifisso non ha nessun posto, è un ‘non posto,”, è stato spogliato, “è un nessuno” eppure – nota il Santo Padre – Giovanni nel Vangelo vede “questa umiliazione estrema” come “la vera esaltazione”. “Così, Gesù è più alto; sì, è all’altezza di Dio, perché l’altezza della Croce è l’altezza dell’amore di Dio, l’altezza della rinuncia di se stesso e la dedizione agli altri.” “Questo è il posto divino.”

 

venerdì 13 Settembre 2013 –  XXIII Settimana T. Ordinario – Commento ora media – 1 Tm 1,1-2.12-14 - fr. Giovanni-Battista FMJ


 

Cominciamo oggi la lettura della prima lettera di San Paolo a Timoteo, lettera che ci accompagnerà per alcuni giorni. Si tratta della prima di quel gruppo di lettere paoline denominate “lettere pastorali” perche sono indirizzate a dei pastori della Chiesa, Timoteo e Tito, e, a differenza di altri scritti di san Paolo, queste epistole, insieme al brevissimo biglietto indirizzato a Filèmone, sono le sole ad essere rivolte a singole persone e non a comunità intere.

 

La preoccupazione generale di questi testi è di singolare importanza perché riflette un’epoca particolarissima ed irripetibile per la storia della Chiesa, ossia il passaggio dall’epoca apostolica a quella, potremmo dire, sub-apostolica, e queste lettere pastorali sono proprio “il primo documento che attesta la preoccupazione per la trasmissione dell’autorità apostolica alle generazioni successive. Infatti non ci sono più gli apostoli, ma ci sono ministri, episcopi, presbiteri, diaconi che hanno il compito di custodire e trasmettere quanto ricevuto” (Parole di Vita 4/2012 pag 6). Già più volte Paolo aveva sottolineato questo aspetto essenziale della vita della Chiesa, l’aspetto della Tradizione, con espressioni come quella della prima lettera ai Corinzi: “A voi, fratelli, ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto”. L’Apostolo infatti avverte come un onere assolutamente doveroso la retta custodia e la retta trasmissione del deposito della fede, non come un insieme inerte di contenuti, ma come un messaggio sempre vivo e capace di dare vita se viene conservato e proclamato fedelmente. Si tratta infatti di una fedeltà ad una Parola da cui dipenderà, di conseguenza, la fedeltà morale del singolo cristiano destinatario del messaggio di salvezza, in quanto dalla fede dipende la morale. Una connessione, quest’ultima, che risulta evidente, per esempio, nella lettera ai Galati, ai quali addirittura Paolo aveva fermamente dichiarato che non esiste un vangelo diverso da quello che lui aveva loro proclamato “e se anche noi stessi – precisò l’Apostolo – o un angelo dal cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anatema” (Gal 1,8)

 

Nei versetti che la liturgia di oggi ci propone, Paolo, come altrove nei suoi scritti, sottolinea l’origine del suo mandato apostolico, un’origine che affonda le sue radici nella volontà stessa di Dio, in un comando di Dio. Egli si rivolge al suo vero figlio nella fede, Timoteo, mettendo in luce, già solo con questa espressione, la natura del ministero apostolico, quella cioè non solo di raccontare una vicenda, organizzare una comunità, ingiungere precetti e norme per i cristiani e vigilarne l’osservanza, ma anzitutto quella del generare alla fede. E Paolo di questo ne è profondamente convinto quando afferma ai Corinzi: “Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo” (1 Cor 4,15). Da qui l’importanza della relazione tra chi guida e chi è guidato, una relazione umana e spirituale insieme come contesto insostituibile per generare alla fede, perché il messaggio vada al cuore della persona a tal punto da aprirlo ad una relazione ulteriore e superiore, quella con Dio stesso. Del resto Paolo, proprio nella pericope di oggi, fa allusione all’origine della relazione speciale che lui stesso ha con Dio, evento singolare e particolarissimo, che marcherà tutto il suo futuro di apostolo. Paolo ama e segue Gesù non perché ha scoperto una regola di vita bellissima e superiore alla Legge che prima osservava scrupolosamente, ma perché ha incontrato in Cristo un amore che l’ha toccato, accolto, convertito, rinnovato, fortificato, inviato, ma soprattutto che gli ha dato fiducia: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me che prima ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento.” Paolo ha potuto credere in Gesù perché ha scoperto che Gesù credeva in lui. Da tale sguardo di fiducia di Gesù sul suo Paolo è nato un apostolo, un padre desideroso di farsi tutto a tutti, come Giudeo per i Giudei, senza Legge per coloro che non hanno Legge (Cfr. 1 Cor 9, 20-21), e così non essere più uno straniero o uno sconosciuto per nessuno e rendere anche Dio meno estraneo alla vita dei fedeli.

 

I sentimenti di cui Paolo rende partecipi i suoi figli sono gli stessi che si perpetuano nella Chiesa laddove ci sono dei padri nella fede. E ciascuno di noi ricorda sicuramente chi, per il proprio cammino, è stato più che un pedagogo, ma un vero padre. Non esistono, infatti, dei cristiani, e ancor meno, dei consacrati, senza padre; tutti, in un modo o nell’altro, abbiamo avuto uno o più padri nella fede. Ricordando con affetto l’opera con la quale ci hanno generati in Cristo e consegnati alla nostra vocazione specifica, custodiamone grati il ricordo, imitiamone l’affetto, seguiamone l’esempio, la testimonianza, la cura nell’accompagnarci e farci crescere, e non solo scopriremo che dietro tutto questo c’è quella fiducia di Cristo in noi che anche Paolo riconosceva per sé, ma forse impareremo un po’ il segreto di una speciale fecondità spirituale.

 

mercoledì 11 Settembre 2013 –  XXIII Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ


 

Dalla liturgia di oggi possiamo raccogliere due passaggi della Parola di Dio che inquadrano e orientano verso lo stesso orizzonte la nostra riflessione. E questo orizzonte sono i cieli, luogo figurato della dimora di Dio e prospettiva ultima della nostra speranza: “Cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra.” È questo l’invito di san Paolo che ci definisce persone ormai morte, defunti ma viventi di una vita nuova, la vita nascosta con Cristo in Dio. Il vangelo dice la stessa cosa utilizzando il linguaggio della beatitudine e della ricompensa: “Beati voi…rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo.”

 

Il beato del vangelo di oggi è un beato la cui gloria è invisibile, è l’erede, colui che arricchisce presso Dio e non esaurisce, ogni giorno sempre di più, la sua gloria, ma l’attende, ce l’ha di fronte come prospettiva ultima e definitiva. Il beato, in fin dei conti coincide con quel “nascosto con Cristo in Dio” che attende la manifestazione di Cristo per apparire con lui nella gloria.

 

Da ciò possiamo ritenere alcune considerazioni importanti per il nostro cammino. La prima riguarda il cammino del discepolo di Cristo: il discepolo di Cristo è qualcuno chiamato alla beatitudine, è questo il traguardo ultimo della sequela di Gesù. La vita cristiana è una vita che cerca e desidera la gioia vera, quella gioia che il mondo, da solo, non può dare, perché è una gioia che può nascere solo da delle relazioni, con le cose, con il mondo e con se stessi, che mettono Dio al centro. Nella misura in cui Dio è al centro di queste tre relazioni essenziali dell’uomo (con le cose, con il mondo, cioè gli altri, e con se stesso), l’uomo si orienta e può entrare, un po’ già fin d’ora, in questa beatitudine, in questa vita gioiosa e piena che è la vita autenticamente cristiana.

 

          Se questo è vero allora capiamo anche che il cammino del discepolo di Gesù è un cammino che non rende ragione di se stesso se non coinvolgendo nella propria storia personale e quotidiana la prospettiva ultima, la comunione con Dio e la Sua ricompensa. Se pensiamo di capire tutto, in modo quasi scientifico e sicuro, della fede, della Chiesa, del nostro cammino cristiano e potremmo anche dire delle infinite variabili che costituiscono la vita umana, senza prendere in considerazione la meta finale verso cui tutti, volenti o nolenti, tendiamo, in altre parole, se pensiamo di rendere ragione della storia senza uscire dalla storia, o meglio senza accogliere quell’Eterno che nella storia è entrato, prepariamoci al fallimento. Come un cieco non può guidare un altro cieco senza cadere in una buca, così una storia senza la luce di uno sguardo sull’oltre della storia, sarebbe destinata alla medesima cecità e alla medesima caduta. Che in termini esistenziali significa disperazione o “uomo ad una sola dimensione” come l’hanno definito alcuni filosofi del secolo scorso.

 

Capiamo allora che, in fin dei conti, la beatitudine di cui ci parla Gesù, o meglio, che Gesù proclama e promette, non è una fuga dalla storia e dalla nostra piccola storia personale per entrare irresponsabilmente in un’utopia rassicurante: se così fosse vana sarebbe la nostra fede e la nostra predicazione e saremmo, come diceva Paolo a coloro che dubitavano della risurrezione di Cristo, da biasimare più di tutti gli uomini. La beatitudine di cui Gesù ci parla è quanto svela alla storia il suo vero senso, il suo vero perché. Il cristiano allora può allora permettersi di camminare a testa alta, non perché superbo, ma perché capace guardare in alto, di alzare lo sguardo e di conseguenza di rivolgerlo alle cose della terra con quella speranza che, lo sappiamo, è sorella gemella della fede e generatrice di una carità capace di perdere tutto pur di guadagnare Cristo.

 

È questo il profilo del discepolo di Cristo, un discepolo che crede, spera e ama e così partecipa della beatitudine finale che già è data in pegno a chi cerca in Dio la propria gioia.

 

venerdì 6 Settembre 2013 –  XXII Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ
 

Il ministero pubblico di Gesù, dopo aver riscosso i primi successi, incontra ora le prime perplessità, le critiche e, verosimilmente, l’invidia di scribi e farisei che si rendono conto che Gesù non è uno di loro, agisce in modo diverso oltre che parlare in modo diverso: perdona i peccati, facendo dunque qualcosa che compete solo a Dio, si intrattiene con i pubblicani e mangia con loro addirittura a casa loro, e infine non si attiene alle pratiche ascetiche e alle osservanze tradizionali della pietà del tempo. Gesù e il suo gruppetto di discepoli non soddisfano i criteri, i paradigmi di religiosità dei farisei; sono diversi e per questo criticati. Forse sembrano loro gente superficiale, troppo libera per essere un’autentica scuola religiosa, gente che gioisce della vita invece che farne un sacrificio a Dio.

 

Gesù, di fronte a questi sguardi poco convinti che, pian piano, diverranno anche ostili fino a programmare la sua morte, non fugge, ma si mette in dialogo. Un dialogo che cerca di non fermarsi alla questione particolare del digiuno, ma va più in profondità fino al cuore del discorso per andare, in fin dei conti, al cuore dei suoi interlocutori. Gesù cerca di mostrare ai suoi interlocutori la relatività, la temporaneità, la strumentalità di tutte queste osservanze che hanno valore non in se stesse ma nella misura in cui sono percorsi che conducono ad una relazione di conoscenza, di fiducia, di alleanza e di amore con Dio, insomma di comunione con Lui, quella comunione che era descritta dai profeti in termini nuziali o con l’immagine di un ricco banchetto. E infatti Gesù recuperando dalla tradizione profetica e sapienziale l’immagine dello sposo non solo annuncia che la pienezza dei tempi è ormai giunta e che il regno di Dio è vicino, ma soprattutto Gesù annuncia che Colui che i farisei, con tutte le loro osservanze, cercavano di servire, è lì di fronte a loro, si è fatto loro incontro, possono essere partecipi della beatitudine di vedere ciò che i profeti di un tempo avrebbero voluto vedere ma non lo videro. Eppure tale rivelazione non si compie; l’incontro fisicamente realizzatosi tra Gesù e questi farisei rimane un non-incontro, non prendono parte alla festa di nozze; gli occhi, e soprattutto i cuori dei farisei rimangono chiusi nelle loro convinzioni, nella loro immagine di Dio che cercavano di custodire con la loro pietà.

 

È questo un pericolo non solo per la classe dei farisei, ma anche per ogni credente praticante cristiano: l’essere così convinto che la fede, la vita spirituale e perfino il modo di scrutare e comprendere la realtà e di valutare i fenomeni e gli eventi che la abitano, non possano contenere nulla di inedito, nulla che ci possa spiazzare, far cambiare idea, metterci in discussione, convertire. In altre parole il pericolo è quello di credersi maestri, persone che credono di essere esperte in ambito di fede, mentre in realtà tutta la loro esperienza potrebbe essere soltanto limitazione alla propria prospettiva, a quello che sanno e nulla più, esperienza che è, in fin dei conti, sinonimo di chiusura e cecità. Si tratta di un problema che non tocca solo l’ambito religioso ma più in generale l’ambito della conoscenza umana, il pensare e il volere, dominati, ai nostri giorni, come i Papi e teologi contemporanei hanno messo in luce, da quel diffusissimo soggettivismo che ha perso il gusto del Vero, o meglio, l’ha appiattito al “modo di vedere e di sentire” la realtà e soprattutto la natura della realtà, della persona e dei fenomeni, che ciascuno vuole avere anche qualora non avesse alcun fondamento se non nell’io volubile del singolo individuo.

 

Di fronte a tale cecità, dell’uomo e del cristiano, Gesù propone un’unica strada, la via del rinnovamento totale: vino nuovo in otri nuovi! Un’immagine che dice che è il contenuto a stabilire la qualità del contenitore e non viceversa. È il tipo di vino che stabilisce come devono essere gli otri, non il contrario. Il contenitore è relativo e conseguente al contenuto, è determinato dal contenuto. “Nessuno versa vino nuovo in otri vecchi … Il vino nuovo bisogna versarlo in otri nuovi”. E ancora un’altra immagine: il cristiano non strappa dal nuovo per cucire su un abito vecchio ma abbandona l’abito vecchio per rivestire il nuovo perché il cristiano è un rivestito di Cristo, il suo abito è Cristo perché interamente ed interiormente sia trasformato in Cristo. E se ciò avviene una volta per tutte nel battesimo sappiamo che tale rinnovamento non deve mai arrestarsi. Gesù viene a noi ogni giorno come un vino eternamente giovane, che chiede, per essere accolto, di essere disposti a diventare otri nuovi, creature nuove. Come può realizzarsi questo incontro se vogliamo rimanere identici a prima? Non siamo noi a trasformare Gesù in noi stessi ma è lui che, venendo a noi, ci rende Suo corpo.

 

Signore trasformaci in otri nuovi! Sia questo il nostro desiderio nel prendere parte, tra pochi istanti, alla cena del Signore.

 

mercoledì 4 Settembre 2013 – XXII Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ

 

Il vangelo di ieri ci ha presentato un Gesù autorevole, un Gesù la cui parola non è come quella di scribi e farisei che, quando parlano di Dio, devono essere sostenuti e approvati da argomenti o citazioni tratte dalla Scrittura, e nemmeno come quella degli antichi profeti che dovevano dire: oracolo del Signore o così dice il Signore. No, Gesù parla con un’autorità tutta Sua. Egli è Dio e la Sua parola funziona, agisce per forza propria non perché accompagnata dal sostegno di qualcuno a lui superiore. Eppure nel vangelo di oggi ascoltiamo, da parte di Gesù, una frase che ci colpisce. È necessario – dice – che io annunci la notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato. È un Gesù umile e obbediente al Padre quello che parla: “E’ necessario” dice Gesù. Il potere, l’autorità e potremmo anche dire la sovrana libertà di Gesù sono orientate da una necessità: la necessità di quell’amore universale che è l’anima di tutta la sua missione; una necessità che altro non è se non la volontà del Padre che l’ha mandato, perché quell’amore eternamente vivo nel seno della Trinità diventasse visibile, tangibile. “È apparsa la grazia di Dio – scriveva san Paolo a Tito – che porta salvezza a tutti gli uomini.” Per Gesù questa volontà del Padre che lo invia è una necessità, è quell’urgenza che passa davanti a tutto il resto e che Gesù, con determinazione, porta a compimento. È una necessità che ritroveremo anche più in là nel vangelo, nelle ore più decisive del Getsemani e della risurrezione: “non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”

 

          Di tale necessità dell’amore, perché l’amore è necessità, preme sulla coscienza come una chiamata a cui prima o poi bisogna rispondere Sì, è pervaso tutto il vangelo. Tutta la vita di Gesù è un riflesso multicolore dalle mille sfumature della sua fedeltà fino al sangue, fino alla Croce, ad una missione che non poteva tradire.

 

La mentalità della gente di Cafarnao però è ancora a livello di una religiosità, potremmo dire, da “vitello d’oro”: visti i miracoli, le guarigioni, gli esorcismi che Gesù compie vuole tenerlo per sé, a casa loro, vuole qualcuno che risolva i loro problemi, un Dio-amuleto che cammini alla loro testa, o meglio che cammini dove vogliono loro. Insomma, certo in buona fede, gli abitanti di Cafarnao vogliono fare di Gesù un idolo, un Dio che soddisfi tutti i loro desideri, tutti i loro bisogni. Hanno trovato il “parroco perfetto” e non vogliono lasciarlo. Ma Gesù li spiazza perché Gesù non è questo, il Cristianesimo non è questo, e si volge altrove. E l’afflato universale di Gesù sarà uno stimolo per la fede di queste povere persone così entusiaste della presenza di Gesù, a fare un salto di qualità, a guardare Gesù in modo nuovo. In un certo senso le rende partecipi di una missione che ancora oggi non ha cessato di percorrere le strade e di varcare nuovi confini.

 

Ciascuno di noi sa, se ascolta attentamente la voce di Dio dentro di sé e attraverso le mediazioni che il Signore ci offre, che tutti, ciascuno a modo suo, siamo resi partecipi di questa urgenza di amore del cuore di Gesù che nei modi più diversi ci chiama, ci coinvolge, ci invia, ci chiede di collaborare alla sua opera di redenzione di tutto il genere umano che, se si è compiuta una volta per tutte nel mistero pasquale, purtroppo non ancora da tutti è accolta, e talvolta neppure conosciuta. Paolo, quasi esponendosi ad una auto-maledizione, diceva a se stesso: “Guai a me se non annuncio il Vangelo?” … “Infatti annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone” (1 Cor 9,16).

 

Anche noi chiediamoci: qual è la chiamata che urge nel nostro cuore, che vi si impone come una necessità? Qual è quella parola, quell’invito che il Signore rivolge alla nostra vita per il quale potremmo dire: “guai a me se non lo facessi”? Chiediamocelo in sincerità e facciamolo con fiducia, con tutto il nostro cuore senza perderci a destra o a sinistra. Mai nessuno infatti si è pentito di aver seguito il Signore.

 

Domenica 01 settembre 2013 - XX domenica T.O. - fr. Massimo-Maria FMJ

 

   “ Figlio compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso. Quanto più sei grande tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore...ai miti Dio rivela i suoi segreti. Perché grande è la potenza del Signore e dagli umili egli è glorificato.”

    Queste parole del libro del Siracide risuonano con forza, nella nostra assemblea liturgica in questa domenica,  all'inizio di un nuovo tratto del nostro cammino di discepoli e credenti.

    Ma, se ci fate caso, risuonano non come una minaccia, né come un severo monito e neppure come una serie di massime moraleggianti.

    Piuttosto risuonando esercitano nel cuore un fascino segreto, rimettono nell'animo come il desiderio di una freschezza perduta, di una libertà smarrita, di una gioia serena, di qualcosa di cui abbiamo tanto bisogno e di cui non ci rendiamo forse più conto perché troppo occupati dal mostrarci forti, sicuri, determinati, saggi di una saggezza che è del mondo, ed è lontana dalla sapienza del Vangelo. In una parola sentiamo che questa Parola, pur così lontana dai criteri di oggi, così distante forse anche dal nostro modo di fare istintivo, abituale, ci fa bene, ci dà pace, speranza, gioia, riempie il cuore, ci fa dire: “ E se fossimo così, se il mondo fosse così quanto le cose andrebbero meglio, saremmo più sereni, tranquilli, in pace.

    Possiamo allora porci una prima e preziosa domanda: “ Perché questa Parola ha questo effetto particolare? Perché questa parola è come detonatore di un misterioso fascino e sorgente di così particolari desideri, sentimenti, considerazioni?

   Affermando che:”... dagli umili Dio è glorificato....ai miti rivela i suoi segreti...” l'autore sacro del Siracide suggerisce che esiste come un misterioso legame,  una strettissima relazione tra Dio e umiltà, tra Dio e mitezza.

   Meglio, esiste una indubbia familiarità, prima che tra Dio e l'umile, tra Dio ed il mite, tra Dio e l'umiltà, tra Dio e la mitezza.

   Non a caso, se ricordate, il serafico padre san Francesco canterà nelle lodi di Dio Altissimo: ”.....Dio tu sei umiltà, Dio tu sei mitezza.”

  

  Questa Parola del Siracide allora non ci colpevolizza ma ci ridesta un bisogno di una pace smarrita e di una freschezza desiderabile perché ci ri-pone nel cuore il desiderio di Dio che è umiltà, di Dio che è mitezza dal quale con la nostra superbia e la nostra arroganza ci allontaniamo spesso, troppo spesso.

  Questo insieme di sentimenti che la Parola suscita, questi desideri, questo anelito alla pace che la Parola veicola si chiamano ispirazioni buone che vengono dallo Spirito di Dio, e che noi siamo chiamati, per camminare nella pace, per avanzare verso la pace e costruire la pace, siamo chiamati ad assecondare, a seguire, ad obbedire generosamente e con gioia.

   Ecco allora che il brano del Vangelo, con l'episodio ancora oggi non così difficile da verificarsi della corsa ai primi posti, in cui Gesù rivolge una Parola chiara ai suoi discepoli non è un testo di buon galateo, e neppure innanzitutto un insegnamento morale, ma una rivelazione e profezia, rivelazione di quanto Gesù aveva fatto nell'Incarnazione, e profezia di quanto avrebbe fatto sulla croce, rivelandoci così, chiaramente e senza malintesi, che: Dio è mitezza, Dio è umiltà.

   Prima che indicarlo a noi infatti è Lui che ha scelto ed occupato l'ultimo posto con infinita umiltà e mansuetudine. Per cui solo lì lo si trova, lo si incontra, si gusta la libertà e dolcezza di Dio. Solo nell'umiltà ci si avvicina a Dio e si gusta la vera gioia, la gioia di Dio.

    Scrive una autrice spirituale contemporanea: “ L'umiltà è il segreto di una gioia indicibile, donata da Dio agli ultimi; essa appartiene alla sfera della Sapienza divina e per questo rimane sconosciuta a chi persegue la falsa sapienza del mondo asservita alla logica superba del principe delle tenebre...” ( Madre A. M. Canopi ).

   Ma non solo nell'umiltà ci si avvicina e direi, si comprende Dio, ma insieme. solo nella mitezza ed umiltà ci si avvicina davvero agli altri e li si comprende. L'umiltà infatti è atteggiamento che dice ascolto; la mansuetudine è habitus che dice un cuore che ama e crea comunione.

Anche per esercitarci in questo Gesù ci indica il cammino nella sua Parola:

   “...quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti".

    E' il cammino della gratuità esercitata a favore dei piccoli, degli ultimi, dei poveri, di coloro che non possono ringraziare, di coloro che non possono offrirci prestigio umano, ma assicurarci però, senza dubbio, la benevolenza del Padre, perché suoi prediletti.

    Il Signore oggi ci ripropone di riprendere il nostro cammino dietro a Lui scegliendo la mitezza, scegliendo l'umiltà.

   Ha detto il Papa Francesco proprio parlando dell'umiltà: “ è «la regola d’oro»: per il cristiano «progredire» vuol dire «abbassarsi». Ed è proprio sulla strada dell’umiltà, scelta da Dio stesso, che passano amore e carità.....l’umiltà  è quella di Gesù, che finisce sulla croce. E questa è la regola d’oro per un cristiano: progredire, avanzare è abbassarsi. Non si può andare su un’altra strada. Se io non mi abbasso, se tu non ti abbassi, non sei cristiano. “Ma perché devo abbassarmi?”. Per lasciare che tutta la carità di Dio venga su questa strada, che è l’unica che lui ha scelto — non ne ha scelto un’altra — che finirà sulla croce. E poi, nel trionfo della risurrezione».

    Il Signore allora ci conceda – e vogliamo chiederglielo questa domenica – di ascoltare le ispirazioni buone che lo Spirito ha suggerito al nostro cuore attraverso questa Parola, di assecondarle, di obbedire per gustare la sua gioia che il Signore riserva ai miti, e costruire la pace quella che costruiscono gli umili. Amen.

 

mercoledì 24 Luglio 2013 –  XVI Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ

 

La parabola del seminatore è un testo che Gesù propone ai suoi discepoli e a tutti coloro che stavano ad ascoltarlo, ed è appunto un testo espresso in parabola. Ossia Gesù, come si legge nel brano seguente a questo, parla a tutti allo stesso modo ma, in qualche modo, la sua parola si adatta a chi l’ascolta, alla sua capacità di comprendere. Infatti la parabola stessa si chiuderà con: “Chi ha orecchi, intenda.”

 

Nel testo stesso della parabola del seminatore Gesù fa riferimento in forma, appunto, parabolica, a quattro tipi di terreno sui quali il seminatore, immagine del Figlio di Dio, esce per spargere il seme della Sua Parola. Sono quattro terreni che, secondo la spiegazione che in privato Gesù poi darà ai Suoi discepoli, sono a loro volta immagine di quattro situazioni spirituali, quattro condizioni di credenti che ascoltano in modo diverso la Parola del Signore: si va da chi l’ascolta ma senza appropriarsene in tempo, così che poi il Maligno ruba la parola seminata. C’è l’incostante, cioè colui che si rallegra subito per aver accolto la Parola ma poi non dura nella messa in pratica; c’è chi, nella lotta, potremmo dire, tra l’ascolto della Parola e l’ascolto delle preoccupazioni e della seduzione della ricchezza obbedisce più a queste che a quella. E c’è infine il terreno buono, profondo e fertile, immagine del discepolo che ascolta la Parola, la comprende e da frutto.

 

Ora, questi quattro modi di incontro del seme con il terreno che corrispondono a quattro diverse condizioni spirituali dei credenti non è detto che non possano sussistere in un’unica persona. Anzi, in noi possiamo trovare, e forse di fatto ciascuno di noi l’ha già sperimentato, terreni diversi, modi diversi di vivere il nostro ascolto della Parola di Dio, e più in generale il nostro rapporto con Dio. Attitudine spirituale che varia a seconda dei momenti, dei luoghi, degli stati d’animo, e persino a seconda dei contenuti della Parola: talvolta infatti c’è qualcosa che ascoltiamo più volentieri di altro, un seme che preferiamo ad altri. Anche in noi c’è un terreno esposto all’opera furtiva del demonio, un terreno sassoso poco profondo, un terreno pieno di rovi che soffocano il seme, e infine la preziosa porzione di terreno buono. Rendersi conto di questa nostra eterogeneità e volubilità nel nostro rapporto con Dio è un passo molto importante per chiedersi poi: che tipo di terreno voglio essere? A che livello del mio essere lascio che la Parola di Dio, la volontà di Dio, la chiamata di Dio mi raggiunga? Il Signore certo spargerà con abbondanza il seme della Sua Parola, ma io che terreno metto a disposizione del Signore? A che livello voglio vivere il mio rapporto con il Signore? Al livello più esterno, di una pratica cristiana o anche monastica di facciata e superficiale? Al livello poco profondo in cui mi lascio raggiungere e rallegrare dalla Parola di Dio ma non cambiare, e lasciando dunque tutte le cose, nella mia vita, come le ho sistemate io, cioè senza lasciare spazio al seme per germinare e crescere? O al livello del cuore, al piano più intimo del mio essere dove la Parola penetra come spada a doppio taglio per ferire e sanare, convertire e consolare? Qui, a questo livello, la Parola può operare in noi. Qui il seme può porre radici, nutrirsi, prendere possesso del terreno che siamo, riempirlo, compattarlo e offrire frutti di vita eterna.

 

Se nel capitolo 55 del libro del profeta Isaia la resa della Parola di Dio era sicura, quasi automatica com’è automatico il beneficio della pioggia e della neve per un campo seminato, nella parabola di oggi il Signore Gesù richiama ancora una volta alla nostra libertà, come se ci dicesse: non tutto dipende da me, non faccio tutto da solo! Anche tu devi mettermi a disposizione il tuo terreno buono, non lasciarmi semplicemente la ghiaia e i rovi.

 

L’opera di unificazione interiore tanto attesa nella vita spirituale è forse proprio questo: rendere omogeneo il terreno che è in noi, lavorarlo e concimarlo per trasformarlo, con l’aiuto della grazia di Dio, in terreno buono capace non soltanto di accogliere il seme ma di custodirlo e lasciarlo crescere.

 

martedì 23 Luglio 2013 – Festa di Santa Brigida - fr. Giovanni-Battista FMJ
 

Le letture che la Chiesa ci propone per celebrare la festa di Santa Brigida convergono nel tracciare dei lineamenti ben precisi alla santità. Cioè noi, leggendo queste pagine, capiamo chi è un santo.

 

Il primo ad aiutarci in questa comprensione è san Paolo che, in pochi versetti, per due volte si definisce morto: morto alla Legge mediante la Legge, e crocifisso, dunque ancora morto, con Cristo. Due volte morto perché possa vivere per Dio, e soprattutto perché Cristo possa vivere in Lui. Paolo dunque attraversa due esperienze di morte per accogliere in se stesso una vita nuova che è la vita di un Altro, la vita di Cristo in Lui. Paolo ormai è come se non avesse più né vita né morte ma vive della vita di Cristo e muore della vita di Cristo. Il santo è questo, è qualcuno che si è consegnato a Cristo, soltanto dopo, però, che Cristo abbia consegnato se stesso per lui. Da questa reciproca consegna per amore si compie una compenetrazione che rende l’uomo, il santo, un altro Cristo.

 

Il vangelo richiama al medesimo concetto mediante l’immagine del tralcio e della vite. Il tralcio di per sé non ha vita propria, non porta frutto da se stesso, anzi, il testo del vangelo è quanto mai chiaro nel bandire dalla vita cristiana ed evangelica ogni ideale umano di autosufficienza: “Il tralcio non può portare frutto da stesso se non rimane nella vite … e senza di me – dice Gesù – non potete fare nulla.” Il tralcio è immagine del discepolo che in due modi riceve vita e può portare frutto: rimanendo innestato in Cristo e accettando la potatura del Padre per portare più frutto: da un lato è innestato nella vite, stabile in Cristo; dall’altro si lascia destabilizzare, tagliare, amputare. Stabilità e instabilità sono i due movimenti che ritmano la vita del santo, e, secondo il testo, entrambi vengono da Dio e conducono a quel di più di frutto che non nutrirà tanto se stessi ma sarà cibo e bevanda, uva e vino, per rallegrare il cuore degli altri. Questo doppio movimento del rimanere e del potare, stabilità e instabilità, è il segreto nascosto dietro ogni forma di santità e di fecondità nella nostra vita e nella Chiesa.

 

In questo ritratto della santità offertoci dalle letture di oggi, ritroviamo anche il volto di Santa Brigida di Svezia. Una santa che ha vissuto con singolare profondità questo duplice movimento del rimanere e del tagliare.

 

Fin da fanciulla Brigida visse un intensissimo rapporto con Cristo e con la Sua passione che le consenti di riconoscere la volontà di Dio anche in eventi che contrastavano con i suoi desideri, come per esempio, il matrimonio combinato dal padre con Ulf. “Lei, in verità, avrebbe desiderato donarsi a Dio nella vita religiosa, ma vide nel desiderio paterno un segno della volontà di Dio e disse il suo sì con serenità” (Enrico Pepe, Martiri e santi del calendario romano, Ed. Città Nuova, Roma, 1999, 373). La profonda fede di Brigida la rese una donna brillante e soprattutto feconda! Fu madre di otto figli – tra cui santa Caterina di Svezia – che educò mettendo in pratica un suggerimento che lei dice aver avuto un giorno dalla Madonna: “Fa’ che i figli tuoi siano anche figli miei”. E dopo la morte del coniuge fondò l’Ordine del Santo Salvatore formato sia da monaci che da monache che abitavano in due monasteri distinti, ma avevano in comune la chiesa per le celebrazioni liturgiche. Entrambe le comunità obbedivano per quanto riguarda la vita religiosa, fatto più che singolare nella storia della Chiesa, all’unica badessa e lo facevano per onorare la santa Madre di Dio. Brigida inoltre fece di tutto per far tornare il Papa da Avignone a Roma, missione di cui però non vide, se non dal cielo, il compimento che arrivò grazie all’opera provvidenziale di un’altra grande santa di nome Caterina da Siena. (Cfr. Op. Cit. 374-375. 379)

 

Cosa ritenere della vita di santa Brigida? Certo molte luci ed una testimonianza altissima di vita umana e cristiana. Ma una in particolare può arricchire il nostro cammino: Brigida non ebbe paura della Croce, non ebbe paura della potatura di Dio di fronte alla quale, lungi dal disertare il cammino di discepolato, si innestò ancor di più nella vite che è Cristo. Tale fu il segreto della sua maternità umana, spirituale e monastica così feconda e benefica per il suo tempo. Da Brigida dunque possiamo imparare questo: la fecondità non si improvvisa ma nasce da una vita innestata in Cristo, una vita da discepoli che si lasciano nutrire e potare con fiducia da Dio, l’agricoltore. Paradossalmente il portare più frutto non viene dal conservare egoisticamente se stessi ma dal lasciarsi potare, perché si compia la parola evangelica: “In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”.

 

Domenica 21 luglio 2013 - XVI Domenica T.O. - fr. Massimo-Maria FMJ

 

   Mentre Gesù si reca a Gerusalemme ed entra in un villaggio. Nel villaggio, a differenza di altre città che non accolgono il Signore, una donna, Marta, lo accoglie a casa sua. Apre le porte della sua casa a Gesù e mette in atto tutte le modalità per una accoglienza che poteva certo considerarsi di eccellenza.

   Tenendo presente l'insegnamento che Gesù aveva dato ai settantadue discepoli prima di inviarli in missione, si capisce che questo fare di Marta si carica di un significato profondo, importante, in piena linea con l'insegnamento di Gesù.

     Marta è posta così nella linea di coloro che nella Scrittura sono considerati giusti per  la accoglienza che riservano all'ospite. Dare anche solo un bicchiere di acqua fresca al missionario non resterà senza ricompensa, aveva promesso Gesù. Addirittura spesso – è il caso del testo della Genesi ascoltato nella prima lettura – con l'ospite si accoglie ed incontra Dio stesso.

    Marta compie così un'opera molto più che meritoria, compie un'opera a cui Gesù stesso aveva promesso ricompensa, compie un'opera in piena fedeltà al Vangelo.

 

    Nel racconto però, improvvisamente e discretamente, emerge poi un'altra figura: Maria, la sorella di Marta.

    Di lei si dice non tanto che ascoltava Gesù, ma la Sua Parola, e lo faceva stando accovacciata ai piedi del Maestro. Questa precisazione pone decisamente Maria nell'atteggiamento discepolare, atteggiamento che, però, era riservato in modo esclusivo agli uomini.

     L'atteggiamento di Maria risulta davvero strano per la mentalità del tempo: si sottrae al dovere di rispettosa ospitalità e fa suo un atteggiamento che era riservato agli uomini.

    Da questo si capisce meglio la reazione giustificata di Marta. Lei infatti non si lamenta semplicemente dell'essere stanca, ma del fatto che la sorella si stia comportando in modo davvero scorretto rispetto ai suoi doveri. A ragione perciò può denunciare alla sorella di averla lasciato sola a servire e a Gesù di non curarsi di questa evidente scorrettezza.

Ciò che disarma e diviene per noi la Parola forte di questa Domenica,  è la risposta che  Gesù dà a Marta: “ Marta Marta tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di un'unica cosa c'è bisogno. Maria si è infatti scelta la parte migliore ( buona ) che non le sarà tolta.”

       

    Se Marta ha reagito in modo scomposto sino a rimproverare Gesù e la sorella a causa di quelle molte cose da fare per cui era stata lasciata sola, ora Gesù ribalta l'opposizione tra le molte cose che agitano Marta e la sola cosa buona, quella migliore, che Maria ha scelto.

    Quello che per la mentalità efficientista del mondo e per gli usi sociali del tempo era considerato importante Gesù lo smaschera come affanno e sterile inquietudine. Quello che appariva come un gesto audace e ardito di Maria Gesù lo definisce invece la cosa sola buona, la parte migliore. In definitiva Maria ha scelto ciò che è davvero importante allo sguardo di Dio, tanto che non le sarà tolto.

        

    Fratelli e sorelle Gesù non sta opponendo assolutamente azione e contemplazione come qualche volta si rischia, ma sta opponendo un fare che distrae e un restare perennemente in un atteggiamento discepolare nei confronti del Maestro, attraverso essenzialmente l'ascolto, da cui eventualmente il fare deve essere prolungamento.

       Gesù in definitiva non sta ponendo un contrasto tra fare e ascoltare, ma piuttosto una gerarchia di cose: il fare è discepolare uguale se nasce dall'ascolto e dall'obbedienza al Maestro.

 

         

   Questa pagina ci propone poi ancora una ulteriore provocazione che non possiamo non raccogliere. Se la parte buona è il dimorare discepoli, possiamo dire in verità che la parte buona da scegliere è quindi Gesù stesso. Maria infatti nel suo ascolto attento e generoso mostra di aver scelto Gesù. Prima che di fare delle cose a Lui, e per Lui, Maria ha scelto Lui.   

        Questo è molto importante per la nostra vita discepolare. Non è scontato aver scelto Gesù anche quando si fanno cose buone per Lui e in suo nome. Si possono infatti scegliere cose buone, vicine a Gesù: opere sociali, l'evangelizzazione, persino il sacerdozio o la vita monastica senza scegliere Gesù. Capite che questo è pericoloso perché senza di Lui anche le cose buone, nobili ideali, possono divenire sottili idoli.

       Questa domenica la Parola ci ripropone, nel cuore dell'estate, la vera scelta della vita, quella che conta, quella davvero importante: il Signore. Certamente l'abbiamo fatta, ma non mai abbastanza. Possiamo sempre più fare un passo di più nel diventare discepoli, nel mettere Lui al centro della nostra vita. Diventi sempre più nostro questo proposito che invitava a fare Papa Benedetto in una delle sue ultime omelie:

   “ Non abbiate paura di puntare su Cristo. Abbiate nostalgia di Cristo come fondamento  della vita! Accendete il desiderio di costruire la vita con Lui e per Lui! Perché non può perdere colui che punta tutto sull'amore crocifisso del Verbo Incarnato.”

 

venerdì 19 Luglio 2013 – XV Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ

 

Il vangelo di oggi si conclude con un’affermazione che, detta da Gesù nel contesto della controversia dei farisei circa il sabato, suona come una sorta di principio regolatore, di chiave di lettura non tanto della Legge in sé quanto del modo di applicare, o meglio, di vivere la Legge: “Misericordia io voglio e non sacrifici”.

 

         Questo principio che Gesù trae dal profeta Osea ha però un valore che va aldilà del caso presente, quello della violazione del sabato. E del resto se i discepoli di Gesù avessero avuto bisogno di misericordia in questo contesto, Gesù non li avrebbe proclamati innocenti. L’innocente non ha bisogno di misericordia. Da questo possiamo allora capire che forse ci troviamo qui di fronte a qualcosa di più ampio, a un criterio di vita religiosa, ebraica prima e cristiana poi, che trascende la questione del sabato in senso stretto: “Misericordia io voglio e non sacrifici.”

 

Nel Nuovo Testamento, più precisamente al capitolo ottavo della prima lettera ai Corinzi, troviamo una situazione simile a quella che Gesù vive nel vangelo di oggi. San Paolo tratta il caso della liceità o meno di mangiare le carni sacrificate agli idoli e per risolvere la questione divide i fedeli in due categorie: quelli dalla coscienza forte, che sanno che gli idoli non sono nulla e che dunque anche se mangiassero le carni immolate in loro onore non entrerebbero in comunione con alcuna divinità pagana; e i fedeli dalla coscienza debole, quelli, cioè che non hanno in sé la fermezza interiore degli altri e, timorosi di compiere un atto idolatra, preferiscono astenersi dalle carni. San Paolo, come Gesù, offre un principio di azione regolato non soltanto sulla base della conoscenza delle cose, ma anche sulla carità, sull’amore, che è l’altra faccia della misericordia: “Riguardo alle carni sacrificate agli idoli, so che tutti ne abbiamo conoscenza. Ma la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica.” (1 Cor 8,1) e così conclude il capitolo: “Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò più carne, per non dare scandalo al mio fratello.” (1 Cor 8,13)

 

Ora, ritornando al vangelo di oggi, chi è che da scandalo e chi viene scandalizzato? O meglio, chi ha la coscienza forte e chi quella debole? Stando alla conoscenza del vero senso della Legge possiamo dire che è Gesù ad avere la coscienza forte, la conoscenza autentica che è fonte di libertà. Ma allora forse Gesù sta dando scandalo ai farisei? In un certo senso sì, perché se scandalo, come sappiamo, è l’ostacolo che mi fa cadere, Gesù è pietra d’inciampo, come afferma san Pietro: “onore a voi che credete; ma per quelli che non credono la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo e sasso d’inciampo, pietra di scandalo.” E aggiunge: “Essi v’inciampano perché non obbediscono alla Parola.” (1 Pt 2,8)

 

          Cosa dire dunque? Esistono due tipi di scandalo: uno nocivo, uno privo di misericordia e di carità che nasce da un esercizio superbo e unicamente autoreferenziale della propria libertà e della propria conoscenza e che conduce alla caduta dei piccoli. Scandalo dunque da cui tenersi lontani. E poi c’è uno scandalo buono, quella buona provocazione che Gesù stesso non teme di far arrivare ai farisei sicuri di sé e delle loro conoscenza imperfette fin al punto di divenire accusatori degli altri. Uno scandalo che è espressione non di una volontà cattiva ma desiderosa della loro salvezza.

 

          Se ci pensiamo bene, in tutti e due i tipi di scandalo, il principio discriminante che li distingue è sempre quello offertoci da Gesù prima e da Paolo poi: la misericordia e l’amore! Ha proprio ragione san Giacomo (2,12-13): “Fratelli miei, parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia. La misericordia (invece) ha sempre la meglio nel giudizio.”

 

Sia questo il nostro modo di conoscere la verità e di viverla, e sapremo allora agire “secondo verità nella carità” (Ef 4,15) ed essere, gli uni per gli altri, fratelli che si edificano a vicenda, e non accusatori.

 

mercoledì 17 Luglio 2013 – XV Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ
 

Nel mistero del Suo rivelarsi agli uomini, Dio non solo decide che cosa dire, che cosa rivelare, o meglio chi rivelare, perché sappiamo che in fondo Dio rivela se stesso, ma anche a chi rivelarsi. Nel vangelo di oggi Gesù fa riferimento proprio a tale decisione del Padre di rivelarsi ai piccoli: “Hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso …” Che i piccoli siano prescelti per essere coinvolti in un dialogo particolare di Dio e con Dio, in una speciale amicizia, voluta e cercata da Dio stesso, non è dunque un evento casuale, un dettaglio privo di valore. È un decreto, una decisione del Padre che si tiene lontano dai dotti superbi, ossia i dotti che credono già di sapere tutto, come dice anche un salmo: “Eccelso è il Signore e guarda verso l’umile ma al superbo volge lo sguardo da lontano”.

 

          Basterebbe tenere presente questo per essere già in grado di tracciare un cammino di vita cristiana senza sapere troppe altre cose. Il Signore ha scelto e continua a scegliere i piccoli che nel vangelo di oggi non sono tanto i non adulti, ma i senza cultura, gli umili nei ragionamenti e incapaci di sostenere una discussione dotta. In poche parole si tratta delle persone che i farisei e i dottori della legge disprezzavano, perché, a loro parere, non conoscevano le cose di Dio (Cf Aldo Martin su “Parole di vita” 3/2008 pag. 36). Gesù invece esulta, si compiace del cuore umile, aperto e disponibile ad una conoscenza sempre più vera di Dio. Non perché l’intelligenza e l’erudizione siano in sé qualcosa di negativo, ma perché tale conoscenza può portare l’uomo, come in possesso di un piccolo potere, a leggere tutto unicamente a partire da queste cose che sa, chiudendosi in una sorta di arroganza intellettuale e religiosa che di fatto esprime autosufficienza nel discernere il bene e il male, il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, indipendentemente da Dio. Non è questa forse la tentazione che spinse Adamo ed Eva a mangiare dell’albero, appunto, della conoscenza del bene e del male?

 

Ma c’è anche un’altra ragione meno teologica e più, potremmo dire, esistenziale. Dio che si rivela non vuole unicamente trasmetterci delle verità da imparare ma vuole chiamarci ad un rapporto di discepolato e di amicizia, ad un legame di intimità semplice ma profondo, un dialogo cuore a cuore. Il dotto, l’intelligente, se non rimane piccolo e anche discepolo, cioè non semplicemente desideroso di imparare, di conoscere, ma disposto a servire e a seguire, cioè a fare e ad andare dove vuole un Altro, non potrà entrare in questa amicizia profonda con il Signore che non è un’amicizia alla pari ma è amicizia tra Maestro e discepolo, tra Dio e uomo. “Voi siete miei amici – dice Gesù – se fate ciò che vi comando” (Gv 15,14).

 

Dunque tra intelligenza e umiltà vale di più l’umiltà e solo se inserita in questa anche l’intelligenza, come pure tutti gli altri doni che da Dio abbiamo ricevuto, potranno essere strumenti a vantaggio del regno di Dio e a servizio della sua opera. Altrimenti potrebbero divenire addirittura causa di allontanamento dal Signore e dai nostri fratelli, qualcosa che era meglio perdere che trovare. In questo senso potremmo estendere il detto di Gesù: se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, cavalo… se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala (Cf. Mt 5,29-30), anche al tema di oggi: se la tua cultura ed erudizione ti sono motivo di scandalo, prendine le distanze!

 

Comprendere queste cose richiede per noi un cambio di mentalità rispetto alla logica del mondo in cui chi è grande e magari ha anche il titolo di professore viene rispettato, chi è piccolo e ininfluente non è nemmeno preso in considerazione. Noi veniamo da questo modo di pensare e se vogliamo capire un pochino il modo di pensare di Dio abbiamo bisogno di conversione, cioè di spogliarci dell’uomo vecchio non solo a livello morale ma soprattutto, anzi, prima di tutto, a livello mentale, del nostro modo di pensare, perché noi in genere agiamo secondo quanto pensiamo e crediamo.

 

          Tale conversione gioverà certo al nostro rapporto con Dio ma, non meno, anche al nostro rapporto con gli altri perché solo nell’umiltà possono nascere e crescere relazioni non dominate dal peso e contrappeso delle rivalità, della competizione, del carrierismo, dell’esercizio di un dominio sugli altri, magari anche attraverso la cultura e l’erudizione. Se San Paolo menzionava quelli che lui definiva “falsi fratelli”, il piccolo e l’umile sono certamente da ascrivere nella categoria dei “veri fratelli” tanto che è addirittura Dio stesso che li sceglie come Suoi amici e li rende partecipi dei suoi segreti.

 

Domenica 14 Luglio 2013 – XV Domenica T. Ordinario – fr. Giovanni Battista FMJ

 

La parabola del buon samaritano che abbiamo ascoltato è un testo che scuote le nostre coscienza che talvolta si comportano come quel dottore della Legge che si vuole giustificare davanti al comandamento di Dio: Ama il prossimo tuo come te stesso. Ma chi è il mio prossimo, chi devo amare, chi si merita di essere amato da me? Gesù risponde non con un nuovo comandamento, concetti, leggi, come magari si aspettava il pio giurista, ma con una parabola, un esempio di vita.

 

La parabola si sviluppa quasi interamente nello stesso luogo, sulla stessa strada, il cammino che va da Gerusalemme, la città santa, a Gerico, città sacerdotale, un cammino che è metafora del tempo, della vita umana, che ci vede protagonisti dello stesso percorso: tutti ci troviamo sulla medesima via. Uomini diversi percorrono dunque la stessa strada e si imbattono in un uomo ferito e lasciato mezzo morto. Le reazioni, lo sappiamo, sono differenti: con gli stessi verbi Luca descrive l’atteggiamento dei primi due passanti, un sacerdote e un levita: scendendo, per caso, per quella medesima strada, videro e passarono oltre. Dunque curiosità ed indifferenza sono i tratti del loro agire. Il verbo greco è significativo: “antiparèlthen”, passare dall’altra parte, lontano. “Essi schivano qualsiasi contatto, anche perché il sacerdote se toccava un ferito, peggio ancora un morto, non poteva poi mangiare delle decime, doveva compiere dei complessi riti di purificazione” (Ravasi, Il Vangelo di Luca”, EDB, Bologna, 1988, 123-124). Quell’uomo per terra non rappresenta per loro una chiamata, non rientra nel loro cammino pur trovandosi sulla loro stessa strada. Prima che una questione di compassione si tratta di una questione di relazione: l’altro uomo, anche se lo vedono, è come se non esistesse, si consuma un non-incontro potenzialmente fatale. E sappiamo tutti quanto fa male, quante ferite provoca, ancora al giorno d’oggi, l’indifferenza, il non rendersi conto dell’altro, vivere come se l’altro, il vicinissimo, non ci fosse. Talvolta siamo super zelanti nell’intessere relazioni con gente lontana, amicizie con persone che incontriamo una volta all’anno, oppure grandi slanci di carità ed elemosine verso terre lontane e gente lontane, o anche semplicemente verso la città, cose tutte buone, per carità!, ma poi non sappiamo guardare in faccia chi cammina sulla nostra stessa strada, chi vive nella nostra stessa casa, il marito, la moglie, il collega di lavoro, il confratello, la consorella, insomma le persone e le relazioni che consideriamo ormai “scontate”, “ovvie”, “dovute” e che sono poi, tra l’altro, quelle che più si prodigano per noi, verso cui siamo più debitori.

 

         Talvolta persino, l’uomo ferito che non sappiamo o non vogliamo vedere siamo noi stessi. Siamo noi i malati, siamo noi i feriti e bisognosi di cure, di guarigione, di liberazione dal male, e non ne abbiamo consapevolezza, abbiamo paura a guardare le nostre ferite, le nostre povertà. In questo senso ci esorta il libro del Deuteronomio: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo…non è di là dal mare. Anzi questa parola è molto vicina, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica.” “Fa’ questo e vivrai.”

 

         Il Vangelo non ci chiama anzitutto a gesti straordinari, a fare chissà quali opere grandiose e visibili, ma ad accorgerci dell’uomo ferito che incontriamo sul nostro cammino quotidiano, esattamente sul nostro cammino, non al di là del mare o chissà dove. Se la vita cristiana non si incarna nella nostra esistenza quotidiana potremo chiamarla forse favola cristiana, sogno utopico, ma non vita cristiana. In questo caso avrebbe ragione chi la definì “oppio dei popoli”, una fuga dalla realtà, droga per chi non può permettersi di meglio. Se il vangelo non penetra nel cuore dell’uomo e non lo cambia, non lo guarisce nel profondo, allora potremmo assimilarlo al livello di un manuale di buone maniere, uno speciale e antico galateo.

 

          Il fratello, ogni fratello, a partire da noi stessi rappresenta una chiamata quotidiana, feriale, vicinissima alla nostra vita, una chiamata che impone un rallentare, un fermarsi da quell’agile corsa dell’uomo che il Signore non apprezza. È quanto fa il samaritano della parabola che si trova su quella strada, dice il testo, non per caso, come gli altri due, ma perché era in viaggio, cioè il suo camminare aveva un senso, una provenienza e una direzione significativa ed ulteriore rispetto al semplice muoversi da un posto all’altro, non era lì per caso. Fuor di metafora, non viveva per caso, ma percorreva un cammino, rispondeva ad una chiamata. Questo buon Samaritano vede e accetta di entrare in relazione col ferito: “ne ebbe compassione”, letteralmente “si commosse in modo viscerale”, sentimento squisitamente cristologico. E infatti i Padri della Chiesa hanno colto in questo anonimo passante il volto del Cristo che si china sull’umanità ferita e se ne prende cura.

 

         Cristo avverte, ascolta la chiamata, il grido dell’uomo. Il primo a rispondere ad una chiamata, la nostra, è lui! Cristo obbedisce al grido di aiuto che si leva dalla nostra coscienza bisognosa di liberazione. È Gesù il prossimo che facendosi vicino a noi rende noi stessi suo prossimo, perché prossimo è una categoria duale. Non esiste un unico prossimo, ma si è prossimi di qualcuno che lo è per noi. Alla domanda del dottore della Legge, Gesù con intelligenza, risponde ribaltando la prospettiva: Chi è il mio prossimo? Tu sei prossimo di qualcun altro!

 

La cosa migliore che possiamo chiedere al Signore, prima che aprirci il cuore, è che ci apra gli occhi, che ci faccia vedere l’altro, incontrare l’altro, accorgerci dell’altro. Lasciamoci scuotere da questo invito di Gesù ad andare aldilà di noi stessi per aprirci alla relazione con l’altro, all’incontro con l’altro, che è già un divenire partecipi della beatitudine del Dio Trinità, il Dio relazione di amore e di compassione.

 

venerdì 12 Luglio 2013 – XIV Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ

 

La liturgia di oggi ci propone il seguito del discorso apostolico di Gesù, un discorso paradigmatico, normativo di come l’inviato alle pecore perdute della casa d’Israele debba svolgere la propria missione di apostolo rimanendo discepolo, un uomo chiamato alla sequela di Gesù.

Tale aspetto discepolare che perdura anche durante la missione apostolica risalta particolarmente in due passaggi del testo di oggi, uno riguarda l’essere dell’apostolo, il secondo il suo parlare ed operare.

Il primo è quello che accosta pecore e lupi: “Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi”. Pecore e lupi sono simbolo di due modi di relazionarsi con gli altri: mite e innocua la pecora, feroce, temibile e pericoloso il lupo. La prima, incapace di difendersi con la violenza, il secondo fa della sua aggressività il proprio punto di forza. Infine, erbivora la pecora, mentre il lupo si ciba proprio degli animali che uccide. La metafora è dunque facilmente comprensibile: l’apostolo deve essere un altro Cristo, deve incarnare la mansuetudine e all’umiltà del suo Signore. L’armatura del cristiano è la mitezza, lo stile del testimone è la mansuetudine e la dolcezza, così come invitava san Pietro: “siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo.” (1 Pt 3,16) La tentazione di essere lupo è sempre molto forte nel cuore dell’uomo perché così sembra essere più convincente, e più rispettato. La sua missione, umanamente parlando, sarebbe certo più al sicuro se custodita da un lupo piuttosto che da una pecora, ma chi ragiona così dimentica che la missione non è la sua, ma del padrone della messe che l’ha chiamato ed inviato; non si tratta di una missione umana ma divina, anche nei mezzi e nello sviluppo.

Infine alcuni, ne parla altrove Gesù stesso, sono addirittura dei lupi travestiti da pecora, molto bravi nel simulare un atteggiamento innocuo, dolce, fraterno, ma incapaci di superare la prova della verità indicata da Gesù: “dai loro frutti li potrete riconoscere”.

Ma scorgiamo un’altra differenza sostanziale tra la pecora e il lupo, soprattutto se colleghiamo l’essere pecora del discepolo con l’essere Agnello di Gesù, ed è questa: il lupo genera male, fa male, produce male, la pecora invece elimina il male non restituendolo ma portandolo su di sé insieme a Gesù, l’Agnello di Dio, il solo che toglie il peccato del mondo. In questo senso l’apostolo non solo annunzia Cristo ma continua nel mondo la missione di “bonifica dal male” come quel torrente della profezia di Ezechiele, che uscendo dal lato destro del tempio risana il mare intero.

Se il primo passaggio paradigmatico di come il discepolo debba essere apostolo riguarda l’essere, il secondo, dicevamo, riguarda la parola: “non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi”. Parlare di Dio significa in fin dei conti lasciar parlare Dio. La missione dell’apostolo per quanto attiva e pragmatica, rimane un evento dello Spirito, un evento mistico. L’apostolo è inviato da Gesù per essere segno e voce della chiamata di Dio alla salvezza rivolta a tutti gli uomini, tanto che Gesù stesso dirà ai Dodici: “Chi ascolta voi ascolta me, chi accoglie voi accoglie me”. In questo senso l’apostolo più che un intermediario dev’essere un mediatore di una mediazione di trasparenza e di presenza, tanto più efficace e luminoso quanto saprà mettere da parte se stesso per lasciare la parola a Dio.

           Se tale dinamica ha certamente degli aspetti di passività, appunto il “lasciare la parola a Dio”, bisogna tuttavia riconoscere che tale traguardo non si raggiungerà semplicemente “abbandonandosi”, come in uno stato di rapimento estatico o di totale inerzia, ma nell’attivo e volontario cambiamento del proprio modo di pensare e dunque di parlare. Intriso di Dio e della sua parola il cristiano rigetta deliberatamente, a partire da se stesso, ogni modo di pensare e di parlare che stride con il linguaggio di Dio che è un linguaggio di giustizia e di carità, di verità e di misericordia, di denunzia e di liberazione.

La vocazione dell’apostolo è una vocazione che, seppur con ruoli e ministeri diversi all’interno della comunione gerarchica della Chiesa, è rivolta a tutti e a tutti richiede la stessa comune esigenza che san Paolo, l’Apostolo delle genti, riconosceva per sé: l’essere separato, segregato per annunciare il Vangelo (Cfr. Rm 1,1). Chi non accetta tale “taglio” rimarrà un apostolo a metà, incapace di dire pienamente, con la sua vita e le sue parole, il nome di Cristo al mondo.

 

mercoledì 10 Luglio 2013 – XIV Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ

 

L’invio degli apostoli da parte di Gesù è sostanziato da un annuncio: “strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino”. E Gesù da agli apostoli l’incarico non solo di annunciare questo con le parole, ma anche di provarlo con dei segni speciali che davvero rivelavano la presenza di una Signoria particolare e potente: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni” (Lc 10,8)

 

           Questi segni parlavano da soli. Come non credere davanti a questi eventi che rendevano manifesto che il mondo si trovava nella pienezza dei tempi? Tutti o quasi tutti credevano, tanto che poi Gesù doveva stare attento che non venisse travisato il suo messianismo, come tutto terreno, tutto materiale, tutto politico.

 

Oggi l’urgenza e dunque il mandato di annunciare che il Regno di Dio è vicino non si è esaurito, anzi è ancora più urgente in un tempo in cui le capacità dell’uomo, il suo ingegno tecnico e le sua conoscenze scientifiche potrebbero far pensare che adesso sia l’uomo a far miracoli e non più Dio e che dunque sia più necessario promuovere un regno dell’uomo invece che cercare il regno di Dio. Infatti quanti tra i cristiani ragionano ancora opponendo Dio e uomo, ragione e fede, come se quest’ultima fosse il campo dell’assurdo e dell’irrazionale? All’apostolo di oggi rimangono solo delle parole da sostenere con argomenti su argomenti, capacità di persuasione, e tecniche di convincimento o abbiamo ancora dei segni che rivelano che il regno dei cieli è vicino? Per quale ragione la gente dovrebbe fidarsi di quello che diciamo, dovrebbe creder che Dio c’è e che è meglio essere credenti che non credenti?

 

Se leggiamo bene il vangelo di oggi e se andiamo anche un po’ più in là nel testo, oltre il brano di oggi, vediamo che Gesù non semplicemente da agli apostoli dei poteri sugli spiriti impuri per scacciarli e di guarire ogni malattia e infermità, non solo accompagna i Dodici con dei segni, ma chiede che loro stessi siano “segno”, un luogo rivelativo, epifanico, convincente, che il regno dei cieli è vicino. Gesù vuole che quanto l’apostolo annuncia lo annunci perché ne è convinto, non perché sta giocando un ruolo o sta svolgendo una professione, come se fosse un rappresentante dell’azienda di Gesù. È per questa ragione che l’evangelizzatore sarà tale se sarà egli stesso il primo evangelizzato, il primo a rendere visibile nel campo della sua vita che il regno dei cieli non solo è vicino, ma è già abitabile, già può modificare il mio modo di vivere! In questo senso la missione, l’invio, rimane una sequela di Gesù.

 

Oggi la gente, e il santo Padre Francesco ce lo sta facendo capire senza troppa retorica, guarda più alla vita che alle parole. O meglio, prima guarda alla vita e, a seconda di come questa sia, ascolta le parole. La gente crede se ci vede convinta di quello che diciamo, convinta almeno quanto basta per obbedire anche noi, pur con tutte le nostre povertà, a quanto proponiamo agli altri. E in tale esigenza di coerenza tra vita e annuncio deve trovare posto la l’umiltà e la richiesta di perdono, ossia il riconoscere noi per primi, le nostre incoerenze, quando abbiamo contraddetto il vangelo invece che annunciarlo. Saremo credibili se saremo sinceri. Nessuno presterebbe fede ad un furbo! L’apostolo più che un puro dev’essere un vero, uno che come san Pietro, primo degli apostoli, si mette a piangere di fronte al suo rinnegamento di Cristo. Chi invece cerca di nascondere, o peggio di negare, le proprie innegabili ed evidenti povertà – perché tutti siamo perfettibili, uomini e donne in cammino – salverà forse la faccia, ma starà togliendo un po’ di vigore e credibilità al vangelo che annuncia.

 

Domenica 07 luglio 2013 - XIV Domenica T.O. - fr.Massimo-Maria FMJ

 

        La liturgia ci offre sempre il punto di osservazione privilegiato per metterci in ascolto della Parola. In questa domenica, l'orazione che abbiamo pregato proprio prima della liturgia della Parola, la cosiddetta colletta, si è così espressa: “ O Dio che ci chiami ad essere pienamente disponibili all'annuncio del Regno, donaci il coraggio apostolico e la libertà evangelica.....”

        Possiamo chiederci allora che cosa siano questo coraggio apostolico e questa libertà evangelica che rendono disponibili per il Regno e capaci di rendere presente il Regno ovunque?

        La preghiera così formulata dalla liturgia evidentemente riprende e riassume i testi della Parola, per questo proprio accostandoci alla Parola possiamo trovare la risposta alla nostra domanda.

       Il testo del Vangelo di Luca descrive l'invio in missione dei settantadue discepoli da parte di Gesù. E' evidente come nel testo Gesù non semplicemente li invia in missione ma con attenzione e precisione offre indicazioni, dona istruzioni, pone condizioni, e infonde motivazioni.

       Li invia avanti a sé e ricorda innanzitutto che il Padrone della messe è qualcun altro, è Lui che occorre pregare perché mandi operai. Il discepolo quindi non è proprietario né dell'annuncio, né della missione, né tanto meno del Regno. Ogni ansia di protagonismo è definitivamente bandita. Il discepolo non si è proposto, è stato chiamato, non si è candidato ma gratuitamente è stato scelto.

      Il discepolo poi è inviato come agnello tra i lupi, è mandato cioè non con uno spirito di conquistatore, ma in grande debolezza, in grande mitezza, con tanta umiltà, senza particolari appoggi umani, quasi apparendo indifeso, senza particolari motivi di vanto. San Paolo nella seconda lettura scrivendo ai Galati ci ha proprio ricordato che la croce di Cristo – segno di fallimento e debolezza- resta l'unico vanto del discepolo di Gesù. Non ce ne sono altri, non bisogna soprattutto né costruirne né tanto meno cercarne altri.

     Gesù poi sapendo bene che andando in missione il discepolo sarebbe tentato di prendere delle umane ricchezze, degli appoggi legittimi che diano sicurezza, che  aiutino, perché no, la missione stessa,  raccomanda decisamente la povertà come stile di annuncio: “ Non prendete né borsa, né sacca, né sandali.....”

         La parola che il discepolo porta non è solo una parola, ma ha effetto su chi la riceve, effetto che dice la presenza reale del Regno. Ecco le guarigioni, le liberazioni, le piccole o grandi salvezze realizzate. Tutti questi segni Gesù preannuncia al discepolo che invia per mostrare che il Padrone della messe, il Signore del Regno accompagna, sostiene, è con colui che è inviato. Il discepolo non và a titolo personale, ma neppure và da solo. Negli Atti degli Apostoli si dirà che il Signore confermava l'annuncio degli apostoli con i segni che li accompagnavano.

        Ci sono poi delle indicazioni che potrebbero sorprenderci: “ Scuotere la polvere davanti al rifiuto, ritirare la pace dinanzi alla ostinazione....” Queste indicazioni non contraddicono certo quanto detto finora, ma piuttosto sono per ricordare al discepolo di non addomesticare l'annuncio, di non rendere ibrido il Vangelo. La chiarezza nell'annuncio, l'autenticità nella predicazione. Il Vangelo non è del discepolo, l'annuncio non è del missionario e non può né deve addomesticarlo, né tanto meno aggiustarlo.

        Infine c'è ancora un passaggio prezioso. Quando i discepoli ritornano e sono gioiosi perchè diremmo l'annuncio funziona Gesù con decisione ammonisce di non rallegrarsi perchè “ funziona” ed essi compiono prodigi, ma perché i loro nomi sono scritti nel cuore di Dio, perché sono figli, perchè sono amati.

      Coraggio apostolico e libertà evangelica dicevamo: cosa sono?

Mi pare tre caratteristiche riassumano alla luce della Parola cosa siano coraggio apostolico e libertà evangelica, e non solo le riassumano, ma ne dicano la presenza.

    Autenticità. Sobrietà. Gioia.

   Il coraggio apostolico non è prima di tutto il dire il Vangelo in luoghi rischiosi che richiedono appunto coraggio. Certo è anche questo! ma non solo! Se così fosse sarebbe riduttivo infatti perché possibile solo a chi è in contesti particolari, o sembrerebbe riguardare solo chi ha per vocazione l'essere missionario in senso stretto.

     Il coraggio apostolico, a cui tutti i battezzati in tutte le vocazioni sono chiamati è l'autenticità. E' coraggio apostolico essere autentici, una vita tutta in sintonia con il Vangelo.

     Come forse sapete ieri ed oggi il Santo Padre Francesco nel contesto dell'anno della fede incontra i seminaristi, i novizi, i candidati alla vita sacerdotale o consacrata. Ieri sera, come sempre ha avuto parole chiare e forti:” "... E a tutti voi vi fa schifo, quando trovate preti che non sono autentici o suore che non sono autentiche!"
Nella vita di un consacrato c’è prima di tutto la testimonianza del Vangelo e poi – come evidenziava san Francesco d’Assisi – anche le parole. Prima però la testimonianza poi le parole. Se questa autenticità è necessaria per i preti e per le suore tutti i battezzati non  ne sono assolutamente dispensati. Per l'annuncio.

    Il coraggio apostolico allora è forse il coraggio di fare entrare dappertutto, sempre più il Vangelo nella propria vita. Ognuno sa bene se è onesto quanto coraggio questo atto richieda, ma per essere apostoli è la condizione imprescindibile.

     L'elemento che dice poi la libertà evangelica che sempre all'inizio della liturgia abbiamo chiesto è la sobrietà. La sobrietà esteriore, la sobrietà materiale dice sempre qualcosa di più profondo: la libertà interiore appunto. Questa sobrietà che dice libertà interiore è essenziale per il cristiano che vuole anche essere apostolo. Non si può annunciare il Vangelo con uno stile diverso da quello indicato da Gesù, ma neppure lo si può vivere il Vangelo in modo diverso. Questo vale per i preti, le suore, ma per tutti i discepoli di Gesù divenuti tali in forza del Battesimo.

     Infine c'è la gioia. Ancora il Papa parlano ai novizi, novizi e seminaristi ieri sera ha detto due cose, che certo sono validi particolarmente per chi è chiamato alla vita consacrata, ma che non si fa fatica ad applicare a tutti i cristiani.

    “ ... La gioia dunque nasce  non dal possedere l’ultimo smartphone, lo scooter più in veloce, l’auto all’ultima moda, ma da qualcosa di diverso di queste realtà “con cui – sottolinea Papa Francesco – vi trovate in contatto e che non potete ignorare”:
"E’ il sentirsi dire: “Tu sei importante per me”, non necessariamente a parole. Ed è proprio questo che Dio ci fa capire. Nel chiamarvi Dio vi dice: “Tu sei importante per me, ti voglio bene, conto su di te”. Capire e sentire questo è il segreto della nostra gioia. Sentirsi amati da Dio, sentire che per Lui noi non siamo numeri, ma persone; e sentire che è Lui che ci chiama. Diventare sacerdote, religioso, religiosa non è primariamente una scelta nostra, ma la risposta ad una chiamata e ad una chiamata di amore".

   Per dirla con Gesù nel Vangelo di oggi la gioia nasce dall'essere stati scelti come credenti dall'amore del Padre, dal sapere che i nostri nomi sono scritti nel cielo.

  Senza questa consapevolezza, senza questa esperienza non c'è la gioia vera, ma la tristezza, e nella tristezza non esiste la fecondità apostolica del cristiano.

    Sempre il Papa ha detto ai chiamati alla vita consacrata ieri – ma c'è della intensa luce per tutti :” " Voi, seminaristi, suore, consacrate il vostro amore a Gesù, un amore grande; il cuore è per Gesù e questo ci porta a fare il voto di castità, il voto di celibato. Ma il voto di castità e il voto di celibato non finisce nel momento del voto, va avanti…Un prete che non è padre della sua comunità,  una suora che non è madre di tutti quelli con i quali lavora, diventa triste. Quello è il problema. Perché io vi dico questo: la radice proprio della tristezza nella vita pastorale è nella mancanza di paternità e maternità che viene dal vivere male la consacrazione, che deve portare alla fecondità. Non si può pensare un prete o una suora che non siano fecondi: questo non è cattolico! Questo non è cattolico! Questa è la bellezza della consacrazione: è la gioia, la gioia…"

     Se questa parola è forte per i consacrati lo è non meno per i battezzati. La tristezza, la mancanza di gioia dice che viviamo male la vita cristiana, così non si può essere fecondi nella chiesa, nel mondo, e si esercita quello che sempre il Papa ha definito lo sport del lamento e l'abitudine della critica.

     Autenticità. Sobrietà. Gioia.

  Chiediamo al Signore in questa Eucarestia che ci faccia riscoprire quanto siamo importanti per Lui, quanto è potente il Suo amore per noi, e possiamo riscoprire così che Lui è la vera ricchezza che rende liberi, un amore che rende autentici, un mistero di tenerezza che rende gioiosi. Amen

 

sabato 06 luglio 2013 - XIII Settimana T. Ordinario – fr. Massimo-Maria FMJ

   “ Vino nuovo in otri nuovi”.

   Oggi dobbiamo chiedere al Signore la grazia di accogliere nella nostra vita la forza e la grazia di questa Parola. Gesù nel testo evangelico nel pronunciare questa Parola fa riferimento alla novità della sua Persona, alla novità del Vangelo e della vita cristiana. Questo è il vino nuovo che richiede otri nuovi. Richiede otri nuovi appunto, stà qui la sfida, il cuore del discorso.  

     Proprio per questo la Parola del Signore ha tutto un peso, un valore, una forza, una esigenza di conversione anche per noi che siamo già nella novità della fede cristiana rispetto al mondo giudaico, che conosciamo la novità del Vangelo rispetto all'antica legge, che abbiamo incontrato Gesù rispetto a chi ancora non lo conosce.

    Da una parte la novità già c'è e in un certo senso la conosciamo, ma nello stesso tempo questa novità ci colloca nel dinamismo dello Spirito che non cessa di fare nuove tutte le cose ed essere disarmante e consolante novità. A noi è chiesto di essere otri nuovi, gente cioè disponibile alla novità dello Spirito, docile alla sua azione di continuo e salutare rinnovamento. Non è certo la novità per la novità né la novità per smania di singolarità o perpetuo cambiamento, ma la novità dello Spirito che conduce alla pienezza della verità e della vita.

    Il Papa ha detto : “ Essere cristiano alla fine non significa fare cose, ma lasciarsi rinnovare dallo Spirito Santo o, per usare le parole di Gesù, diventare vino nuovo”.

   La sfida della vita cristiana è tutta qui.

   Ecco che allora la grazia da chiedere è - come ha detto ancora il Papa – di non avere paura della novità che porta lo Spirito e insieme chiedere una grande libertà interiore.

    Spesso noi impediamo di fruttificare o addirittura facciamo spegnere i doni di Dio perchè anziché esporli non certo alla novità mondana, ma alla forza dello Spirito che rinnova, alla novità dello Spirito siamo chiusi a mantenere a tutti i costi le cose come stanno, magari perchè vogliamo in modo sbagliato custodire i doni e i carismi. Quante volte la frase o l'atteggiamento :“ Si è sempre fatto così, questo non si tocca, etc.......” è in realtà paura del cambiamento e della novità. E spesso tutto questo si cela dietro  discorsi che farebbero pensare il contrario, discorsi di apertura e di dialogo.

     Un grande esempio mi pare ci è ripresentato sotto gli occhi dalla notizia della prossima canonizzazione di Papa Giovanni. Papa Giovanni era un uomo profondamente legato alla tradizione, all'antico, in un intervista il segretario disse:” Oggi lo definiremmo persino tradizionalista per certi versi. “ Eppure a differenza di tanti suoi contemporanei a parole paladini di novità, di apertura, di dialogo ha ascoltato lo Spirito e non ha avuto paura della novità, addirittura ha condotto la Chiesa nel cammino della novità. Qual'è stato il suo segreto? Certo non temere la novità e l'interiore e grande libertà. Non era un uomo aperto come oggi si direbbe, ma piuttosto un uomo libero della libertà dello Spirito. Di gente definita aperta che poi in realtà è chiusa perchè non libera anche la chiesa talvolta ne soffre ancora oggi. E il nostro Papa oggi l'ha ricordato affermando che:”....Il Vangelo ci insegna la libertà per trovare sempre la novità del Vangelo in noi, nella nostra vita e nelle strutture”. Il Papa ha quindi ribadito l’importanza della “libertà per scegliere otri nuovi per questa novità”. Ed ha soggiunto che il cristiano è un uomo libero “con quella libertà” che ci dà Gesù, “non è schiavo di abitudini, di strutture…lo porta avanti lo Spirito Santo”.

    Chiediamo allora al Signore di non avere paura della novità dello Spirito e il dono di una grande libertà interiore che fa avanzare la nostra vita e la chiesa tutta nel cammino della santità. Amen
 

giovedì 4 Luglio 2013 –  XIII Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ


 

La pagina evangelica che abbiamo ascoltato è carica di riferimenti dal grande valore teologico. Anzitutto peccato e malattia, due realtà che sia nell’antico testamento che nella mentalità comune sono talvolta accostati come conseguenza punitiva l’una dell’altro per cui la malattia di una persona sarebbe punizione di un peccato commesso dalla persona stessa o anche della sua famiglia perché il Signore puniva fino alla terza e alla quarta generazione. Quante volte abbiamo sentito e forse pronunciato anche noi frasi come queste: Ma che male ho fatto per meritarmi questo? E anche i discepoli di Gesù alla vista di un cieco nato, come ci racconta Giovanni, chiesero: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?” (Gv 9,1).

 

         Gesù, nel guarire il paralitico di oggi subito dopo l’avergli rimesso i peccati, non vuole tanto ribadire tale legame tra il suo peccato personale e la sua malattie, quanto illuminare lo sguardo dei presenti su due aspetti. Il primo riguarda il paralitico, il secondo riguarda Gesù stesso.

 

Per quanto riguarda il paralitico, questi era aiutato, e forse anche compatito, da tutti per la sua situazione di infermità. Da quanto apprendiamo dal testo non sembra che ci fossero preoccupazioni particolari riguardo alla salute spirituale, interiore dell’infermo, l’importante era che venisse risollevato dalla sua paralisi. Tale modo di pensare è certo umanamente legittimo, buono e caritatevole e probabilmente anche noi avremmo fatto e faremmo lo stesso. Gesù però, prima di guarirlo fisicamente, l’abbiamo ascoltato, gli perdona i peccati. Un gesto che, se agli scribi puzzava di blasfemia, negli altri meno coinvolti nelle questioni teologico – religiose e più preoccupati alla salute dell’uomo, avrebbe potuto comunque lasciare con l’amaro in bocca. Ma con questo gesto Gesù richiama l’attenzione di tutti sulla vera malattia di questo paralitico che è il suo peccato, quel male interiore che gli impediva di avere accesso a Dio. E se Gesù attira l’attenzione su questo punto in quei tempi, quanto di più ce n’è bisogno ai nostri giorni dove il senso del peccato come infermità e malattia interiore che ferisce l’uomo, lo menoma, lo rende meno uomo, lo rende paralitico, cioè incapace di muoversi verso Dio e verso gli altri, talvolta non è neppure preso in considerazione. L’importante è stare bene fuori, essere belli fuori, avere una bella immagine e una buona fama. Anzi, talvolta il peccato e la trasgressione diventano addirittura oggetto di vanto: ci si vanta, come diceva san Paolo, di ciò di cui invece bisognerebbe vergognarsi. Per cui Gesù, nel momento stesso in cui guarisce il paralitico, tra le perplessità degli scribi e la delusione dei portantini, in realtà offre la vera salvezza a quest’uomo infermo, di cui poi la guarigione esteriore vorrà essere solo un segno visibile che davvero l’agire di Gesù era efficace.

 

Guardando a Gesù, dopo aver guardato al paralitico, potremmo chiederci: come Gesù salva? Per rispondere a tale domanda potremmo partire da punti diversi. Una pista interessante è chiedersi: perché gli scribi lo accusano di bestemmia? Perché, lo sappiamo, è Dio solo che può perdonare i peccati ed essi non avevano capito che era Dio colui che avevano di fronte. Ma come Dio concedeva il suo perdono? Normalmente attraverso un sacrificio di espiazione come sta scritto nel libro del Levitico, cioè il peccato non voleva essere semplicemente perdonato ma espiato, eliminato. Ora, tale logica sacrificale non viene annullata da Gesù ma viene assunta. Gesù salva prendendo su di sé ed espiando il male dell’uomo, di quel paralitico, un male che avrebbe definitivamente eliminato nel sacrificio della Croce: “egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori” scriveva Isaia (53,4). Chi incontra Gesù e si lascia toccare dalla sua salvezza vive allora con Cristo uno scambio profondissimo ed impensabile ad una solidarietà umana: egli prende il nostro male e ci dona il suo bene, la beatitudine che gli è propria in quanto Dio. E questo è un miracolo ben superiore alla, seppur grandiosa, guarigione di una paralisi.

 

I presenti non potevano capire tutto questo. Ma a noi che godiamo della luce che si irradia dal mistero pasquale, è data quell’intelligenza necessaria per scorgere in questo testo, come anche nella nostra vita, l’energia vitale e trasformante della Pasqua di Cristo. Gesù perdona e guarisce prendendo su di sé. In Cristo non abbiamo solo il Dio fatto uomo, ma, come diceva il beato Giovanni Paolo II, l’incarnazione e la personificazione della misericordia: “Egli stesso è, in un certo senso la misericordia” (Dives in misericordia § 2). Si impone dunque in noi l’esigenza di una conversione alla misericordia, ossia accettare di abbandonare il nostro peccato per ricevere da Cristo una vita nuova, la vita sua. Ciò che Gesù dice al paralitico lo dice allora oggi anche a tutti noi: “alzati e cammina”! Alzati dalla paralisi del tuo peccato, cammina alla sua sequela.

 

mercoledì 3 Luglio 2013 – Festa di San Tommaso - fr. Giovanni-Battista FMJ

 

Il vangelo di oggi sembra dividere l’umanità in due categorie, secondo l’espressione rivolta da Gesù a Tommaso: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto”. Dunque, la categoria di coloro che credono perché hanno incontrato visibilmente il Signore Risorto, e la categoria, veramente beata, di coloro che credono in lui senza vederlo.

 

         Tale distinzione ha una sua verità, anche se non bisogna dimenticare che Gesù stesso aveva proclamato beati gli occhi e gli orecchi degli apostoli proprio perché vedevano ed ascoltavano ciò che altri, prima di loro, non avevano potuto vedere ed ascoltare: “Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltato, ma non lo ascoltarono” (Mt 13,16-17). Dunque non è che il vedere Cristo risorto da parte degli apostoli tolga qualcosa alla loro beatitudine e il non vederlo aggiunga qualcosa alla nostra perché anche loro erano detti beati. E del resto se l’Apostolo, secondo il criterio fornito da Pietro negli atti degli apostoli, doveva essere testimone della risurrezione di Cristo, come poteva Tommaso non partecipare a tale visione?

 

Dove sta allora il nocciolo per comprendere la vicenda di Tommaso? La questione forse non sta tanto nel vedere o nel non vedere, nell’essere beati o nel non esserlo, ma nel tipo di fede che Tommaso cercava di coltivare, ossia una fede che pone delle condizioni: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, se non metto il mio dito nel segno dei chiodi, se non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo”. Queste tre condizioni che Tommaso pone per prendere parte alla fede degli apostoli sono tre condizioni che a lui forse sembravano tre vie per essere veramente sicuro, per fondare sulla roccia dei propri sensi e della propria esperienza fenomenica il suo sì, tre garanzie di fronte alle quali non avrebbe più potuto dubitare dopo la delusione e lo sconcerto del venerdì santo. In realtà, e forse lui di questo non se ne era reso conto, quelle che volevano tre prove evidenti della risurrezione per rendere più grande e sicura la sua fede, in realtà la stavano rimpicciolendo e chiudendo negli spazi limitati della propria esperienza personale e dei suoi sensi. Cioè, in altre parole, è vero solo ciò che verifico io, che sperimento io, è vero solo ciò che convince il mio io. Ciò che è oggettivamente vero, in questo caso la risurrezione di Cristo, è vero solo se lo è anche soggettivamente. Ci avviciniamo, con Tommaso, quasi ad un problema moderno, in cui le cose si sono addirittura spinte fino al limite, talvolta assurdo, di un soggettivismo che non ha più nemmeno la pretesa di una oggettività, per cui ognuno ha la sua verità che è assolutamente vera anche se non ha alcun riscontro con la realtà dei fatti e delle cose. Con Tommaso non siamo ancora a questi livelli perché comunque lui era un uomo conquistato da Cristo che già godeva della beatitudine di coloro che l’hanno visto ed ascoltato. Ma la cosa è interessante per noi che viviamo nella fede e non nella visione, e che tuttavia siamo spesso tentati, come Tommaso, di porre condizioni per credere: se questa vicenda mi va bene allora vuol dire che Dio c’è e mi ama; se c’è il male nel mondo allora vuol dire che Dio non esiste. Questi “se” che sembrano delle conquiste della nostra intelligenza, in realtà la mortificano perché le fissano dei limiti alla sua possibilità di conoscere e di credere oltre i quali le impediamo di accedere. Come se le dicessimo: oltre questo “se” tu non passi.

 

La nuova beatitudine che Gesù annuncia per coloro che non vedono, non è un elogio al rimbambimento dei sensi e dell’intelligenza ma è un panorama nuovo che si apre non prima dell’atto di fede ma dopo l’atto di fede: cioè dopo l’atto di fede io scopro orizzonti inesplorati che prima non avrei potuto conoscere. La lettera agli Ebrei esprime questo concetto dicendo che “la fede è fondamento (cioè qualcosa che viene prima) di ciò che si spera e prova (ossia conferma, qualcosa che viene dopo) di ciò che non si vede” (Eb 11,1).

 

Il benevolo rimprovero di Gesù a Tommaso possiamo allora ritenerlo valida parola di quotidiana conversione anche per noi: non essere incredulo ma credente! Prima credi e poi vedrai, prima fidati e poi potrai capire e non viceversa. Questa è la beatitudine di chi non fonda sulla carne e sul sangue la propria fede ma su quanto il Padre nel Figlio ha voluto rivelarci e, attraverso la testimonianza della Chiesa, annunziarci.

 

martedì 2 Luglio 2013 – XIII Settimana T. Ordinario – fr.Giovanni-Battista FMJ

 

All’interno del vangelo di Matteo, il racconto di oggi è il primo caso in cui i discepoli di Gesù si trovano in pericolo di vita. Essi hanno incontrato il Maestro, l’hanno seguito, l’hanno ascoltato, l’hanno visto in azione sugli altri quando sanava i lebbrosi e guariva gli infermi, ma in fondo, la comunità di Gesù era ancora un gruppo tranquillo che viveva la sua sequela senza troppi problemi. Oggi le cose cambiano, oggi i discepoli si sentono davvero venire meno la terra sotto i piedi. L’aver seguito Gesù sulla barca per passare all’altra riva costerà loro molta angoscia. E tale angoscia improvvisa provocherà certamente un passo in avanti nel loro cammino di fede, e nella loro conoscenza del Signore Gesù.

 

Nel mare avviene un grande sconvolgimento; per quanto fossero esperti di navigazione i discepoli sono davvero in pericolo, da soli non ce la fanno. Si trovano davanti a qualcosa di superiore alle loro forze. Ora, in tale contesto avverso, lontano dalla terra ferma e nel quale non c’è ingegno umano che possa essere di aiuto, quando l’uomo di per sé non può nulla, ecco che emerge un grido: “Salvaci, Signore, siamo perduti!” In questo grido è racchiuso un germe di speranza, l’apertura ad una salvezza che non viene da noi ma che è un Altro che per amore ci offre. Coloro che sono chiamati a divenire pescatori di uomini, in certo senso fanno oggi l’esperienza di essere loro i primi ad essere pescati, ad essere salvati, strappati all’abisso.

 

Da questo capiamo allora una cosa importante: quanto è importante saper gridare al Signore! Quanto è importante fare l’esperienza di essere salvati dal Signore. Solo allora ci rendiamo conto che quanto il Signore ci da non è semplicemente una bella morale, una filosofia di vita, una pace interiore, ma la liberazione dalla morte e dalle molte morti, interiori ed esteriori, che minacciano la condizione umana. Al Signore dobbiamo la vita! Per questo è il nostro Salvatore. Aprirsi alla potenza salvatrice di Dio è forse un miracolo maggiore delle guarigioni fisiche e dei segni spettacolari. La salvezza per l’uomo vede dunque due attori, due protagonisti: il Signore che salva e l’uomo che si lascia salvare.

 

Inoltre, quando facciamo esperienza dell’essere salvati dal Signore, impariamo anche a non aver più paura delle situazioni instabili, delle situazioni cioè che possono potenzialmente mettere a nudo la nostra incapacità, la nostra impreparazione. Gesù, una volta svegliato dai discepoli, chiede loro: “Perché avete paura, gente di poca fede?” Paura e fede sono i due sentimenti entro cui si gioca la nostra sequela di Gesù: la prima è un sentimento naturale, istintivo di fronte ad un pericolo che ci minaccia; la fede invece non è un’attitudine istintiva, non è immediato avere fede. È invece una virtù soprannaturale, teologale perché viene da Dio, che ci offre uno sguardo nuovo, un’esperienza diversa della realtà perché include in essa qualcosa che umanamente non prenderemmo in considerazione: la presenza salvatrice di Dio. E tale sguardo non ci è mai dato una volta per tutte, ma va coltivato, nutrito, esercitato, a prezzo di rinnovati atti di fede nelle cose piccole e grandi delle nostre giornate mediante i quali ci alleniamo, sostenuti dalla grazia, a passare dalla paura alla fede, dalla paura al timore di Dio. La fede è un dono di Dio ma non si edifica da solo in noi, non cresce indipendentemente da noi, ma cresce nella misura in cui la utilizziamo come strumento attivo di vita, di pensiero, di azione, di preghiera. Attraverso tale esercizio della fede si allungherà anche il “curriculum” dei miracoli che il Signore avrà compiuto nella nostra vita, miracoli che come ci insegna il vangelo erano sempre subordinati alla fede dell’uomo. Tale esperienza di Dio che avremo fatto nel passato sarà per noi come un tesoro prezioso racchiuso nella nostra memoria, il coraggio per guardare avanti senza rimanere bloccati dalla paura del domani e dei problemi che porterà con sé, e di guardare indietro senza rimanerne pietrificati come la moglie di Lot. Così sapremo proseguire con entusiasmo la corsa della nostra fede.

 

venerdì 28 Giugno 2013 – Santi Pietro e Paolo – Messa vespertina nella vigilia - fr. Giovanni-Battista FMJ


Celebrare la solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo non significa solamente ricordare e venerare la vita santa di due grandi testimoni del Signore risorto. Nella loro chiamata e nella loro storia noi ammiriamo non unicamente quanto il Signore ha fatto per loro, ma soprattutto quanto il Signore ha fatto in loro per noi.

 

Fin dall’origine della vocazione di questi due apostoli è presente una dimensione di ecclesialità, un sì detto al Signore che si inserisce, certo in maniera a loro stessi sconosciuta, in un’opera grande di Dio, un’opera che li precede, li include, li supera, per giungere fino a noi oggi. E quest’opera, se vede certo Dio come protagonista supremo, è debitrice anche a loro, al loro sì, un sì detto a Dio, ma un sì detto anche a noi che viviamo non di una fede qualsiasi, ma di una fede apostolica, la fede degli apostoli.

Da ciò possiamo capire e ritenere una prima cosa: la chiamata di Dio se è certo una chiamata rivolta ad una singola persona e che va certamente coltivata e custodita come bene prezioso del singolo, ha un riverbero e una responsabilità più ampia, ecclesiale. Dicendo sì o no alla propria chiamata il cristiano non fa i conti solo con Dio, ma anche con il Corpo di Cristo che è la Chiesa. Il cristiano che risponde sì o no a Dio, afferma o nega la sua disponibilità anche agli altri e alla Chiesa di cui è chiamato a divenire, ciascuno al suo posto, membro responsabile di dare il proprio contributo a quest’opera divino - umana che è appunto la Santa Chiesa, la famiglia di Gesù. Se siamo pietre vive lo siamo non di un edificio di nostra proprietà, ma dell’edificio della santa Chiesa che attende che ci collochiamo laddove il Signore vuole e il bene degli uomini ha bisogno.

 

Un secondo aspetto su cui concentrarci di questi nostri grandi padri e fratelli che oggi vogliamo ricordare con venerazione è la modalità della loro risposta alla chiamata di Gesù. Entrambi hanno visto il Signore risorto, chi sulle rive del lago di Tiberiade, chi sulla via verso Damasco. Essi, tuttavia, se è vero che hanno seguito il Signore così com’erano, hanno però dovuto acconsentire ad un’opera di trasformazione di loro stessi. Così com’erano infatti essi non erano adatti, non servivano il Signore ma o lo rinnegavano, vedi Pietro, o lo perseguitavano, vedi Paolo (Saulo, Saulo, perché mi perseguiti). L’adesione al Signore ha dovuto necessariamente passare per le lacrime, nel caso di Pietro, e per il buio della cecità, nel caso di Paolo. Insomma l’uomo, per divenire apostolo e padre, ha dovuto rinunciare a com’era prima, per rivestire l’uomo nuovo creato ad immagine somiglianza di Dio; ha dovuto attraversare il crogiuolo della sofferenza. Scrive di Pietro san Massimo di Torino: “Vedete quanto a Pietro abbia giovato il pianto! (…) Divenne infatti più fedele dopo che ebbe pianto la sua infedeltà, e perciò recuperò una grazia maggiore di quella perduta. Infatti, come a buon pastore, gli fu affidato il gregge, e così quegli che dianzi era stato incapace di sostenere se stesso diveniva il sostenitore di tutti; e chi, intimidito da una domanda, aveva vacillato, diveniva stabile fondamento degli altri.” (Sermone LXXVII). E anche Paolo non sfuggì a quella buona sofferenza che lo rese malleabile strumento per il Signore affinché portasse il nome di Dio alle nazioni; “e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome” (At 9,16).

 

Pietro e Paolo hanno accettato di entrare in questo fuoco che purifica e rinnova, hanno accettato di rinunciare a loro stessi per divenirlo in maniera ancora più autentica. Essi sono grandi perché hanno saputo farsi piccoli per il Signore che non ha bisogno di super-eroi ma di persone umili e buone. “Non è il potere che redime – diceva papa Benedetto XVI – ma l’amore.” Solo così si può essere padri e madri per gli altri. E da gente che in sé aveva ben poco, Pietro e Paolo sono diventati uomini di Dio che possedevano tutto e davano tutto: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina”.

 

Celebrare questa solennità può essere allora per noi preziosa occasione per scoprire o riscoprire questo sguardo di Gesù su di noi che ci interroga e ci chiama: mi ami più di tutto e di tutti? Nutri le mie pecore! Ti affido ciò che è mio.

 

mercoledì 26 Giugno 2013 –  XII Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni Battista FMJ


 

Il libro del Deuteronomio offriva all’israelita un criterio chiarissimo per distinguere un vero profeta da uno che aveva la presunzione di dire in nome di Dio una cosa che Egli non aveva comandato: “Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta il Signore. Il profeta l’ha detta per presunzione.” (Dt 18,22). Gesù invece, nel Vangelo di oggi, parlando dei falsi profeti, non chiede tanto di guardare alla realizzazione esterna della parola del profeta, ma alla realizzazione interna, nella vita del profeta stesso, di questa parola. Cioè quanto il profeta si faccia discepolo di quella volontà divina di cui dice di essere interprete. Tanto che l’azione esterna del profeta, la sua bontà o la sua malvagità, non sarà altro che l’espressione visibile di ciò che il profeta è in se stesso: “un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. (…) Dai loro frutti dunque li riconoscerete.”

 

Nei confronti di coloro che dicevano di parlare in nome di Dio Gesù dunque invitava alla cautela, al discernimento, a non fidarsi subito, una presa di distanza ancora più netta di quella che chiedeva nei confronti degli scribi e dei farisei che insegnavano al popolo: “Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno.” (Mt 23,3) Ascolto, dunque, ma non sequela ed emulazione.

 

Come mai, potremmo chiederci, una tale diffidenza verso i falsi profeti? Forse perché, nei falsi profeti, abbiamo non soltanto incoerenza tra la parola detta e il vissuto personale, un dislivello certo non facilmente colmabile in questa vita, ma abbiamo subdola doppiezza, un prendersi ciò che non mi appartiene e mascherarlo, chiamare il bene male ed il male bene, mentre, come insegnava Giovanni il Battista: “Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stata data dal cielo.” (Gv 3,27) Un antico predicatore diceva in proposito: “Niente distrugge il bene come il falso bene. Infatti un male evidente, in quanto male, viene fuggito ed evitato; invece il male che si nasconde sotto le sembianze di bene non è evitato finché non si conosce, ma piuttosto è accolto come bene e perciò, confondendosi col bene, lo distrugge.” E al giorno d’oggi, nel nostro mondo, abbiamo purtroppo sotto i nostri occhi diversi esempi di male chiamati bene.

 

La falsità ambigua è davvero qualcosa che il Signore non sopporta perché è come una sorta di evoluta forma di male, sottile ingegno del padre della menzogna, che riesce a serpeggiare indenne travestita di bene. Gesù stesso, come affermava Simeone, venne “perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2,35).

 

Tuttavia Gesù non ci chiede di dichiarare guerra ai falsi profeti, ma di saperli riconoscere per non prendere esempio da loro e non ascoltarli. Se secondo il libro del Deuteronomio il falso profeta doveva essere messo a morte, Gesù, il nuovo Mosè che parla da un nuovo monte, non chiede di metterlo a morte ma di metterlo alla prova. Ci invita ad aprire gli occhi, a non essere ingenui e sprovveduti. Il cristiano deve avere ben chiaro quali siano i riferimenti con cui confrontarsi per formare ed illuminare la propria coscienza, in primo luogo la Parola di Dio interpretata dalla Tradizione e dal Magistero della Chiesa. Il cristiano non deve solo avere fede, ma deve anche vigilare e custodire questa fede come un tesoro in un vaso di creta che molti, al giorno d’oggi, cercano di distruggere.

 

Lo Spirito Santo ci illumini, ci custodisca, e renda efficace nella nostra vita la parola di Gesù: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.” (Gv 10,28)

 

Domenica 23 Giugno 2013 – XII settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ

 

Chi è Gesù e chi siamo noi. Questi sono gli interrogativi a cui la parola di Dio di questa domenica sembra rispondere.

 

E tale indagine è Gesù stesso, come abbiamo sentito nel vangelo, che la provoca nei suoi discepoli: “Le folle, chi dicono che io sia?”, cosa pensa l’opinione pubblica di me, cosa si dice in giro. Lo sguardo della gente su Gesù è uno sguardo che non va oltre le categorie e le esperienze religiose già viste in passato: Gesù non è più di un profeta, anzi non è nemmeno un profeta nuovo ma è solo la riproposizione di profeti già conosciuti: Giovanni Battista, Elia o uno degli antichi profeti che è risorto. È lo sguardo del mondo su Gesù, lo sguardo del sentito dire, della chiacchiera che rassicura, perché la dicono in molti, perché crea consenso e forse, allora come oggi, il consenso valeva più della verità. Eppure la risposta autentica su chi sia Gesù non viene dalle folle, che pure avevano incontrato Gesù e molti, come si legge nei capitoli precedenti a questo, erano anche stati guariti dalle loro malattie e liberati da spiriti impuri. La risposta autentica su chi è Gesù viene dalla Chiesa: Ma voi, miei discepoli, miei apostoli, chi dite che io sia? “Pietro rispose: Il Cristo di Dio”. La comunità di coloro che vivono con Gesù, che lo seguono, che lo frequentano e che non solo hanno sentito parlare di lui, ma gli vivono accanto facendo della sua vita la propria vita, riconosce in lui il Cristo di Dio.

 

Non si può conoscere Gesù guardandolo da lontano, dalla propria posizione di neutralità e di distanza, come faceva Zaccheo dall’alto del suo sicomoro. Potremo certo fare anche noi come lui, ma rimarremo sempre ad un livello superficiale, generico, poco pregnante per la nostra vita. Alla domanda “Chi è Gesù?” forse non risponderemo con le categorie delle folle israelite, l’opinione pubblica di allora, ma con quelle in voga oggi: Gesù è un capo religioso, come Maometto, Buddha. Insomma, uno tra gli altri, nulla di più che gli altri, in fin dei conti, nulla di più che un uomo, importante, famoso ed esemplare, ma pur sempre un uomo. L’aria che si respira nel nostro mondo è un po’ questa.

 

Gesù, di fronte alla risposta di Pietro, prosegue il dialogo andando ancora più in profondità: “Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti, venire ucciso e risorgere il terzo giorno.” Se anche l’essere Cristo poteva essere travisato, frainteso, annacquato nelle aspettative di cui si caricava questo personaggio atteso, Gesù invita i suoi discepoli a ragionare in modo diverso, e a cogliere l’inedito nella sua persona. Io salverò sì il mondo, ma non lo salverò uccidendo tutti i miei nemici e facendo lo spaccone, ma seguendo la via dell’umiltà, della mitezza e della Croce, passando per il rifiuto e venendo ucciso io stesso. La gloria di Gesù brilla nella sua Croce, in essa l’espressione del vero regnare, della vera grandezza, del servire offrendo la propria vita. E da Cristo in poi ormai la Croce non sarà solo il trono di Gesù, ma il trono destinato a tutti coloro che vogliono regnare insieme a Lui e la firma che rende autentico il nostro cammino e la nostra testimonianza cristiana. “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua.” “Pertanto - commenta lo scrittore ecclesiastico Origene – se si predica Gesù Cristo, è necessario annunciarlo crocifisso. Incompleto è l’annuncio che non parla della sua croce! Non così incompleto, mi pare, dire che Gesù è il Cristo tralasciando qualcuno dei suoi prodigi, come invece il tralasciare la sua crocifissione!”. Insomma i miracoli e i prodigi stupefacenti che Gesù fece, e che nutrivano l’idea che le folle avevano di lui, non bastano per conoscerlo in verità, se non lo si riconosce e non lo si segue come Messia crocifisso. I miracoli trascinavano folle intere; la salita al monte Calvario invece allontanò tutti, eppure è in quest’ultima che si rivela pienamente il volto di Dio. Il cristiano deve avere il coraggio di guardare al Cristo crocifisso e in questo sguardo trovare il senso della propria vita e della propria missione nel mondo. Il cristiano, come abbiamo ascoltato da san Paolo, è un rivestito di Cristo. Dalla scoperta di chi è Gesù, scopre chi è se stesso e sa guardare tutto e tutti in modo nuovo: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”, appartenete a Cristo.

 

La Chiesa – scriveva il beato Giovanni Paolo II - non ha altra vita all'infuori di quella che le dona il suo Sposo e Signore” (Redemptor hominis 18). Di questa vita anche noi possiamo vivere se vogliamo perdere la nostra nel seguire Cristo Crocifisso, prendendo la nostra croce ogni giorno.

 

mercoledì 21 Giugno 2013 – XI Settimana T. Ordinario – fr.Giovanni-Battista FMJ


 

Il vangelo di oggi ci propone due detti di Gesù che sembrerebbero parlare di cose diverse. Il primo tratta del rapporto dell’uomo evangelico nei confronti della ricchezza, o meglio, quale ricchezza deve anzitutto ricercare il cristiano e come deve relazionarsi con i beni materiali. La seconda parte, facendo ricorso in modo simbolico all’uso della vista, ci aiuta a capire come l’uomo guarda e conosce la realtà, uno sguardo non neutro ma che può subire l’influenza, luminosa od ottenebrante dell’occhio umano, del modo dell’uomo di guardare le cose. Gesù, in questo brano, compie un movimento di approfondimento: dalla superficie dell’argomento trattato penetra in profondità e a partire da tale profondità rende ragione del resto, trova le cause dei comportamenti e dei giudizi umani. Tale discesa nel profondo viene espressa prima con il riferimento al “cuore” dell’uomo, “dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”, e poi con il riferimento all’ “occhio” dell’uomo, come quell’organo che svolge un ruolo di lampada per il corpo, cioè rende la realtà visbile, percepibile all’uomo. Gesù dunque, nel vangelo di oggi, si presenta a noi come colui che sa leggere in verità l’anima dell’uomo e cogliere in essa le radici del suo comportamento esterno. Se gli antichi padri apologeti non esitavano a definire Gesù il vero filosofo di fronte a tutte le filosofie del tempo, oggi forse noi potremmo definirlo il vero psicologo.

 

Di fronte a tale sguardo profondo di Gesù, che, come dice san Giovanni nel suo Vangelo, “conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo” (Gv 2,25), possiamo ritenere, tra le molte possibili, alcune considerazioni.

 

La prima potrebbe essere un’estensione, uno sviluppo del bellissimo inciso del primo libro di Samuele (1 Sam 16,7): “l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore”. E cioè: la fede cristiana è qualcosa che deve penetrare fin nel punto più profondo dell’uomo, ossia nel suo cuore. Quanto dice il nostro Libro di Vita ai monaci: “o sarai monaco nel profondo del cuore o non lo sarai mai” possiamo applicarlo alla vita cristiana intera: o saremo cristiani nel profondo del cuore o non lo saremo mai. La vita cristiana ha certo un riverbero visibile all’esterno, è una fede che si sviluppa nel solco tracciato dall’Incarnazione del Verbo di Dio, evento che impedisce ogni riduzione intimistica del fatto cristiano, ma l’autenticità della nostra sequela di Cristo si misurerà sempre su questa coerenza tra ciò che crediamo dentro di noi e ciò che viviamo fuori di noi. E questo anche per quanto riguarda l’uso della ricchezza. “Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”; in altre parole: userai bene la ricchezza di questo mondo se saprai però che il tuo vero tesoro non è quello e, come dice il salmo, non vi attaccherai il cuore.

 

Un’altra cosa che possiamo capire è che se il Signore non chiede all’uomo qualcosa ma chiede niente di meno che il suo cuore, è perché Cristo sa davvero andare al cuore dell’uomo, sa portare la salvezza e la redenzione fin in quel baratro mai del tutto comprensibile ed esplorabile dall’uomo che è il suo cuore. Gesù rinnova tutto l’uomo, redime tutto l’uomo, guarisce e salva tutto l’uomo.

 

Tale buona novella diventa allora per noi impegno di conversione per non sottrarre nulla a questa forza benefica che ci ricrea e ci trasforma. Non esiste un cristianesimo a metà. Nel battesimo siamo stati consacrati interamente, a partire dalle profondità più intime del nostro essere, perché questa consacrazione giunga pian piano dal centro fin nelle periferie del nostro agire, guardare, ragionare.

 

San Luigi Gonzaga, che oggi ricordiamo, a dieci anni aveva già capito questa dimensione di totalità della vita cristiana, intuizione che suggellò con il voto di castità, offrendo il proprio cuore indiviso al vero tesoro della sua vita.

 

Alla sua intercessione affidiamo il nostro desiderio di santità perché il Signore ci aiuti a mantenerlo vivo e a prendere gli strumenti giusti e compiere le scelte adatte per portarlo a compimento.

 

mercoledì 19 Giugno 2013 – XI Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista


 

Quando fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra; quando preghi chiudi la porta della tua camera; quando digiuni la gente non veda che tu digiuni. Le coordinate che il vangelo di oggi ci offre sembrano contraddire quanto abbiamo ascoltato pochi giorni fa, sempre nel medesimo discorso della montagna: “risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli.” (Mt 5,16). Come si spiega questa contraddizione? O meglio, si tratta di una vera contraddizione oppure lo è solo in apparenza? Le nostre opere buone devono essere visibili o nascoste?

Un aiuto per comprendere la questione ce lo offre il versetto di apertura del vangelo di oggi “State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere da loro ammirati.” Emerge qui chiaramente qual è la finalità di questo tipo di esercizio della giustizia: non tanto l’amore di Dio e nemmeno l’amore per gli altri. Semplicemente la ricerca di se stessi, il culto del proprio io: l’essere ammirati. Finalità molto diversa dal perché “rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli” della testimonianza vera a cui il Signore Gesù ci invita. Da qui possiamo subito trarre un insegnamento, e cioè: non basta fare delle cose buone. Bisogna anche vigilare con quale spirito le facciamo. La santità non coincide sempre con l’apparenza. Per usare le parole simpatiche di Papa Francesco: la santità non è “avere una faccia da immaginetta” ma “accogliere la grazia che il Padre ci dà in Gesù Cristo”.

Per vivere questo, il vangelo di oggi ci richiama ad una dimensione importante della vita cristiana e della nostra relazione con Dio: il segreto. Non tanto in senso esoterico: sappiamo che il Cristianesimo non è questo. E non semplicemente per ragioni di gratuità, cosa ben pregevole e necessaria nella vita cristiana. Ma certo c’è una dimensione di segreto nel nostro rapporto con Dio che se non siamo in grado di abitare, coltivare e custodire correremo sempre il rischio di vivere, come dice Paolo, in servizio agli occhi degli altri per la ricerca di se stessi, felici finché saremo sostenuti dal compiacimento degli altri. Porre le nostre radici in questa relazione viva e nascosta con Dio è via feconda non semplicemente per fare delle opere di giustizia, considerate esteriormente, che potrebbero essere, come abbiamo visto, anche solo simulazione, ma per portare un frutto di vita evangelica che davvero sia per la gloria del Padre e sia autentica testimonianza di qualcosa che desideriamo e viviamo nel profondo di noi stessi e non solo in superficie. E il nostro tempo ha bisogno di profondità, ha bisogno di purificarsi da quella cultura dell’immagine, della carriera e dell’appariscenza a causa della quale stiamo ormai disimparando a porci in solitudine e in verità di fronte a noi stessi, prima ancora che di fronte a Dio e agli altri. Il prezzo di questo sforzo potrebbe essere una certa incomprensione o frustrazione, nonché la fatica della solitudine. Il premio, la vera libertà dei figli di Dio, coloro che colgono lo sguardo del Padre su di loro e sanno rallegrarsene.

L’intercessione di san Romualdo, padre e maestro di monaci e di eremiti, ci accompagni in questo cammino di autenticità e ci educhi a non accontentarci della piccola ricompensa che viene dall’essere visti dagli uomini, per trovare stabilità in Dio solo.

 

sabato 15 Giugno 2013 – X Settimana T. Ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ


          Nella quarta antitesi del discorso della montagna che stiamo leggendo in questi giorni, Gesù continua a far emergere il senso pieno della Legge che egli viene a compiere, e oggi tocca la questione del giuramento.

 

Il giuramento era una prassi diffusa tra i popoli antichi che, chiamando il loro Dio a testimonianza di determinate parole o azioni, volevano dichiararne la veracità o affermare qualcosa con particolare vigore. Tale prassi non era assente neanche dal popolo d’Israele, anche se, nell’Antico Testamento non troviamo tanto, alla lettera, l’esortazione a non giurare il falso, quanto l’invito a non abusare del nome di Dio, usandolo appunto invano, cioè per motivi non seri o ricorrendo ad esso per avvalorare rapporti di non sincerità con gli altri.

 

Gesù, come in altri casi, va al nocciolo della questione, al cuore della Legge: non si tratta solo di non giurare il falso, ma di non giurare affatto. Dietro a questa proibizione non c’è unicamente un invito a non usare superficialmente il nome di Dio o tutto quanto è in relazione a Dio (cielo, terra, Gerusalemme o la propria vita), e nemmeno Gesù si limita a consegnarci una forma di linguaggio più corretta. C’è uno stile di vita nuovo, una modalità rinnovata di relazionarsi con gli altri: la lealtà nel parlare e nell’ascoltare: “Sia il vostro parlare “Sì, sì”; “No, no”; il di più viene dal Maligno”. È una regola semplice che ci guida ad essere semplici cioè, come lo dice la parola stessa, sine-plica, senza pieghe, senza i lati oscuri e ambigui di chi non tanto nasconde per ragioni di riservatezza o di carità, ma camuffa, altera, agendo proprio come il padre della menzogna. “La fede – afferma sant’Ilario di Poitiers – stabilisce nella verità le attività della nostra vita e, facendoci rigettare l’inclinazione a mentire, prescrive la lealtà nel parlare e nell’ascoltare di modo che ciò che è sia e ciò che non è non sia. Infatti tra è e non è c’è spazio per la menzogna e il di più viene dal maligno.” Ed egli aggiunge: “Così coloro che vivono nella semplicità della fede non hanno bisogno del legame del giuramento. Con essi ciò che è, è sempre, ciò che non è, non è, per cui tutte le loro azioni e tutte le loro parole sono nella verità.” (Commentario a Matteo 4,23)

 

Tali indicazioni riguardano non solo chi parla ma anche chi ascolta perché ogni relazione tra gli uomini è costruita da entrambe le parti. E lo stile di lealtà che deve contrassegnare il parlare tocca anche l’ascolto. Il giuramento può nascere infatti dalla diffidenza nei confronti dell’altro, dal sospetto che, se non giura per qualcuno che eventualmente, in caso di falso, lo punisca, non si può concedere fiducia. Diceva un antico scrittore anonimo (Opera incompleta su Matteo, omelia 12): “Se il tuo avversario pensasse che tu giuri rettamente, non ti spingerebbe mai al giuramento, ma poiché crede che tu spergiuri, ti spinge a giurare.” Il parlare con lealtà è allora legato all’ascoltare con fiducia, non certo per essere dei creduloni facilmente raggirabili, ma come tentativo di voler davvero comprendere l’altro, capire l’altro, accogliere l’altro come persona degna di fiducia, soprattutto i fratelli e le persone che più frequentiamo e con cui condividiamo la nostra vita. E allora non solo noi stessi diverremo semplici, cioè senza pieghe, ma anche le nostre relazioni vicendevoli, talvolta, se non spesso, ancora troppo intorbidite da cose dette e non dette o magari fatte capire senza dirle, di mezzi sì e di mezzi no. Un comunicare che invece che avvicinare allontana, invece che nutrire la fiducia, alimenta il sospetto. E come dice il nostro Libro di vita: “Niente rattrista più della discordia, del sospetto, delle mormorazioni, delle gelosie.”

 

Alla sequela di Gesù, che senza doppiezza ci ha rivelato il Padre, che non fu “sì e no” ma in cui tutte le promesse, i giuramenti di Dio, sono divenuti sì, possiamo davvero rinnovare il nostro modo di pensare, parlare ed ascoltare per camminare sempre nello splendore della verità.

 

mercoledì 12 Giugno 2013 – X Settimana T.O. - fr.Giovanni-Battista FMJ


La lettura continua del vangelo di Matteo che abbiamo iniziato lunedì, si è aperta con il discorso della montagna in cui Gesù, da un nuovo monte, come nuovo Mosè, proclama la legge nuova. In tale discorso, che ancora stiamo leggendo in questi giorni, Gesù rileggerà alcuni comandamenti della legge antica dei quali, con autorità, farà emergere il significato pieno e, a partire dai quali, annuncerà il nuovo statuto dei discepoli del Regno. Si tratta delle cosiddette antitesi: “Avete inteso che fu detto agli antichi … ma io vi dico.”

 

A queste antitesi fa da introduzione il vangelo di oggi, un brano estremamente importante non solo per collocare bene Gesù, il Mosè del nuovo Israele, in rapporto all’antico Mosè, ma anche per farci comprendere una logica intrinseca della storia della salvezza, ossia di quel lungo cammino e dialogo che Dio ha intrattenuto con gli uomini per educarli ad una vita buona e condurli verso la terra promessa della vita eterna. Questa logica intrinseca è rintracciabile nel vangelo di oggi ma anche in altre pagine della storia d’Israele o della storia della Chiesa, ed è la legge della continuità e del compimento: “Non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento”. La storia della salvezza è una storia che va avanti, che conduce ad una conoscenza e ad un rapporto sempre più intimo e profondo di Dio con l’uomo. Dio non torna indietro, non distrugge la sua opera, anche qualora fosse l’uomo stesso a tradirla, ad abbandonarla. La promessa e l’opera di Dio rimarranno stabili per sempre perché Dio è un Dio fedele e, come dirà Paolo, “se noi siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2 Tm 2, 13). Del resto anche Gesù prima di morire aveva annunciato la venuta dello Spirito Santo, quel Paraclito che non ci avrebbe condotto per strade diverse da quelle che Gesù stesso ci aveva indicato, ma ci avrebbe guidato più in là nella medesima via della verità, facendoci penetrare più profondamente l’insegnamento di Gesù: “prenderà del mio e ve lo annuncerà”. Un procedimento simile lo fa Gesù nei confronti della Legge antica: non la abolisce ma la compie, non distrugge ma continua ad edificare. Gesù non fu sì e no ma in Cristo tutte le promesse di Dio, la Legge e i Profeti, sono divenute sì (Cfr 2Cor 2,19-20). Ciò significa che il popolo di Gesù non è un popolo senza Legge, ma è un popolo che è chiamato, perché ne ha ormai tutti gli strumenti, a vivere in maniera piena, profonda, e dunque più esigente, la Legge, che come sappiamo, trova il suo compimento nell’amore.

 

Se talvolta si proclama con entusiasmo e un po’ con fare liberatorio l’abbandono dei famosi 613 precetti che i rabbini avevano elencato, come se, al “supermercato delle religioni”, ne avessimo trovata finalmente una meno stringente, con più vantaggi e meno oneri, non bisogna però dimenticare che la legge dell’amore può essere anche più vincolante ed esigente di questi 613 precetti, ed è per questo che Gesù, come sentiremo nel vangelo di domani, ci sprona ad una giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei. L’amore che compie la Legge non ci autorizza al libertinaggio, ma ci chiama ad una perfezione più alta, ad una vita più esigente e dai vincoli più forti di quelli della Legge antica, perché è una vita amante. Cristo non ci chiama a un di meno ma ad un di più! “Voi infatti, fratelli, - leggiamo nella lettera ai Galati (5, 13-14) – siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso.” Una volta capito questo potremo capire e vivere anche il celebre anche “Ama e fa’ quel che vuoi” di sant'Agostino, senza rischio di scambiare per amore evangelico il nostro habitus mondano.

 

Se la Legge con cui Dio opera nella storia non è quella della distruzione e dell’abolizione ma quella della continuità e del portare a compimento tutto ciò che di buono e di santo c’è in noi, allora possiamo davvero aprirci con fiducia a questo Dio tre volte santo, con quell’abbandono con cui papa Benedetto anni fa spronava i giovani: “Non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie niente e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo – e troverete la vera vita.”(24.04.2005)

 

martedì 11 Giugno 2013 – X Settimana tempo ordinario – San Barnaba - fr. Giovanni-Battista FMJ

 

La prima lettura che la liturgia ci propone per commemorare la figura di san Barnaba ci fa menzione di un momento importantissimo nella vita dell’apostolo, del fondamento, l’origine, il momento nascente della sua chiamata. All’origine della missione di San Barnaba c’è una chiamata del Signore, il realizzarsi concreto nella vita di un uomo della parola di Gesù: “non voi avete scelto me ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga.”

 

Da quanto apprendiamo dalla prima lettura, tale chiamata ha anzitutto degli specialissimi tratti di ecclesialità: è la Chiesa di Gerusalemme che invia Barnaba ad Antiochia. Il Signore rivela il Suo desiderio di chiamare Barnaba e Saulo ad una comunità raccolta in preghiera e in digiuno, alla Chiesa che celebrava il culto. Inoltre Barnaba non è chiamato da solo ma insieme a Saulo: due fratelli scelti insieme, inviati insieme, insieme riceveranno il titolo privilegiato di apostoli pur non appartenendo al gruppo dei Dodici. Si tratta di una chiamata che nasce ecclesiale ed è orientata ad un’opera sempre ecclesiale cioè portare l’annuncio della salvezza ai pagani; rendere Chiesa ciò che Chiesa non è, rendere partecipi dell’adozione a figli coloro che non erano popolo di Dio. Infine è la Chiesa che consacra ed invia i due apostoli che dunque agiranno non in nome proprio ma in nome di Dio e della Chiesa.

 

Un altro particolare interessante della chiamata di San Barnaba è espresso nei termini di un riservare per il Signore: “Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati”. In questa chiamata troviamo tutto il senso e lo sviluppo concreto della vita dell’apostolo. L’apostolo è anzitutto un chiamato, un riservato, un separato per il Signore. Ormai non si appartiene più, è proprietà particolare del Signore come lo era il popolo santo di Dio, Israele, a cui il Signore diceva: Voi sarete la mia segullah, il mio tesoro prezioso, la mia proprietà particolare tra tutti i popoli. Il Signore quando sceglie separa, perché consacra, rende partecipe della sua santità che è separazione dallo spirito del mondo e dal male. Paolo stesso, nella lettera ai Romani, si riterrà tale, un separato, scelto, segregato per annunciare il Vangelo. Il verbo è qui sempre lo stesso aphorizo, separare per destinare ad un’opera. Barnaba allora non intraprende una missione ma riceve una missione. Se nell’anima dell’apostolo cessasse questa consapevolezza di essere un inviato cesserebbe anche il suo essere apostolo che non si misura anzitutto sulla quantità delle opere di pubblicità del Vangelo, ma sulla radicalità della donazione di sé a Dio e alla Sua opera. Per quanto possa essere attivo e brillante il lavoro dell’apostolo diverrebbe altrimenti un cembalo che tintinna, non più uno strumento del Signore. La Chiesa non ha bisogno di gente super attiva e nemmeno di manager, ma di uomini di Dio, chiamati a vivere anzitutto per il Signore e, come tali, essere poi inviati, ciascuno secondo la propria vocazione, a nutrire e servire il Corpo di Cristo. Lo ha ricordato pochi giorni fa il cardinal Piacenza, prefetto della Congregazione per il Clero, parlando ai preti e dei preti, coloro che nella Chiesa sono chiamati a collaborare strettamente al ministero apostolico, con parole che possono però essere di giovamento per tutti: “se la Chiesa, come molte volte ci ha ricordato papa Francesco, non è un’organizzazione non governativa, allora non si tratta di formare dei top manager, dalle strabilianti capacità organizzative, o dalla particolare – e spesso troppo soggettiva – creatività. (…) Si tratta – ha insistito – di formare uomini uniti a Cristo, alla Chiesa e al Papa, che guardino con amore al Cuore di Gesù, come fonte vitale della propria esistenza e, perciò, del proprio ministero.”

 

La fecondità dell’apostolo, del prete, come di ogni cristiano del resto, si baserà dunque anzitutto su questa fedeltà alla roccia da cui siamo stati tagliati e alla comunità ecclesiale che ci ha generati alla fede. Come il sale del Vangelo di oggi: potrà fare qualcosa di utile, nel concreto esaltare il gusto dei cibi, se sarà fedele a ciò che è, ossia se sarà salato come il sale deve essere. Altrimenti, se perdesse il sapore, non servirà più a nulla, non potrà svolgere più alcun servizio per gli uomini. Partire, andare, annunziare sono dunque movimenti che devono essere sempre nutriti da un ritornare in se stessi e a Dio, un rimanere nel cuore a cuore con Gesù, un ascolto orante della sua Parola per la propria conversione. Insomma, essere a servizio della conversione degli altri implica lavorare anzitutto su se stessi, “perché non succeda, come temeva Paolo, che dopo aver predicato agli altri io stesso venga squalificato.” (1 Cor 9,27)

 

Domenica 9 Giugno 2013 – X settimana tempo ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ

 

Il vangelo di Luca che ci accompagnerà nelle domeniche di quest’anno è chiamato anche il vangelo della misericordia perché Luca riporta dei brani, unici rispetto agli altri evangelisti, che rivelano un volto particolare del Signore: la sua profonda compassione per la sofferenza dell’uomo, fisica e spirituale. Pensiamo per esempio alla parabola del buon samaritano o a quella del Padre misericordioso. Anche oggi ci troviamo di fronte a uno di questi testi che appartengono alla collezione di Luca e che rivelano qualcosa non solo dell’opera di Gesù tra la gente, ma anche dei sentimenti che vive Gesù stesso, ciò che alberga nel suo cuore.

 

La compassione di Gesù è il cuore del vangelo di oggi perché da questo movimento interiore dell’animo di Cristo si sprigiona una forza capace di trasformare la morte in vita e il lutto in gioia e timore di Dio. La cosa particolare e che potrebbe anche apparire strana è che l’attenzione principale di Gesù non è tanto rivolta al giovane defunto, quanto piuttosto alla tristezza della donna. Il testo dice che Gesù vede la donna, fu preso da grande compassione per lei e parlò con lei. Gesù è attirato e commosso dal pianto della donna più che dal morto in sé, e la cosa non è priva di significato. Come dice un salmo: il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito, egli salva gli spiriti affranti.

 

La disperazione della donna è inoltre aggravata dalla sua condizione di vedovanza. Suo figlio era tutto per lei, il bene più grande della sua esistenza, il ricordo vivente della comunione nuziale con il suo sposo di cui questo figlio defunto era come uno specchio, ne perpetuava il nome e la discendenza. Nel figlio lei ritrovava il volto e il ricordo del suo felice passato con il suo sposo, il frutto vivente del loro amore. Davvero ora tutto è finito, passato, presente e futuro. La morte che aveva inghiottito suo marito ora tirava nel baratro non solo il matrimonio della donna ma anche il loro comune tesoro, il figlio unigenito, il futuro della famiglia, la possibilità di vedere nuova vita all’orizzonte.

 

Di fronte a questa situazione di totale non speranza, una non speranza umanamente ben fondata, cioè con validissimi e ragionevolissimi motivi per non sperare, l’abbiamo ascoltato, Gesù compie il suo miracolo. Ma prima di questo, cioè quando ancora nulla era cambiato in questa situazione di lutto, Gesù dice alla donna: “Non piangere!”. Non è che prima salva il figlio e poi le dice così; no, abbiamo esattamente l’opposto! La donna è invitata a interrompere il pianto quando ancora non sa cosa Gesù stia per fare e forse neanche sa chi sia Gesù. Questa inversione si tratta forse di un errore letterario dell’evangelista Luca? No! In essa è visibile la nostra situazione di uomini in cammino tra la risurrezione di Gesù e la risurrezione nostra e dei nostri cari: non abbiamo visto né l’una né l’altra risurrezione eppure una parola di salvezza ci raggiunge, una buona novella di speranza rende il buio meno temibile: “Non piangere!”. Il fotogramma di questa scena potrebbe avere l’ampiezza e la durata di tutti i lunghissimi secoli che separano la risurrezione di Cristo dalla risurrezione universale alla fine dei tempi. In questa scena siamo presenti tutti noi, tutti coloro che ci hanno preceduto e che ci seguiranno. Non abbiamo altro che una parola, un messaggio di speranza, accompagnato dalla testimonianza di coloro che hanno visto Gesù vivo e ce l’hanno trasmesso.

 

E anche un contatto, Gesù che tocca la bara, un contatto immagine dei sacramenti, il contatto del Vivente con le morti che sperimentiamo nel nostro tempo, e soprattutto con quell’interrogativo scandaloso ed inquietante che vuole uccidere del tutto la speranza: che senso ha vivere in un mondo fatto così? Che senso ha vivere una vita che non ha senso, e dove neanche il morire ha senso, dove si muore per un nulla e dove sembra non esserci giustizia?

Gesù risponde a questo con la Sua compassione, il Suo soffrire con noi. Accanto a questo invito a non piangere c’è la presenza compassionevole di Gesù che ci è vicino. La Sua non è una parola vuota; non è una promessa utopica quella che ci rivolge, ma è invito ad aprire gli occhi del cuore e vederlo in mezzo a noi, operante nella nostra vita. “Quando si dice che Cristo con la sua missione tocca il male alle sue stesse radici, noi abbiamo in mente – affermò il beato Giovanni Paolo II – non solo il male e la sofferenza definitiva, escatologica, ma anche – almeno indirettamente – il male e la sofferenza nella loro dimensione temporale e storica.” (Salvifici Doloris 15).

 

La compassione di Gesù infatti non è semplice parola e presenza di conforto ma è vera compartecipazione. Quanto umanamente non avrebbe senso acquista valore non in sé ma perché l’ha vissuto Gesù che non salva semplicemente con la parola ma salva e guarisce prendendo su di sé, facendo suo quanto uccide la vita. Quanto Gesù vivrà sulla Croce in modo cruento non è altro che il compimento visibile di quella compassione e compartecipazione che già viveva nel Suo cuore e nelle Sue azioni. La Croce altro non è che l’apice, l’esperienza più piena di questa compassione che, a questo punto, non è più solo salvezza per un defunto, come il morto del vangelo di oggi, ma diventa redenzione e guarigione di tutto il genere umano.

 

La nostra speranza allora non è una speranza campata per aria, ma ben ancorata alla terra, a quel sacrificio violento che Cristo ha subito per noi nella carne, e grazie al quale sappiamo che la tomba sarà non il luogo della nostra fine e della fine di tutto, madel nuovo inizio, l’ingresso nella vita piena e definitiva di cui già fin d’ora possiamo essere partecipi e testimoni.

 

sabato 8 Giugno 2013 – Cuore immacolato di Maria - fr. Giovanni-Battista FMJ


All’indomani della solennità del sacratissimo cuore di Gesù la liturgia presenta alla nostra preghiera e alla nostra meditazione la Beata Vergine Maria.

La figura di Maria, lo sappiamo, può essere contemplata sotto diversi aspetti e, sia il dogma sia la pietà mariana hanno evidenziato quanto singolare ed altissima sia la figura di Maria, sia in se stessa, sia in relazione al Figlio Suo, sia in relazione alla Chiesa, il popolo di Dio in cammino con Maria. Il vangelo e la memoria di oggi si concentrano più specialmente sul cuore immacolato di Maria, un cuore che, secondo il brano evangelico che abbiamo ascoltato, custodiva ogni parola ed ogni evento relativo a Gesù. Il cuore di Maria è dunque un cuore che custodisce.

 

Di fronte a tale verbo custodire, che traduce quanto per Maria era esperienza quotidiana e concreta, prima di farne una lettura puramente spirituale o morale dobbiamo chiederci: qual è l’origine di tale atteggiamento, di tale habitus custodente di Maria? Davanti a tale interrogativo non possiamo non pensare alla speciale gravidanza che Maria ha vissuto in cui ha dato vita, ha portato, ha fisicamente custodito il suo Figlio Gesù. Questi nove mesi ricchi di mistero non sono certo stati unicamente un momento transitorio, seppur grandioso e pieno di trepidante attesa della nascita del Figlio di Dio. Maria, in questi mesi impara dalla sua vita, dal suo corpo, dal suo essere Madre, l’arte del custodire! Tale contatto fisico e materno di fecondità e di custodia che Maria vive nei confronti della Parola eterna, marcherà indelebilmente tutto il futuro di questa giovane donna. Sarà per lei un insegnamento che segnerà tutta la sua vita, un’esperienza che diverrà vocazione e sequela del Suo Figlio a beneficio ed esempio di noi tutti credenti che con grande affetto poniamo sulle nostre labbra lo stesso appellativo di mamma con cui la chiamava Gesù. E la mamma sa, più di chiunque altro, custodire con amore i suoi figli.

 

Maria lo farà dal giorno dell’annunciazione al Golgota stando ai piedi della Croce. E da lì ancora, perseverante in preghiera nel cenacolo con gli apostoli, l’embrione della Chiesa: laddove nasce qualcosa che proviene da Dio Maria è presente con il suo affetto, con la sua custodia, con il suo amore di Madre che non toglie niente al primato del Figlio ma che ci orienta, ci precede all’incontro con Gesù.

 

In Maria la densità di questo verbo custodire non è dunque unicamente di tipo spirituale. Anzi prima che evento della coscienza, del cuore e dei pensieri è evento della sua vita e del suo corpo. Se il fulcro della solennità di ieri era l’Incarnazione del Figlio di Dio, la memoria di oggi si fonda ancora sul medesimo mistero. Maria dentro di sé ha sentito battere quel sacratissimo cuore di Gesù che ieri abbiamo adorato e tale ritmo d’amore non solo l’ha accompagnata nel suo cammino di madre e sposa ma l’ha plasmata e la guidata nella fedeltà discepolare al suo Figlio e suo Dio. Per Maria, ormai, custodire la Parola nel suo cuore e custodire la Parola fatta carne era la stessa cosa. Le vicende della sua vita quotidiana la rimandavano a quell’esperienza fisica ed interiore. Maria sapeva ormai considerarle nel loro spessore trascendente, nella loro densità parlante, nel loro valore paradigmatico e normativo per la vita sua e di noi credenti che ci mettiamo alla scuola e alla sequela di Gesù per diventare altri Cristi nel nostro mondo di oggi.

 

Tale movimento dalla distrazione delle “cose da fare” al raccoglimento in Cristo, dalla dispersione all’unità è un cammino che anche Maria ha percorso divenendo per noi Madre e Maestra di fecondità e di custodia, vocazione che anche noi possiamo coltivare nella misura in cui vogliamo stare a contatto, come Maria, con Gesù. Senza tale contatto vivo, prolungato e anche fisico, in senso liturgico e sacramentale, non sapremo passare dal quotidiano all’eterno, dall’apparenza delle cose e delle relazioni al loro nucleo più profondo e più vero, dall’incontro con un fratello al riconoscere in Lui la presenza di Gesù; e nemmeno, di conseguenza, dal cuore della città al cuore di Dio. Maria, porta del cielo, ci insegna ad andare oltre, a trascendere noi stessi, a immergerci in un mistero tanto al di là di noi quanto dentro di noi, quel segreto del re che è la vita e l’opera di Cristo in noi.

 

giovedì 6 Giugno 2013 – Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù – fr. Giovanni Battista FMJ

 

La solennità del sacratissimo cuore di Gesù è una festa molto cara alla tradizione cattolica, non semplicemente per delle ragioni di pietà e di devozione, ma soprattutto per le profonde radici che stabiliscono questo culto nel mistero dell’incarnazione del Verbo divino, dell’opera da lui compiuta per la nostra redenzione e del suo immenso amore per noi.

 

Il cuore di Gesù è più che un segno dell’amore di Dio, non ha per noi solo un valore simbolico dell’amore di Dio. L’adorazione del cuore di Gesù nasce dalla testimonianza che Dio in Cristo, in quanto vero Dio e vero uomo, non ci ha amati solo spiritualmente, in modo soprannaturale e trascendente, ma soprattutto in modo squisitamente umano, con tutto l’affetto, la tenerezza e anche la sofferenza di cui è capace un cuore veramente umano. Anzi, addirittura potremmo dire che il cuore di Gesù traduce in battiti ed in vibrazioni umane, esprime al ritmo delle emozioni e dei sentimenti umani, l’amore stesso della Trinità. Volendo renderci partecipi della sua vita, farci conoscere davvero il dono di Dio, il Dio inaccessibile non solo parla la nostra lingua, si rivela in gesti e parole, assume la nostra natura, ma anche ama come noi, ci raggiunge con una benevolenza comprensibile per l’uomo. Non solo in Cristo l’abisso che separava l’uomo da Dio è stato colmato quanto alla natura, ma anche quanto all’amore e della santità. In Cristo Dio e l’uomo trovano riconciliazione e il suo cuore è il luogo intimo di questa riconciliazione da cui da un lato si sprigiona l’amore di Dio per l’uomo e dall’altro sgorga la lode perfetta, il culto e il sacrificio davvero graditi al Padre.

 

Talvolta pensiamo all’amore di Dio come qualcosa di intangibile, impalpabile, tutta estasi e spirito. La festa del sacro Cuore di Gesù ci ricorda invece quanto è umano, perfettamente umano, il modo di amare di Dio. E quanto allora dev’essere umano e ricco di affetto e sentimento anche il nostro modo di amare. Gesù, per convincerci che Dio ci ha amati ce l’ha manifestato, ce l’ha fatto vedere, non si è limitato a parlare per mezzo dei profeti, ma ha voluto venire lui stesso a dircelo e provarcelo. Addirittura san Paolo nella seconda lettura dice che “Dio dimostra il suo amore per noi”, facendo un'operazione quasi scientifica per strappare all’opinabile ciò che è una certezza, una verità di cui non si può più dubitare. E la prova di questo amore è la morte di Cristo, ossia il tentativo dell’uomo di soffocare quest’amore, di arrestare il battito del cuore del nostro Salvatore uccidendolo sulla Croce e trafiggendolo con la lancia. Siamo stati in grado di fermare il battito del cuore di Dio! Ma forte come la morte e più della morte è l’amore e quel cuore ha ripreso vita e continua a battere tuttora ed in eterno.

 

La logica dell’incarnazione, della visibilità in carne umana del mistero di Dio e di tutto ciò che Dio in Cristo ha fatto per noi, rimane il criterio fondamentale dell’amore cristiano, un amore che passa necessariamente attraverso la nostra umanità e attraverso di essa deve esprimersi ed irradiarsi. Per questo qualcuno ha detto che ciò che è autenticamente umano è già anche cristiano. E similmente san Giovanni ci esorta: fratelli, non amiamo a parole o con la lingua, ma nei fatti (cioè in modo concreto, visibile e umano) e nella verità (cioè come ci ha amati Cristo). Ciascuno di noi in fondo sa che crede all’amore di una persona solo quando lo vede realmente in atto, altrimenti non si convincerà mai e ne resterà sempre dubbioso. Il nostro amore, se c’è, si deve vedere, come si è reso visibile quello di Gesù per noi e per il Padre. Finché quest’amore, che è stato riversato sacramentalmente nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, non plasmerà le nostre azioni, non diverrà carne e sangue nella nostra vita, saremo forse dei maestri, ma non dei testimoni dell’amore divino e umano di Gesù.

 

Domenica 2 Giugno 2013 – Solennità del Corpus Domini – Chiesa Trinità dei Monti – Roma - fr. Giovanni-Battista FMJ


 

Il vangelo che ci è proposto per la celebrazione di questa solennità del Corpus Domini ci fa entrare nella meditazione ed adorazione del Santissimo Corpo e Sangue del Signore Gesù da una prospettiva che valorizza e mette in luce il rapporto dell’Eucaristia con ciò che la Chiesa è e ciò che la Chiesa fa. Cioè il rapporto che c’è tra la vita di Gesù e la vita della Chiesa, che è il Suo corpo.

 

Sappiamo che tra Eucaristia e Chiesa esiste un legame vitale e fortissimo, così vitale che è stato affermato che l’Eucaristia è fonte e culmine della vita della Chiesa, cioè ciò da cui la Chiesa nasce e ciò in cui la Chiesa manifesta nel suo più alto grado ciò che è. Tanto che possiamo affermare che la vita della Chiesa è una vita eucaristica cioè nasce da Cristo e si compie in Cristo. Addirittura il beato Giovanni Paolo II affermò che la Chiesa “vive dell’Eucaristia”, precisando che “questa verità non esprime soltanto un’esperienza quotidiana di fede, ma racchiude in sintesi il nucleo del mistero della Chiesa” (Ecclesia de Eucharìstia § 1). Cosa significa questo nel concreto? Cerchiamo di capirlo a partire dal Vangelo di oggi dal quale si sprigionano alcuni spiragli di luce che rivelano un pochino come la vita di Cristo penetri nella vita della Chiesa.

 

Gesù è in mezzo alle folle, con esse parla del regno di Dio e compie guarigioni per quanti avevano bisogno di cure. Ora, Gesù non fa tutto da solo, ma è circondato da dei discepoli da lui stesso chiamati perché stiano con lui e anche per mandarli, cioè per essere una sorta di vaso comunicante tra Lui e tutti i destinatari della sua opera. Per cui si tratta di un’opera di Cristo che diviene opera comunitaria, un’opera che potremo già chiamare ecclesiale, della Chiesa, che ha come pilastro e come centro il Signore stesso che giunge alla folla attraverso la collaborazione e il servizio dei discepoli. Gesù dunque giunge alle folle non semplicemente in modo diretto ma anche attraverso l’opera dei Dodici; chi vedeva loro poteva affermare di vedere Gesù perché da loro riceveva ciò che Gesù aveva donato.

 

Un secondo ed importante aspetto che emerge dal vangelo di oggi è che Gesù, nel cuore di queste folle bisognose di aiuto, non svolge semplicemente un servizio, non si limita a compiere una prestazione, ma si fa interamente carico di tutti i problemi di questa gente e di tutte le loro persone. E se i Dodici ragionano ancora nell’ottica della prestazione – abbiamo fatto ciò dovevamo fare, ora Signore rimandali a casa loro, vadano da sé a cercarsi vitto ed alloggio – Gesù rende partecipi del suo amore e della sua cura totale delle folle i Dodici: “Voi stessi date loro da mangiare!” In altre parole: voi siete responsabili, insieme a me, della vita di questa gente.

 

Approfondendo ulteriormente l’opera che Gesù svolge per le folle insieme ai suoi discepoli giungiamo al cuore stesso della solennità di oggi. Gesù dona pane e pesce, ma questi doni nel brano di oggi, rimandano a un dono ben superiore, il dono che Gesù farà di se stesso nel sacrificio della Croce, quel dono che rimarrà sempre vivo ed attuale nella Chiesa nel sacramento dell’Eucaristia. Gesù allora non dona qualcosa, Gesù dona se stesso! E in tale dono di sé, ancora una volta, coinvolge i Dodici, l’embrione della Chiesa, perché consegnino il poco che sono e il poco che hanno, cinque pani e due pesci, perché venga moltiplicato da Gesù. O meglio, non moltiplicato, perché non si tratta di una moltiplicazione. Ma perché venga spezzato e condiviso da Gesù per tutti. I cinque pani e i due pesci rimarranno sempre cinque pani e due pesci, ma sufficienti e abbondanti per tutti.

 

Da questi tre passaggi: Gesù che non giunge da solo alle folle ma coinvolge nella sua opera i Dodici; Gesù che non offre un semplicemente un servizio ma si prende carico interamente della vita della gente, e fa entrare gli apostoli stessi in questa sua responsabilità totale; e infine Gesù che non dona semplicemente qualcosa ma dona se stesso e unisce a questo dono di se stessi anche i discepoli; in questi tre passaggi che ci ricordano quanto Papa Francesco ha sottolineato giovedì sera (sequela, comunione, comunione) vediamo come la vita della Chiesa sia una vita Eucaristica, cioè non sia una vita a se stante ma lo scorrere in essa della vita di Cristo che si dona. Una vita che può essere nutrimento per tutti, può saziare, se è una vita donata, come l’Eucaristia che non è una presenza qualsiasi di Cristo ma è Cristo in uno stato di sacrificio, di immolazione, di dono di sé.

 

Celebrare la solennità del Corpus Domini più che festeggiare un sacramento, quello dell’Eucaristia, come se fosse un trofeo da osannare o una coccarda da mettere in mostra, significa lasciarsi inondare, plasmare e convertire dalla vita di Cristo che diviene la nostra vita. E ciò comporta, di conseguenza, il prendere parte al sacrificio di Gesù mediante l’offerta della nostra vita a Dio per gli altri. Solo una vita spezzata diventa nutrimento, come lo furono i pochi pani e pesci per una folla intera, come ci esorta anche il nostro Libro di Vita: “C’è l’amore che riceve, l’amore che condivide, l’amore che dona, l’amore che si dona e infine l’amore che si immola. Monaco e monaca, Dio ti aspetta a questa meta” (Libro di Vita § 5)

 

Sia questo il nostro modo di celebrare e adorare in verità, oggi e sempre, il Santissimo Sacramento del Corpo e Sangue di Cristo.


 

Dans l’Evangile d’aujourd’hui Jésus nourrit la foule: Il lui donne le pain de la parole, lui offre la guérison, la supporte d’une nourriture offerte par les disciples mais qui, en même temps, a une origine miraculeuse. Jésus est capable de percevoir notre faim de vie, notre soif de bonheur et de sens, notre désir de vivre en plénitude. Le lieu désert et le jour qui va vers sa fin sont symbole de notre solitude et des ténèbres du pêché qui cherche à nous vaincre. Les disciples proposent à Jésus de renvoyer la foule: qu’ils aillent ailleurs, qu’ils se débrouille eux-mêmes. Jésus change la perspective en exhortant les Douze : qu’ils se chargent eux-mêmes, qu’ils se sentent responsables de ces gens : Vous-mêmes, donnez leur à manger ! Avec moi vous pouvez nourrir ceux qui ont faim !

 

Mais il y a une faim plus radicale, il y a un vide plus difficile à combler que celui notre ventre. C’est le désert de l’âme que seul Jésus peut irriguer et transformer en oasis. Combien de fois nous aussi comme les apôtres, face à ce vide qui est en nous, nous ne savons pas quoi faire ou nous ne nous adressons pas a Jésus mais nous nous occupons d’autres choses ou bien nous allons vers d’autres personnes pour combler notre vide. Et ce faisant on charge ces derniers d’une responsabilité excessive : combler cette soif qui est en nous, nous donner une plénitude qu’ils ne peuvent pas nous donner!

 

En cette fête du Corps et Sang du Christ nous voulons reconnaitre que seul Jésus peut rassasier en abondance notre faim de bonheur et de vie, et il ne le fait pas en nous donnant quelque chose mais en se donnant lui-même.

 

sabato 1° Giugno 2013 – VIII Settimana tempo ordinario – San Giustino - fr. Giovanni-Battista FMJ


 

Gesù entra a Gerusalemme acclamato da tutti e compie due segni. Il primo, visto solo dai suoi discepoli, è la maledizione del fico dalle molte foglie ma privo di frutti, un segno che rivela, ancora una volta, l’efficacia della parola di Gesù, una Parola che realizza ciò che esprime o comanda. E poi il famoso e pubblico segno messianico nel tempio, con l’allontanamento da esso dei cambiamonete e dei commercianti che trasformavano la casa di preghiera in una spelonca di ladri.

 

Di fronte a tale gesto i capi dei sacerdoti e gli scribi, ossia le più alte autorità religiose di Gerusalemme, decidono di fare morire Gesù e con ostilità lo interrogano: “Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l’autorità di farle?”. Si tratta dunque di un problema di autorità. Essi, che erano i capi della religione, non avevano concesso alcuna autorizzazione a Gesù che, agendo così, metteva in discussione la loro autorità. Perché egli si comporta così? E soprattutto chi è Gesù?

 

Ma Gesù si rende conto che, da parte dei suoi interlocutori non c’è un vero desiderio di conoscere e svela tale loro attitudine ambigua, attaccata più al loro potere che alla verità delle cose, dall’ipocrisia della loro risposta alla sua domanda sull’origine del battesimo di Giovanni: “Non lo sappiamo”. Di fronte a tale doppiezza, di fronte a tale rifiuto di prendere posizione, Gesù non risponde. Pur di non rinunciare a qualcosa di se stessi costoro rinunciano alla verità. Pensando che fosse il loro potere a renderli liberi, rinunciano alla libertà che viene dal vero.

 

Si tratta proprio dell’atteggiamento opposto a quello che vivrà San Giustino, di cui oggi facciamo memoria, che subirà la decapitazione nel secondo secolo proprio per la sua libertà nel proclamare il Vero. Egli non si nascose dietro un comodo “non sappiamo” ma onesto con se stesso, prima che con gli altri, si fece annunziatore del Vangelo a Roma dove fondò una scuola nella quale iniziava gratuitamente gli allievi alla religione cristiana.

 

Il suo cammino di conversione e di scoperta del Vangelo è estremamente affascinante. Egli aveva attraversato varie scuole di pensiero, varie filosofie della tradizione greca, e capendo che l’uomo era incapace, con le sole sue forze, di soddisfare l’aspirazione al divino che porta nel cuore, approdò alla fede cristiana. Di fronte alla Verità fatta carne, Gesù di Nazareth, il Cristo, Giustino si rese conto di aver scoperto la vera filosofia.

 

Tuttavia egli non spense la sua sete di verità, il suo onesto desiderio di conoscere; anzi, prosegui la sua opera di ricerca. In lui la fede cristiana era una fede aperta, inclusiva, disponibile a riconoscere il vero ovunque si trovasse e a chiunque appartenesse. Infatti tale onestà della sua ricerca, che già l’aveva condotto ad incontrare Gesù, gli diede anche uno sguardo positivo e capace di valorizzare tutto quanto di vero e di buono c’era nella fede ebraica e anche nelle filosofie greche che aveva conosciuto. Con questa metodologia, che più che una tecnica di conoscenza era una passione per Cristo, Giustino riconobbe che “se l’Antico Testamento tende a Cristo come la figura orienta verso la realtà significata, la filosofia greca mira anch’essa a Cristo e al Vangelo…e diceva che queste due realtà, l’Antico testamento e la filosofia greca, sono come le due strade che guidano a Cristo, al Logos”. (Catechesi del papa del 21 Marzo 2007)

 

Così Giustino abbracciò la fede cristiana senza fare di essa un bastione, un ostacolo all’incontro col pensiero degli altri, pur evitando le ambiguità a cui potrebbe portare una falsa apertura.

 

La testimonianza di San Giustino e la contro testimonianza di capi dei sacerdoti, scribi e anziani del vangelo di oggi ci rivelano non solo due modalità opposte di conoscenza, ma anche i due frutti opposti che nascono da esse: il dare la vita per la Verità, e il togliere la vita contro la Verità. Il discepolo di Cristo, come Giustino, sceglie la prima via, che coincide del resto con la via dell’amore, accettando di venire allo scoperto e anche di essere contraddetto e corretto pur di essere nella luce.


Chiediamo a san Giustino, questo amico che oggi ricordiamo e preghiamo, di aiutarci con la sua intercessione a rinunciare a noi stessi per essere discepoli della Verità anche e soprattutto quando questo ci costa o ci fa fare brutta figura con gli altri.

 

mercoledì 29 Maggio 2013 – VIII Settimana tempo ordinario – fr. Giovanni-Battista FMJ


 

Il gruppo di discepoli che segue Gesù che li precede verso Gerusalemme è attraversato da sentimenti di inquietudine e di sgomento. Essi iniziano a rendersi conto che questa salita a Gerusalemme non sarebbe stata all'insegna del trionfo. Il loro Maestro e Signore cammina con decisione davanti a loro e, con le sue parole e il suo esempio, sta plasmando in loro un modo tutto nuovo di guardare a lui, alla sua persona e, soprattutto, alla sua missione come Messia, colui che doveva liberare il popolo di Israele.

 

Gesù, da parte sua, di fronte al timore che sorge nel cuore di chi lo segue non cerca di presentare in modo più roseo, più appetibile, il futuro che l’attende. No, Gesù non costruisce su un’apparenza fasulla, non riveste di un immagine brillante di luce umana, la volontà del Padre, quel calice che lui dovrà bere fino in fondo, pur pregando a Getsemani che gli venisse risparmiato. Gesù non inganna nessuno, anzi, mette in guardia per bene i suoi discepoli su quanto sarebbe accaduto di lì a poco: condanna a morte, consegna prima alle autorità giudaiche e poi ai pagani, derisione, flagellazione, uccisione e risurrezione.

 

Di fronte a tale prospettiva, di futuro incerto, di garanzie umanamente poco sostenibili, anche perché l’unico barlume di speranza che Gesù mostrava nel suo discorso era la sua risurrezione, cosa ben più difficile da credere e da attendere delle persecuzioni, due apostoli non resistono a tale insicurezza futura. Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, avevano lasciato il lago di Tiberiade, la famiglia e l’attività di pescatori che svolgevano con il loro padre per venire dietro a Gesù, accogliendo la sua chiamata. Pensavano forse di sistemarsi, o meglio, di fare un salto di qualità rispetto alla vita che facevano prima. E tale speranza era certamente sostenuta e favorita dai miracoli e dalle opere prodigiose che Gesù faceva, e con passo entusiasta avevano seguito il loro Maestro. Ora, dai discorsi di Gesù, le certezze di assicurarsi un futuro iniziano a incrinarsi e i due fratelli vogliono parlare chiaro con Gesù. Hanno un ideale e lo manifestano a Gesù: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra.” Gesù non si sdegna con i due per questa richiesta, a differenza degli altri dieci apostoli, pur avendo più diritto degli altri a farlo, ma da una risposta che cerca di convertire l’ideale dei figli di Zebedeo in risposta ad una chiamata, da costruzione di un proprio progetto ad adesione al progetto di un Altro: “Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato.”

 

Gesù invita i due fratelli alla sequela punto e basta, come offerta di sé, come partecipazione al calice e al battesimo di Cristo stesso. Che grazia immensa è già per loro poter imitare il loro Maestro! Ma Gesù evita di concludere con loro un contratto di dare e avere: voi fate questo per me e io vi assicuro un posto alla mia destra o sinistra. Essi, che già camminano al fianco di Gesù e già fanno parte di quei Dodici intimi discepoli costituiti perché stessero con Lui, non si rendono conto che è nel dare la vita che Cristo compirà sulla Croce che si manifesterà la vera gloria prima che nel regnare. Se non riusciranno ad entrare in questa logica di servizio, di dono di sé non potranno nemmeno accedere ai troni del nuovo regno atteso. Gesù non rifiuta la ricompensa a Giacomo e a Giovanni, ma vuole aprire i loro occhi perché vedano che la ricompensa è già in mezzo a loro, è Gesù stesso, e la grazia di essere chiamati a seguirlo, a vivere insieme a Lui e come Lui.

 

Se non si riesce a cogliere l’Eterno che già è presente nella nostra vita, la guida e la riempie già fin d’ora di quel senso e di quella pienezza a cui aneliamo, saremo sempre insoddisfatti, con un occhio nostalgico rivolto al passato, alle cipolle e alle rape che mangiavamo nell’Egitto che abbiamo abbandonato, e l’altro ambizioso in continua ricerca di ciò che nemmeno noi sappiamo bene. Nostalgia e ambizione ci allontaneranno allora dalla vera gloria del servo, del discepolo, quella che già ci è consegnata se vogliamo: l’onore e la gioia di poter offrire le nostre povere vite al servizio di Dio e dei fratelli.

 

martedì 28 Maggio 2013 – VIII Settimana tempo ordinario - fr. Giovanni-Battista FMJ

 

Nel Vangelo di ieri l’uomo ricco praticava tutti i comandamenti del Decalogo fin dalla giovinezza. Maestro, tutte queste cose le ho praticate fin dalla mia infanzia, cosa mi manca ancora, cosa devo aggiungere all’elenco delle mie osservanze per ereditare la vita eterna, la vita piena? L’uomo ricco, pieno di tanti beni, concepiva nell’ottica dell’accumulo anche la religione: il criterio con cui gestiva la propria ricchezza lo applicava anche alla fede. Gesù non rispose aggiungendo un altro comandamento alla lista, ma prima, dice il testo, lo amò, cioè rivolse a lui uno sguardo unico che lo valorizzava non per quanto aveva né per quanto faceva ma per quanto era agli occhi di Dio. E poi tradusse in parole tale sguardo d’amore: va', vendi tutto e seguimi, cioè spezza la logica dell’accumulo e cessa di metterti al centro della tua vita temporale e spirituale e inizia ad incamminarti ed ad entrare in una relazione d’amore, inizia ad essere discepolo. L’uomo ricco non accettò e si fece triste. Ricchezza e tristezza, un binomio purtroppo molto frequente ai nostri giorni. Tutto quanto possedeva e faceva l’aveva reso grande, più grande di un cammello che vuole passare per la cruna di un ago. Egli pensava che bastasse fare una serie di cose per essere perfetti, Gesù invece gli suggerisce l’ingresso in una relazione d’amore, in una sequela di discepolo.


L’argomento è quanto mai attuale oggi, tempo che nel supermercato delle religioni e delle filosofie di vita, non pochi scelgono la pratica spirituale che più soddisfa il loro benessere psico-fisico, che più li fa star bene e li perfeziona. In quest’ottica è eliminata ogni possibilità di discepolato e di sequela perché non sono più io a seguire e servire il Signore ma è Lui o qualcun'altro che deve sostenere me e lasciarsi guidare nelle vie della mia vita a beneficio del mio “star bene”. Per cui accanto alla palestra per curare il fisico, alla medico per curare il corpo e la mente, allo studio per farsi una cultura e prepararsi ad un lavoro, c’è anche lo spazio lasciato alla cura del proprio spirito. Tutto ruota intorno a se stessi, Dio incluso.

 

Gesù, nel Vangelo di oggi, inverte la prospettiva. Prima del ricevere egli propone il lasciare tutto.

 

Lasciare tutto è un movimento che non a tutti può essere richiesto allo stesso modo: una cosa è nel fedele laico, un’altra è nel religioso, differente ancora nel prete diocesano. Una cosa però è comune per tutti: lasciare tutto è orientato ad un ingresso: entrare nell’appartenenza a Dio, il solo ad avere uno sguardo autentico su noi stessi. Tale relazione con Gesù, che è relazione d’amore, tale incontro non può certo essere considerato uno dei tanti incontri della nostra vita; non può limitarsi ad essere, come dicevamo prima, l’ennesima attività a beneficio del nostro benessere, come non può limitarsi neppure ad un’esperienza culturale da aggiungere al nostro curriculum. L’incontro con Gesù è quell’incontro che cambia la nostra vita, è quella relazione cardine, suprema, prioritaria a cui tutto il resto deve subordinarsi, noi stessi inclusi.

 

Se il nostro cuore non accetta questo passaggio, questa intronizzazione di Dio al Suo interno e la conseguente relativizzazione del resto a Lui solo, il nostro cuore sarà sempre un cuore diviso, incapace di dire un sì totale al Signore. E il nostro volto scuro, come quello dell’uomo ricco di ieri.

 

Certo, una risposta radicale e totale al Signore non si improvvisa dall’oggi al domani, ci vuole tempo e pazienza verso se stessi; ma è importante mantenerne sempre vivo il desiderio e l’intenzione. Più che chiedersi: cosa posso fare per avere la vita eterna, la vita piena? forse la domanda più appropriata è: che cosa può fare Dio di me per farmi vivere pienamente? Perché è Dio che ci dona la vita in pienezza, se prima gliela doniamo, anche restituendoci cento volte tanto ciò che abbiamo lasciato, non più però come nostra conquista ma come eredità, come dono. Lo sentiremo allora, come il padre misericordioso della parabola, dirci: figlio, ciò che è mio è tuo! E tale condivisione totale e vitale con il nostro Signore ripagherà la fatica di ogni sacrificio.

 

Davvero, come dice il Siracide, il Signore è uno che ripaga, ne fanno esperienza coloro che si fidano.

 

Domenica 26 Maggio 2013 – Santissima Trinità – fr. Giovanni-Battista FMJ


Il tempo liturgico ha una sua profonda saggezza che intravediamo anche nel posizionare la solennità di oggi, quella della Santissima Trinità, esattamente dopo il compimento del mistero pasquale con la Pentecoste. La ragione di questa collocazione è dovuta al fatto che solo vedendo come Dio ha agito con l’uomo durante i secoli, e soprattutto nel vedere come la storia della salvezza è giunta alla pienezza dei tempi nella Pasqua del Figlio di Dio, è possibile dire qualcosa di Lui, è possibile conoscerlo in verità, una verità che non finiremo mai di scoprire e fare nostra.

 

Nell’Antico Testamento Dio aveva cominciato un dialogo appassionante con l’uomo, quel dialogo che chiamava l’uomo ad un’alleanza con Dio, ad una vita d’amore, a scoprire che Dio gli era vicino e gli prometteva una terra promessa dove scorrevano latte e miele, profezia terrena a sua volta segno di un’eternità beata sostanziata dalla presenza e dalla comunione piena con Dio. Quest’eternità beata Dio la consegnò all’uomo in pegno, come anticipazione dell’eredità piena e definitiva, con l’ingresso nel mondo del Figlio di Dio fatto uomo. Il cielo toccava la terra, l’eterno entrava nel tempo, e Dio si consegnava all’uomo per rivelargli pienamente chi egli era. E da ciò che Dio fece per l’uomo, l’uomo capì chi era Dio. Quel Dio che aveva già incontrato secoli addietro e che aveva già parlato per bocca dei profeti, ora poteva guardarlo in faccia, parlargli insieme, toccarlo, e vederlo morire sulla Croce per amore. Nella Pasqua di Gesù l’uomo scopriva il vero volto di Dio, e scopriva che Dio è Amore!

 

Dire: “Dio è amore” (1 Gv 4,8) non significa dire unicamente che Dio ci ama. Non è un’affermazione pragmatica, funzionale o indicante semplicemente il modo di Dio di relazionarsi all’esterno di se stesso, qualora in Dio si possa parlare di un dentro e di un fuori. Ma dire Dio è Amore significa anzitutto rivelarne l’identità profonda, la vita intrinseca. E siccome Dio non è ambiguo, ma è semplice, pur essendo trino, ciò che Lui fa rivela ciò che Lui è. Per usare un linguaggio rahneriano, l’economia di Dio nella storia dischiude all’immanenza in Dio, pur non esaurendola. Ciò che noi vediamo, sappiamo e conosciamo di Dio nella storia non è altro che la promanazione fuori di Lui di quanto vive dentro di Lui. E fuori di sé Dio si è rivelato come Amore.

 

Come Dio ama? È questa una domanda che ci può fare andare oltre nella nostra riflessione di oggi.

Gesù, il Figlio di Dio, ci ha amati dando la sua vita per noi, consegnando se stesso fino alla morte di Croce. Dunque Gesù, la pura e vera immagine del Padre, ama consegnando se stesso, un amore che abbraccia tutta l’umanità, che è capace di includere tutti gli uomini; è un amore che può far entrare tutti in esso perché è un amore che esce da se stesso, si consegna, è amore estatico. Tutta la vicenda terrena di Gesù è costituita da un succedersi di consegne: il Padre che lo ha consegnato per tutti noi, il Figlio che consegna se stesso, come riconosceva san Paolo con stupore: “mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Rm 8,32); prima Giuda che consegna Gesù ai sommi sacerdoti e poi Pilato che lo consegna perché fosse crocifisso. E perfino l’ultimo respiro di Gesù è una consegna, come annota Giovanni “E chinato il capo consegnò lo Spirito” (Gv 19,30b). L’uscita dal seno della Trinità del Figlio di Dio, la sua kenosi, non si arresta fino all’uscita del Cristo da se stesso con la morte.

 

Ma attenzione, Cristo in un passaggio del suo ultimo discorso prima di morire dirà una frase di estrema importanza: “Come il Padre ha amato me anche io ho amato voi.” “COME”! In altre parole, ciò che io faccio per voi, ossia consegnarmi a voi, darmi a voi, il Padre lo fa per me. Attraverso di me giunge a voi l’amore del Padre, l’amore che io vivo eternamente nel seno della Trinità: Chi vede me vede il Padre! E il Padre in me compie le sue opere!

 

Che sublime rivelazione per i nostri cuori e le nostre menti! L’amore estatico di Cristo rivela, irradia sulla terra l’amore estatico che scorre nel Dio trinitario, “amore col quale il Padre e il Figlio si uniscono nella persona dello Spirito Santo. [E] nel Padre e nel Figlio questo amore è uscito da se stesso fino a formare una nuova persona. È il dono più completo che possa esistere, nel quale la persona che ama rinuncia al possesso del proprio amore tanto vuol perdersi nell’altro. Estasi di amore, lo Spirito Santo è l’espressione del «perdersi» reciproco nella persona dell’amato” (Jean Galot, Il mistero della sofferenza di Dio, Cittadella Editore, Assisi, 1975, 160-161).

 

Nel Cristo crocifisso e risorto non solo siamo salvati ma ci è aperta una finestra sul cuore di Dio. Ora capiamo un po’ di più quello splendido passaggio della lettera agli Ebrei (1,3) in cui si dice che Cristo “è irradiazione della gloria di Dio e impronta della sua sostanza”. In Cristo si rivela a noi la gloria di Dio, la kavod di Dio, il suo valore pesante, quel peso che da soli non siamo in grado di portare senza la guida dello Spirito del Padre e del Figlio.

 

Maria portò in lei quel peso, il peso del cielo intero. Di lei poetò la Beata Elisabetta della Trinità:

 

Il suo cuore come un cristallo rifletteva il Divino,

l’Ospite che l’abitava, la Bellezza che non tramonta.

Maria attira il cielo ed ecco il Padre a lei

consegnerà il suo Verbo per esserne la Madre

e della sua ombra la copre lo Spirito d’amore.

A lei vengono i Tre, è tutto il cielo che s’apre

e fino a lei s’abbassa.”

(Dagli scritti, composizione poetica 78)

 

sabato 25 Maggio 2013 – VII Settimana tempo ordinario - fr. Giovanni-Battista FMJ
 

La parola di Gesù ci stupisce perché Gesù spesso non ci chiede cose difficili e complicate, ma cose estremamente semplici, così semplici che sarebbe più facile per un bambino compierle che per un adulto. La semplicità e la piccolezza spiazzano le grandi capacità degli uomini. Anche oggi si presenta questa situazione paradossale: per entrare nel regno di Dio bisogna accoglierlo come un bambino. Chi non accoglie non entrerà.

 

Il tema dell’infanzia è un tema molto caro a Gesù. Gesù predilige in modo speciale i bambini e rimprovera e si indigna verso i suoi discepoli quando ragionano troppo da adulti, pensando cioè che abbiano sempre qualcosa da insegnare ai bambini e invece, quanto alle cose di Dio, sono spesso i bambini ad essere maestri. I bambini sanno vivere con naturalezza, con spontaneità, delle dinamiche spirituali ed interiori che a noi richiedono invece costante esercizio. Una di queste è l’accoglienza: i bambini sono maestri di accoglienza. L’accoglienza del bambino è vera ed esemplare per noi perché i bambini accettano con serenità, anzi senza nemmeno pensarci troppo, di stare in una situazione di inferiorità, di debito, di dipendenza, ossia quella posizione che si viene a creare quando si riceve qualcosa da qualcuno sapendo di non essere in grado di restituire. L’adulto fatica a vivere in modo sereno questa dimensione. Pensiamo, a titolo di esempio, a quando qualcuno ci fa un regalo o ci rende un servizio. A meno che non si tratti di persone con le quali siamo abituate ad essere noi stessi, per esempio i nostri genitori o pochi amici fidati, persone con le quali non ci vergogniamo ad essere così come siamo, come i bambini, la nostra tendenza è talvolta, se non spesso, quella di voler subito riequilibrare lo squilibrio che si è creato. Per cui alla prima occasione propizia ci urge la necessità di rendere il favore, di fare a nostra volta un regalo, insomma di ristabilire l’equità perduta con il contraccambio. Talvolta risulta più difficile dire un grazie sincero che rendere il favore o un regalo ricevuto per non sentirsi in debito con nessuno. Umanamente, cioè da punto di vista di giustizia puramente umana, la cosa ci risulta pregevole e, in determinate situazioni, è effettivamente doveroso. Il problema è che insieme al debito che eliminiamo col nostro saldo, rischiamo di eliminare anche la gratitudine, per cui per non sentirsi in debito con nessuno rischiamo pure di non essere grati verso nessuno. Così ci sentiamo a posto con tutti. E forse anche verso Dio.

 

Ma nei confronti di Dio le cose potrebbero essere per noi più agevoli perché di fronte a Dio ci troviamo in un rapporto ontologico e morale perennemente ed insuperabilmente squilibrato, tanto che se non fosse stato Lui a venire a noi di Lui sapremmo pochissimo. Di fronte a Dio l’attitudine di accoglienza come un bambino non solo è la più appropriata ma è l’unica possibile! Di fronte alla grandezza di Dio e all’abisso che ci separa da Lui siamo piccoli e peccatori. Per quanto ricco fosse infatti il conto corrente dei nostri meriti e delle nostre buone azioni, non saremo mai in grado di rimborsarlo del tutto che ci ha donato, quel Tutto che è Lui stesso.

 

Una cosa però possiamo fare: accoglierLo come un bambino, e concedergli quel sorriso grato che egli attende da noi, per far sì che un po’ della gioia che egli ci dona ritorni a rallegrare il Suo cuore, felice di averci fatto felici.

 

giovedì 23 Maggio 2013 – VII Settimana tempo ordinario - fr. Giovanni-Battista FMJ

 

Gesù, nel vangelo di oggi, si rivolge a noi con parole estremamente dure che certo non ci lasciano indifferenti, anzi attirano fortemente la nostra attenzione.

 

Il tema affrontato da Gesù è quello dello scandalo, parola che oggi giorno, purtroppo, ha perso nel nostro linguaggio il suo significato originario e biblico. Oggi infatti lo scandalo va di pari passo con il pettegolezzo, con la chiacchiera e forse talvolta con quel sottile e nascosto piacere che tende ad insidiare il cuore dell’uomo quando vede gli altri cadere. Pensiamo per esempio a quando i mass media divulgano uno scandalo nella Chiesa: qualche volta, tra la gente, più che il dispiacere, la compassione e lo spirito di preghiera e di penitenza come riparazione del male avvenuto, albergano sentimenti differenti: di critica, di inimicizia, e magari anche, non di compiacimento, ma di velata e segreta soddisfazione per essere riusciti a trovare un nuovo alibi per non confrontarsi con la fede ed il Magistero della Chiesa e non mettersi in discussione.

 

Di fronte a queste deviazioni di significato e di reazione agli eventi di scandalo, è importante chiedersi: qual è il significato autentico della parola scandalo o del verbo scandalizzare nel vangelo di oggi?

 

Il sostantivo skàndalon, la cui radice significa scattare, (come di una molla) indicava originariamente il paletto della trappola per animali. Tale significato nella Bibbia acquisterà poi un’impronta propria e un significato traslato per esprimere un’occasione di perdizione oppure di peccato, un impedimento, un ostacolo e anche un motivo di infelicità. Ora, il brano di oggi menziona due direzioni dello scandalo, dell’essere occasione di perdizione: verso gli altri (chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me…) e verso se stessi (letteralmente: “Se la tua mano scandalizza te…se il tuo piede scandalizza te…ecc). Perciò il nostro atteggiamento può essere un occasione di peccato o di infelicità non solo per gli altri ma anche per noi stessi. E Gesù si sofferma più lungamente a discorrere su quest’ultima possibilità proponendo una soluzione certamente molto radicale e molto cruda che chiaramente va intesa in senso metaforico: tagliare e gettare via ciò che in noi causa lo scandalo, la caduta nostra.

 

Il linguaggio così duro di Gesù, anche se abbiamo capito che si tratta di una metafora, si spiega solo se si capisce il valore reale della posta in gioco che rischiamo di perdere: l’ingresso nella vita, ossia nella comunione con Dio. Questo è l’obbiettivo, il valore sommo che Gesù ci vuole procurare e custodire per noi. Una prospettiva così alta, così piena di senso e totalizzante per l’uomo che sarebbe perfino preferibile, sempre metaforicamente parlando, perdere una parte importante di noi stessi piuttosto che perdere questo bene supremo che il Signore ci promette. In noi ci può essere infatti qualcosa che impedisce questa comunione piena con Dio, qualcosa che potrebbe essere in sé anche buona, utile è importante come lo sono mano, piede e occhio che sono creati per noi dal Signore, e sono dunque doni che riceviamo da Dio vivere una vita piena, per essere strumenti di salvezza. Ma se noi trasformiamo questi doni in scandali, cioè in trappole, in ostacoli all’accesso a questa vita piena, tali doni diventano anti-doni a rovina nostra e degli altri. Per evitare questo, e per leggere fuor di metafora l’immagine dell’amputazione che Gesù ci propone, è necessario lasciare che i doni che il Signore ci fa conservino quell’orientamento verso la salvezza, verso l’ingresso nella vita che avevano in origine quando il Signore ce li ha consegnati. Un taglio ci sarà da fare dunque, ma non fisico, bensì spirituale e morale, ossia la rinuncia a trasformare questi doni di Dio e tutta la nostra vita in qualcosa che ci appartiene, in una nostra proprietà per lasciarli nella custodia del Signore. Al rischio di scandalo ci esponiamo quando di ciò che siamo e di ciò che abbiamo facciamo un uso da proprietari, per nostro piacere e vantaggio, non per il vantaggio degli altri e del Signore. Un po’ come Pietro che ragionando secondo gli uomini e non secondo Dio diventava di scandalo per Gesù.

 

Se la vita piena che ci è promessa è anche una vita donata, una vita a cui siamo generati da una forza altra da noi, dalla potenza dello Spirito Santo, possiamo e dobbiamo già fin d’ora cominciare a vivere così, ossia accogliendo la nostra vita come un dono da cui continuamente spossessarci, come la metafora del taglio vuole esprimere, perché non domini più il peccato sul nostro corpo mortale ma lo Spirito Santo, che farà delle nostre membra offerte a Dio strumenti di giustizia. (cfr Rm 6,12-13).

 

martedì 21 Maggio 2013 – VII settimana tempo ordinario - fr. Giovanni-Battista FMJ

 

Il vangelo di oggi ci presenta il gruppo dei Dodici che cammina con Gesù sulle strade della Galilea. Essi sono con il loro Maestro, camminano dietro di lui, ascoltano la sua parola, eppure qualcosa non va. Per due volte il Signore rivolge loro la parola, li esorta, l’interroga, ed essi tacciono e hanno paura di interrogarlo. Qualcosa tra di loro non va e hanno paura di presentare questo loro disagio al Signore, si vergognano di venire allo scoperto, di essere visti da Lui: “Essi tacevano – dice il testo – Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande”.

 

L’attenzione dei Dodici non era più rivolta al Signore, loro maestro e modello, e di conseguenza il loro aggregarsi, il loro fare gruppo, stava assumendo le caratteristiche di un qualsiasi gruppo umano in cui si apprezzano dei valori che non sono quelli del Vangelo. I Dodici ragionavano ancora più secondo la natura che secondo la grazia, più secondo il mondo che secondo Dio.

 

Il loro cammino dietro al Signore da cammino di sequela, da un “venire dietro” stava diventando una gara, una competizione, una corsa a chi arriva primo. San Paolo diceva che una gara sì ci dev’essere tra i discepoli di Cristo ma è una gara diversa: quella del gareggiare nello stimarsi a vicenda, del sottomettersi gli uni gli altri non avendo altro debito con nessuno se non quello di una carità sincera.

 

Inoltre i discorsi che i discepoli fanno non solo nuocciono alle loro vicendevoli relazioni fraterne, ma anche li rendono sordi e incapaci di comprendere cosa il Signore stava loro rivelando di se stesso. “Essi non capivano le parole di Gesù e avevano paura di interrogarlo.” D'altronde come si può pensare di comprendere le cose di Dio se si ragiona con una mentalità o in uno stile di vita i cui valori stanno esattamente agli antipodi di quelli del Vangelo?

 

Gesù capisce tutto questo ed esorta loro ad avere il coraggio della piccolezza: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”. In queste parole Gesù ribalta il loro punto di vista e capovolge la struttura che essi volevano dare alla loro comunità, ponendo anche in mezzo a loro il segno di un bambino, ossia qualcuno che tra gli adulti non vale niente. Ecco, proprio colui che non vale niente nelle precedenze umane, diventa immagine di Gesù tanto che chi accoglie questo bambino accoglie Lui stesso e perfino il Padre.

 

Per vivere tale piccolezza a cui Gesù ci richiama è necessaria una trasformazione interiore che comporta un cambio di mentalità, il coraggio di rompere con lo stile che ci portiamo dentro e che vige spesso attorno a noi. Un cambio di mentalità che accetti che lo sguardo di Dio penetri e plasmi il nostro modo di pensare e di vivere. Se capiremo che lo sguardo di Dio su di me e sugli altri è l’unico sguardo che ha realmente valore e che da realmente valore alle cose allora non ci interesserà più quello che pensano gli altri e neanche soffriremo se non abbiamo conquistato quel gradimento agli occhi della gente a cui spesso siamo tanto attaccati.

 

Dobbiamo rinnovare in noi ogni giorno la consapevolezza che quanto è grande importante e glorioso agli occhi del mondo di fronte a Dio non conta nulla. E viceversa ciò che il mondo minimizza, e che talvolta anche nasconde per vergogna, come per esempio la debolezza, la semplicità e perfino la dipendenza ed il servizio, di fronte a Dio è oggetto di stima da parte sua. Accettare questo significa anche accettare la lotta interiore che vive il servo del Signore, una specie di conflitto tra sacro e profano, tra l’essere davanti a Dio e l’essere per conto nostro, come ci premonisce il Siracide: “Figlio se ti presenti per servire il Signore ( ossia per essere il l’ultimo di tutti ed il servitore di tutti), preparati alla tentazione.”

 

Il bivio che ci è posto dinanzi è sempre Paolo che ce lo esplicita: “Se volessi piacere agli uomini non sarei più servitore di Cristo”. A noi ancora una volta è lasciata la possibilità di scegliere di quale dio vogliamo essere discepoli e, di conseguenza, che significato dare e come vivere le nostre relazioni con gli altri.

 

Domenica 19 Maggio 2013 – Pentecoste – fr. Giovanni-Battista FMJ


Il tempo pasquale si conclude, o meglio, giunge al suo compimento con la solennità della Pentecoste, come canta la liturgia nel prefazio di oggi: “Oggi hai portato a compimento il mistero pasquale”.

Cosa mancava al mistero pasquale di Cristo perché fino ad ora fosse ancora incompiuto? Non si compiva totalmente la salvezza del genere umano nella sola passione, morte e risurrezione di Cristo? La risposta è chiara: sì, è grazie al sangue di Cristo che siamo stati salvati e per cinquanta giorni abbiamo celebrato la Sua vittoria sulla morte. Ma bisogna affermare una cosa importante, ed è questo che la Chiesa oggi festeggia: è grazie allo Spirito Santo di cui oggi celebriamo la discesa sulla sua Chiesa, che la Pasqua di Cristo diventa anche la nostra Pasqua; è grazie allo Spirito Santo che le meraviglie compiute da Dio per noi diventano meraviglie compiute da Dio in noi; è grazie allo Spirito Santo che diventiamo figli di Dio perché entriamo con tutto il nostro essere nel mistero che ci rende figli nel Figlio. È per questo che Gesù, parlando dello Spirito che avrebbe mandato come Consolatore, diceva: “prenderà ciò che è mio e ve lo annunzierà”, e ancora nel vangelo di oggi: “vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” e potremmo aggiungere, “ciò che io vi ho fatto” nella mia Pasqua.

 

Insomma la venuta dello Spirito Santo è quell’evento che ci fa ereditare tutti i doni che Cristo ci ha procurato, in fin dei conti il dono della salvezza.

 

Ma per evitare che tale parola “salvezza” rimanga per noi qualcosa di astratto, oppure qualcosa che appartiene all’aldilà, alla vita dopo la morte, dunque ad un mondo che, potremmo dire, non ci appartiene ancora, tentiamo di capire cosa significhi che siamo salvati già fin d’ora. E possiamo esprimere questo dono che Cristo ci fa e che lo Spirito Santo ci consegna, lo fa entrare nella nostra vita, nei termini di una apertura: lo Spirito Santo ci apre a qualcosa a cui prima non avevamo pieno accesso. Tale apertura si compie su tre dimensioni, a tre livelli.

 

Anzitutto lo Spirito ci apre a Dio: se lo schiavo è qualcuno che non è libero ma che è prigioniero, che sta dunque al chiuso e che non sa quello che fa il suo padrone, lo Spirito Santo, come abbiamo ascoltato dalla bocca dell’apostolo Paolo, non è uno spirito da schiavi, ma è uno Spirito che ci apre alla relazione con Dio, ci permette di parlare con Dio, di rivolgergli la parola. Attenzione, non si parla qui di un dio in senso generico, il dio dei filosofi, una qualsiasi entità trascendente, un divino imprecisato, un totalmente altro di cui non si può dire nulla, ma un Dio che conosciamo e da cui siamo conosciuti a tal punto da poterci rivolgere a Lui come si rivolgeva Gesù: Abbà! Padre! Lo Spirito ci rende famigliari di Dio.

 

L’apostolo prosegue dicendo: “Lo Spirito stesso insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio.” È la seconda apertura che lo Spirito compie in noi: se ci rende famigliari di Dio, partecipi del mistero pasquale, di conseguenza lo Spirito ci apre a noi stessi, alla nostra vera identità, quella di figli di Dio. E tale nuova identità non è una semplice etichetta che ci viene appiccicata all’esterno ma è un’unanime affermazione che lo Spirito di Cristo compie insieme al nostro stesso spirito. Cioè lo Spirito raggiunge e trasforma il nostro spirito umano rendendolo capace di riconoscerci per quello che siamo davvero, ossia figli di Dio. Lo Spirito ci rivela la nostra autentica identità che ci consente di guardarci con occhi nuovi: non semplici e anonime creature ma figli di Dio. “E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria”. In altre parole, se lasciamo che la Pasqua di Cristo diventi anche la nostra Pasqua.

 

Infine, terza apertura con cui lo Spirito realizza in noi la salvezza di Cristo è quanto è più visibile nel miracolo della Pentecoste: una fiamma sola, si divide su persone diverse e “tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.” Lo Spirito Santo ci apre agli altri, ci rende capaci di relazionarci con l’altro, di parlare e conoscere l’altro; di più, di accogliere l’altro per quello che è: mio fratello, mio famigliare, qualcuno che sento parlare nella mia lingua nativa, come accadeva per chi sentiva parlare gli apostoli, ossia nella lingua con cui parla con me mia madre. Dunque tale apertura agli altri non è solo riconoscimento della diversità dell’altro, ma è farci scoprire che nell’altro c’è qualcosa che è anche in me e che ci accomuna, ci rende fratelli, ci rende simili pur essendo diversi. Ci rende uno pur essendo due, tre, quattro ecc. Questo qualcosa è lo Spirito che realizza la vera unità, che ci consente di passare da Babele a Pentecoste, perché costruisce un unità non più centrata sulla carne, su noi stessi, su categorie e punti vista terreni o soggettivi, ma è unità che ha come centro non l’uomo ma Dio. “Passare da Babele a Pentecoste significa, per usare un espressione di Tehillard de Chardin, «decentrarci da noi stessi e ricentrarci su Dio».” (Raniero Cantalamessa, Il mistero di Pentecoste, Ancora, Milano, 1998, 24)

 

Se queste tre aperture, a Dio, a noi stessi e agli altri, sono il dono di Cristo che si attua in noi per mezzo dello Spirito, invochiamo con tutto il nostro cuore lo Spirito Santo perche davvero nella nostra vita si compia oggi il mistero pasquale, si compia la Pasqua cioè il passaggio da Babele a Pentecoste, dall'uomo vecchio all'uomo nuovo.

 

venerdi 17 Maggio 2013 – VII settimana di Pasqua - fr. Giovanni-Battista FMJ


Il Vangelo di oggi vede protagonisti Gesù risorto e Pietro che, dopo aver mangiato insieme agli altri apostoli sul mare di Tiberiade, si ritirano in disparte per un dialogo più intimo e personale. I vangeli non ci dicono niente a questo riguardo ma forse si trattava per Pietro della prima volta in cui si trovava di fronte, da solo, al Signore Gesù, la prima volta in cui poteva rivolgergli la parola dopo il suo triplice rinnegamento.

 

Gesù non rimprovera Pietro, non gli dice: “Sei un traditore! Parlavi tanto di dare la vita per me e invece sei stato tra i primi ad abbondarmi.” Noi forse avremmo pensato: comunque un bel rimprovero o una parola forte se lo sarebbe meritato! Ma niente di tutto questo! Gesù non è nemmeno arrabbiato con Pietro. Anzi, gli offre Lui stesso, di Sua iniziativa, la possibilità di ridirgli il suo affetto, il suo amore, insomma la volontà di essere ancora un suo apostolo nonostante tutto: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”

 

A Gesù non interessa punire Pietro, non gli interessa fargli ripagare il male compiuto. A Gesù interessa l’amore di Pietro, la risposta di Pietro alla sua chiamata. Ed è in tale risposta di amore all’Amore che lo chiama che si risanerà la frattura intercorsa tra il discepolo e il suo Maestro.

Gesù dunque chiama Pietro, lo invita a seguirlo, gli affida una missione importante, non gli da l’etichetta del fallito perché non è stato capace di resistere allo scandalo di un Messia Crocifisso. Pietro è pienamente reintegrato nell’amicizia con Gesù grazie unicamente al suo sì all’amore di Gesù.

 

In tutto questo però Pietro impara una lezione, ed è questa. Pietro scopre che la sua vocazione, la sua chiamata a seguire Gesù, quella chiamata che sempre sulle rive del mare di Tiberiade aveva preso inizio tre anni prima, non cesserà mai di essere una chiamata, ossia non cesserà mai di avere come principio permanente, come forza trainante, la voce del Signore che lo chiama e che lo invia. Chi è chiamato dal Signore non è chiamato solo all’inizio ma è chiamato in modo permanente e il suo cammino è quello di rispondere ogni giorno a questa iniziativa di Dio che non cessa di avere il primato, di venire prima ad ogni presa di posizione dell’uomo. Potremmo dire che la chiamata di Dio è eternamente primordiale rispetto ad ogni risposta dell’uomo.

 

Pietro, capendo questo capisce che non è tanto lui, come persona, ad essere un fallito, ma che erano fallimentari i modi con cui lui aveva deciso di essere discepolo o apostolo del Signore. Ossia quei modi che invertivano i ruoli anteponendo la volontà e l’intraprendenza di Pietro alla chiamata e alla volontà del Signore. Pensiamo a quando Pietro verrà allontanato e rimproverato come un diavolo da Gesù e verrà esortato a porsi dietro di lui e non prima perché proponeva, di sua iniziativa, al Signore una via che non era quella di Dio. Oppure quando cercherà di far desistere Gesù dal lavargli i piedi, forse pensando che avrebbe dovuto essere lui a lavarglieli. Pensiamo ancora a quando, per quanto ammirabile potesse sembrare, Pietro dirà a Gesù alla vigilia della sua Passione: “Darò la mia vita per te!”(Gv 13,37), promessa che si rivelerà incapace di mantenere. È questo il Pietro che fallisce, il Pietro che prende in mano la sua vita e perfino la sua vocazione e dimentica che questa dev’essere permanentemente una risposta all’iniziativa e alla volontà del Signore e non viceversa.

 

Pietro riuscirà a capire questo e infatti all’orizzonte della sua vita Cristo Risorto gli indicherà con quale morte egli avrebbe glorificato Dio, una morte non tanto da eroe, cioè una morte che loda se stessa, ma da discepolo, da colui che viene portato dove vorrà qualcun altro.

 

Forse capita o è capitato anche a noi di prendere iniziative, di imboccare sentieri, di organizzare attività che, per quanto buone possono essere non sono ciò che il Signore ci chiede, portando magari anche dei pesi che nessuno, all’infuori di noi stessi, ci chiede di portare e trascurando magari il nostro vero dovere vocazionale. In questi momenti chiediamoci davvero: “Ma chi ce lo fa fare!?” e ricordiamoci che quanto facciamo non dev’essere altro che la traduzione in opere di una risposta d’amore al Signore che ci chiede, come a Pietro, “mi ami?”. Il nostro sì sarà allora un sì non alla nostra intraprendenza, non alla nostra creatività, per quanto buone e nemmeno all’idea di Dio che ci siamo fatti e a cui di conseguenza ci conformiamo, ma un sì alla volontà e per la gloria del Dio vivo e vero. Sarà solo allora che saremo davvero discepoli a servizio del Signore.

 

mercoledì 15 Maggio 2013 – Festa della Madonna di Montenero - fr. Giovanni Battista FMJ


Le letture di questo giorno in cui in tutta la Toscana si festeggia Maria, Madre delle Grazie, ci presentano due situazioni di attesa di una manifestazione divina che sono quanto mai indicate ai giorni liturgici che stiamo vivendo compresi tra l’ascesa di Gesù al cielo e la discesa dello Spirito Santo.

 

Anzitutto nella prima lettura viene descritto nei tratti essenziali come la nascente comunità cristiana colmava il “vuoto” se di vuoto si può parlare, tra la partenza di Gesù e la venuta dello Spirito: in modo perseverante e concorde nella preghiera. Al cuore di questa piccola Chiesa vigilante c’è Maria, volta insieme agli altri verso Dio, in attesa dello Spirito.

 

Nel Vangelo, pur non essendo ancora giunta, di per sé, l’ora per Gesù di manifestare chi realmente egli fosse, Maria Sua Madre, a partire dalla necessità del momento, da un bisogno di una comunità riunita per le nozze, intercede presso il Suo Figlio che non solo trasforma l’acqua in vino, ma da così inizio ai segni rivelativi della Sua gloria, ossia rivelativi chi Egli era davvero.

 

In questi contesti, in queste due comunità, Maria ha un duplice sguardo: uno sguardo verso Dio, nella prima scena tra l’Ascensione e la Pentecoste e uno sguardo sugli uomini, sulle loro necessità a Cana, uno sguardo che Lei non esita a unire al Suo stesso sguardo verso il Suo Figlio: “Qualsiasi cosa vi dica fatela”.

 

Maria non si ferma a se stessa, non dice nulla di sé, ma orienta all’amicizia con Cristo. Memore dello sguardo di Dio su di Lei che l’ha scelta, che ha guardato alla Sua umiltà, che l’ha resa la sua amica tutta pura, vuole che a nostra volta anche noi ci rendiamo conto di questo sguardo amico del Signore su di noi e sulla nostra vita. E perché noi ci rendiamo conto di questo sguardo, Maria intercede, Maria chiede per noi ogni grazia che possa sì esserci di aiuto, ma soprattutto che possa farci scoprire ed entrare nell’amicizia con Gesù.

 

Maria non si ferma a se stessa, dunque. Ma non solo! Insegna anche a noi a non fermarci a noi stessi e ai doni che riceviamo da Dio ma a renderci conto che questi doni sono l’espressione, la chiamata di Dio ad essere Suoi amici. Gesù dirà infatti: “Voi sarete miei amici se farete ciò che vi comando”; e ancora: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (Gv 14,15). Dunque il segno di questa amicizia è l’obbedienza fiduciosa, la sottomissione amorosa di chi vive l’uno per l’altro. E la cosa sorprendente è che è Gesù stesso il primo ad obbedire a questo principio, ad essere il nostro primo amico concedendoci quanto gli chiediamo e in un certo senso, sottomettendosi a noi ogni volta che esaudisce qualche nostra richiesta e ci largisce una grazia. Dunque come noi possiamo diventare suoi amici facendo quanto ci chiede, così Lui ci mostra che vuole essere nostro amico facendo quanto gli chiediamo noi.

 

Nascosta in questa relazione di reciproca amicizia e fiducia c’è Maria che agisce similmente al modo di agire dello Spirito Santo che Lei attendeva con gli altri apostoli riuniti al piano superiore e che noi attendiamo a pochi giorni dalla Pentecoste. Similmente allo Spirito Santo e con lo Spirito Santo, di cui Gesù aveva detto: “vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto”, Maria ci indica Gesù, ci guida a Gesù e ci esorta: “qualsiasi cosa vi dica fatela”.

Scriveva il beato Giovanni Paolo II: “Cristo è il Maestro per eccellenza, il rivelatore e la rivelazione. Non si tratta solo di imparare le cose che Egli ha insegnato, ma di «imparare Lui». Ma quale maestra, in questo, più esperta di Maria? Se sul versante divino è lo Spirito il Maestro interiore che ci porta alla piena verità di Cristo, tra gli esseri umani, nessuno meglio di Lei conosce Cristo, nessuno come la Madre può introdurci a una conoscenza profonda del suo mistero.”(RVM 14)

 

All'intercessione di Maria, madre delle grazie, vogliamo affidare la nostra attesa della venuta dello Spirito perché sia un'attesa perseverante e concorde nella preghiera.

 

Domenica 12 Maggio 2013 – Ascensione del Signore – fr. Giovanni-Battista FMJ


 

Con l’evento dell’Ascensione del Signore al cielo, quaranta giorni dopo la Pasqua, si chiude per i discepoli che ebbero il privilegio di vedere il Signore risorto, il tempo delle apparizioni di Cristo. Come abbiamo ascoltato dalla lettura degli Atti degli Apostoli, Gesù fu elevato in alto, nella gloria del Padre, e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Gesù non è più disponibile ai loro sguardi. Con l’ascensione al cielo cessa questo farsi vedere di Gesù.

 

Ma cessa forse anche la sua presenza? Umanamente parlando sì. Umanamente parlando, cioè basandosi su quanto era umanamente percepibile di Lui, Gesù lascia i Suoi discepoli da soli ed essi non possono più contare su una relazione con Lui identica a quella precedente. Ora essi, dal punto di vista umano, si trovano nella stessa nostra situazione , ossia nella situazione di non poter vedere con i propri occhi il volto radioso del Signore.

 

Eppure Gesù, nella finale del Vangelo di Matteo, rassicura i Suoi: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20) e addirittura san Paolo nella lettera gli Efesini dirà che Cristo “Ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose” (Ef4,10). Dunque i sensi umani registrano questo tempo dopo l’Ascensione come un tempo di assenza di Cristo dall’orizzonte terreno. Solo un cuore credente ossia un cuore che sa pensare alle cose di lassù gode di uno sguardo sul quaggiù più profondo che riesce a cogliere la realtà in tutta la sua ampiezza, a leggervi la presenza attiva ed operante di Gesù con e mediante i Suoi discepoli.

 

Da quanto detto possiamo capire alcune cose importanti per il nostro cammino. Una prima cosa è questa: il Risorto ora è più vicino a Dio e anche se ciò sembrerebbe un abbandonarci, in realtà proprio per questo è più vicino anche a noi; siede alla destra del Padre come Signore e proprio per questo continua più che mai a camminare nelle strade degli uomini. (Cf. Catechismo Adulti n°279)

 

Ebbene, tale principio vale anche per noi! È proprio vero che mai gli uomini sono più vicini e più in comunione gli uni con gli altri come quando il mezzo di questa comunione è Dio e al di sopra di ogni altro mezzo Dio. Più l’uomo si fa vicino a Dio e più si avvicina agli uomini. Più l’uomo si allontana da Dio e più si allontana dagli uomini, anche qualora vivesse in mezzo alla folla. Tornano in mente delle parole del nostro Libro di Vita di Gerusalemme rivolte in particolare a noi monaci: “Il mondo ha bisogno di monaci che lo abbandonino per essere per lui ministri di inquietudine e segni interrogativi. Più radicalmente, nel cuore di Dio che ha creato, riscattato il mondo e l’ha tanto amato tu ritrovi tutto l’universo. Non potresti dunque renderti più presente al mondo che vivendo costantemente alla presenza del Creatore del mondo”. (§ 140)

 

Capire e vivere questo significa poter poi capire e vivere anche un’altra riflessione che possiamo fare partendo da quanto Gesù ci chiede nelle letture di oggi: “riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni”.

 

Noi sappiamo che nell’incarnazione del Verbo di Dio ha avuto inizio quel mirabile scambio tra la nostra natura umana e quella divina per cui “diventando uomo, Cristo ci ha dato la possibilità di diventare a nostra volta come Lui” (Udienza generale di papa Benedetto XVI del 22/8/2007) ossia partecipi della natura divina. Ora, a partire dall’Ascensione del Signore al cielo questo scambio diventa ancora più visibile! Cristo porta presso il Padre la nostra umanità e noi siamo chiamati a portare la Sua divina presenza nel nostro mondo e nel nostro tempo. Cristo va a preparare un posto a noi lassù nel cielo, come aveva preannunziato poco prima di morire, e noi prepariamo un posto a Lui quaggiù sulla terra come siamo esortati da Lui stesso: “di me sarete testimoni”. Due dunque i movimenti che si compiono in questo giorno: Gesù porta noi presso il Padre e noi portiamo Lui presso gli uomini. In questo modo l’invisibilità di Gesù trova di nuovo visibilità nella comunità dei Suoi discepoli, nella Sua Chiesa, il Corpo di Cristo, la comunità di coloro che più vicini a Dio possono essere davvero più vicini agli altri. Capiamo allora che per essere testimoni non basta fare delle cose buone ma bisogna essere gente conquistata da Cristo.

 

Spesso ci diamo tanto da fare per gli altri, magari anche aiutandoli molto dal punto di vista materiale, ma forse, talvolta, non nutrendo tale gesto pratico e concreto con l’amore, con la preghiera, con la presenza di Gesù che ci invia ad essere Suoi testimoni. Esteriormente avremmo fatto sì qualcosa, e questo ci darebbe soddisfazione, ma nel nostro cuore staremmo forse alimentando più il nostro prestigio che altro. Pensiamo invece come cambierebbero le cose se fossimo sempre consapevoli che il nostro parlare e agire può diventare un parlare e agire di Cristo in noi e attraverso di noi. E le nostre membra strumenti vivi per dare carne visibile a Cristo nel mondo.


La potenza dello Spirito Santo, che attendiamo in questa novena di Pentecoste, ravvivi in noi il dono di Dio e ci renda testimoni credibili che Cristo asceso al cielo non ha abbandonato il nostro mondo ma è con noi tutti i giorni.

 

venerdì 10 Maggio 2013 – Festa santi Zanobi e Antonino – Commento ora media - fr. Giovanni-Battista FMJ


La prima lettura di questo giorno di festa per la Chiesa fiorentina che ricorda i Suoi principali patroni, i santi Zanobi e Antonino, ci offre alcuni passaggi dell’ultimo discorso di Paolo agli anziani di Efeso, discorso nel quale egli lascia loro come un testamento: “Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come vescovi per essere pastori della Chiesa di Dio che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio”.

 

L’esortazione dell’apostolo parte da quanto gli anziani di Efeso sono invitati a fare concretamente, vigilare e custodire se stessi e la comunità, ma tale missione loro affidata è motivata risalendo a quanto il Signore stesso ha fatto per la Sua Chiesa: ha costituito loro perché fossero rappresentanza e prolungamento dell’opera del Buon Pastore che è il vero proprietario e custode della Sua Chiesa per la quale ha dato la vita. Il ministero di questi anziani si pone dunque nel mezzo di due offerte: l’offerta totale della vita di Cristo con cui Dio ha acquistato la Chiesa, e l’offerta della loro vita come visibile prolungamento ed attualizzazione dell’amore oblativo del Signore Gesù.

 

L’apostolo Paolo prosegue la sua esortazione agli anziani esponendo loro uno dei pericoli, se non il pericolo più grosso, che incombe sul gregge del Signore: quello di non essere più gregge, quello della disgregazione in piccoli gruppetti e fazioni che non seguono più il Buon Pastore e Custode delle anime ma che corrono dietro a l’uno o all’altro che come lupi rapaci travestiti da pecore o come mercenari travestiti da pastori, considerando il gregge cosa propria e non proprietà del Signore, invece che condurlo ai verdi pascoli della salvezza, lo guidano non dietro a Gesù ma dietro di sé. “Io so che dopo la mia partenza verranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a parlare di cose perverse, per attirare i discepoli dietro di sé”.

 

Questa frattura dell’unità che queste forze centrifughe possono provocare, forze centrifughe che anche oggi non mancano nel mondo e anche nella Chiesa stessa, nuocerebbe non solo al cammino dei cristiani verso la salvezza, esponendolo a dei lupi rapaci come dice Paolo, ma anche oscurerebbe quell’immagine della comunione trinitaria che la Chiesa di Cristo porta in sé. E sarebbe, in un certo senso, una sorta di bestemmia contro lo Spirito Santo. Come infatti nella Trinità è lo Spirito Santo che riunisce in una specie di noi divino l’io del Padre e il tu del Figlio, così nella Chiesa egli è colui che fa di una moltitudine di persone una sola «mistica persona». (Cf. Raniero Cantalamessa, Il canto dello Spirito, Ed. Ancora, Milano, 1997, 152)

 

All’inizio di questa novena di Pentecoste in cui invochiamo lo Spirito Santo sulla Chiesa e sul mondo perché effonda i suoi frutti divini, chiediamo allora il dono dell’amore che è dono di unità. E siccome i frutti dello Spirito, a differenza dei carismi dello Spirito, non sono doni che provengono esclusivamente dall’iniziativa dello Spirito che li dà a chi vuole e quando vuole, ma sono il risultato di una collaborazione tra la grazia e la libertà, esercitiamo e prepariamo la nostra volontà perché desideri davvero ciò che chiede, e sia anche pronta, se necessario, ma in genere è necessario, a soffrire per produrre il frutto d’amore e di unità. (Cf. Raniero Cantalamessa, Il canto dello Spirito, Ed. Ancora, Milano, 1997, 332).

 

giovedì 9 Maggio 2013 – VI settimana di Pasqua - fr. Giovanni Battista FMJ

 

Il vangelo di oggi presenta alcune situazioni opposte tra di loro: una situazione di visione, di presenza di Gesù e una di assenza; una situazione di tristezza, di pianto e di gemito e una di gioia; la gioia dei discepoli che è messa alla prova dall’afflizione e d’altro canto l’allegria del mondo che sembra non conoscere flessioni. Cosa c’è alla radice di queste antitesi?

 

Se rileggiamo con attenzione il testo del vangelo ci rendiamo conto che la gioia come la tristezza di cui Gesù parla ai suoi discepoli sono strettamente legati alla sua presenza in mezzo a loro, o più precisamente, al vedere Gesù: al non vedere Gesù corrisponde la tristezza dei discepoli e l’allegria del mondo, mentre al rivedere Gesù corrisponde la conversione della tristezza dei discepoli in gioia.

 

A partire da ciò possiamo fare una prima constatazione importante, ed è questa: la vita del discepolo di Gesù è non solo legata ma dipendente a quella del Suo Maestro e Signore. Il discepolo, dal momento in cui accetta di essere tale, accetta anche di subordinare tutto ciò che è, tutto ciò che fa e tutto ciò che vuole a tutto ciò che è, tutto ciò che fa e tutto ciò che vuole il suo Maestro. È questo un modo per esprimere il suo desiderio profondo di non voler vivere diversamente da come vive il Suo Maestro. Gesù, di tale realtà di unione e quasi di simbiosi tra Lui e i Suoi discepoli ne aveva già parlato in altre circostanze, per esempio quando premoniva i Suoi dicendo loro: “Se hanno ascoltato me ascolteranno anche voi; se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi.” E ancora: “Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore.” (Gv 12,26). È per questo che nella misura in cui accettiamo di essere ciò che siamo, cioè figli di Dio in Cristo, diventiamo anche Suoi imitatori, altri Cristi, partecipi di quella stessa vita che Lui vive in noi.

 

Un secondo aspetto che possiamo evidenziare nel vangelo di oggi è più specificamente legato al tema della gioia. A quest’alternanza tra vedere e non vedere Gesù da parte dei discepoli corrisponde, come abbiamo visto, l’oscillare dei discepoli tra tristezza e gioia. Per cui finché i discepoli vedono Gesù il loro cuore si rallegra, la Sua assenza li affligge e il Suo ritorno, che fuor di metafora si tratta della Sua risurrezione, ricostruisce la gioia perduta.

 

Da ciò possiamo capire due cose: anzitutto che Gesù, quando parla di gioia, la collega sì strettamente alla sua presenza ma anche alla capacità dei discepoli di gioire di Lui, e tale consapevolezza è molto importante per noi che vogliamo imparare qualcosa dal Vangelo perché ci offre un criterio per valutare di che cosa gioiamo nella nostra vita. Non dobbiamo temere di porci questa domanda a cui poi ciascuno darà privatamente la Sua risposta: so rallegrarmi della presenza di Gesù, sono sensibile alle semplici gioie che Lui offre al mio cammino o lascio che le cose negative della mia vita, della mia famiglia, del mio lavoro, della mia comunità e degli altri prendano tutto lo spazio nella mia testa e nel mio cuore?

 

E la seconda nota che merita la nostra attenzione è quella del vedere Gesù, perché è a tale visione che è connesso il passaggio alla gioia. Nel testo del vangelo di oggi si tratta di un vedere fisico, un vedere sensibile: il non vedere Gesù corrisponde infatti alla Sua morte, il vederlo alla risurrezione, ma certo non possiamo negare, e sicuramente molti di noi ne hanno già fatto l’esperienza, che esiste ed è reale anche un altro tipo di visione di Gesù, quella che si compie con l’occhio interiore, con uno sguardo rinnovato. Ebbene, talvolta il segreto della gioia si nasconde in questa capacità del nostro cuore di riuscire a vedere, a percepire Gesù nella nostra vita, anche in eventi che forse non ci gratificano e che dunque, di per sé, potremmo interpretare come esperienze non di presenza ma di lontananza di Gesù da noi. Tale sguardo nuovo sulla nostra realtà, uno sguardo che ci consente di percepirvi Gesù attivo e operante nella nostra vita, può essere quella chiave di volta che ci aiuta a permanere nella gioia, o quanto meno nella pace, perché ci aiuta a renderci conto che Gesù non è assente dalle nostre vite e da quelle degli altri, ed è capace di trasformare il male in bene, la morte in vita, il peccato in felice colpa. Non c’è nulla nella nostra vita che sia impenetrabile dalla potenza di Dio, basta che lo vogliamo, e se ciò non solo lo sapremo ma anche riuscissimo a vederlo, a rendercene conto, anche la nostra tristezza si cambierebbe in gioia. Viviamo infatti diversamente una situazione difficoltosa ed impegnativa se percepiamo che non siamo soli ad attraversarla ma il Signore cammina con noi.

 

Domenica 5 maggio 2013 – VI Domenica di Pasqua - parrocchia S.Giacinto - Brescia - fr. Giovanni-Battista FMJ


 

Al centro delle letture di oggi, il libro dell’Apocalisse ci presenta una città, la città per eccellenza, la Gerusalemme celeste preparata da Dio, pronta, bella come una sposa adorna per il suo sposo. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, grandi ed alte mura la circondano con dodici porte sopra le quali stanno dodici angeli. Insomma una città meravigliosa. Eppure la grande bellezza, il grande tesoro di questa città non sta tanto nel suo splendore, anzi questo splendore è piuttosto la conseguenza di un tesoro più prezioso ancora. Qual è il vero tesoro della Gerusalemme celeste? Ebbene, il tesoro vero è Dio stesso. Dio, che dimora in essa, è la gloria di questa città e ne è perfino la luce stessa: la città, l’abbiamo ascoltato, non ha bisogno della luce del sole ne della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello.

 

Ora, tale città non è una città immaginaria, ma sarà la nostra città in cui per sempre abiteremo insieme al Signore alla fine dei tempi, quando Cristo ricapitolerà tutto in sé. Se di fronte a noi vediamo come prospettiva finale della nostra esistenza terrena solo la sofferenza, il dolore e la morte, ricordiamo bene che la morte sarà solo una tappa provvisoria di un cammino che ci condurrà alla città di Dio, la dimora di Dio con gli uomini.

 

Tale prospettiva può e deve affascinarci, lasciarci a bocca aperta, farci sognare, ma in fondo potremmo dire: intanto io vivo quaggiù e non posso starmene a sognare il giorno in cui vedrò Dio faccia a faccia. Posso sognare ad occhi chiusi, ma appena li riapro ritrovo i miei problemi, il peccato che affligge me e gli altri, le sofferenze mie e di quelli che mi circondano, ossia un tempo presente che contraddice amaramente questa visione futura.

 

Allora la domanda per noi è: posso sognare solo ad occhi chiusi, cioè senza guardare la realtà e facendo della fede un salto nell’assurdo e in una dimensione inconciliabile col tempo presente, o posso tentare di aprire gli occhi e di tenerli aperti senza rischiare che questo sogno svanisca?

 

La risposta ce la da il Vangelo che abbiamo ascoltato: disse Gesù ai suoi discepoli: se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Prenderemo dimora presso di lui. Attenzione! Qui Gesù non parla della vita dopo la morte, ma parla della nostra vita terrena di adesso che può diventare davvero dimora, abitazione, perfino rifugio in cui Dio si riposa. Pensiamo un po’ che bello: Dio trova in noi un luogo di riposo!

 

Se questo è vero come è vero allora scopriamo con stupore che la Città celeste, la cui gloria e la cui luce sono la presenza di Dio in essa, non è semplicemente qualcosa di futuro, non è solo qualcosa che non ci resta che sperare ed attendere. Se noi ascoltiamo ed osserviamo la parola di Gesù, ossia se viviamo secondo il Vangelo, la nostra vita già diventa lo spazio in cui Dio vive e prende dimora come nella Gerusalemme nuova.

 

Talvolta riduciamo il Vangelo ad un manuale di buone maniere, ad un sacro galateo, non riconoscendo alla Parola di Dio tutta la potenza che porta in sé, la capacità di penetrare in noi e di creare uno spazio in cui Dio dimora, in cui vive insieme a noi, esperienza che san Paolo esprimeva in questi termini: Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.

 

Se almeno proveremo anche noi a vivere questa apertura alla parola di Dio che Gesù oggi ci suggerisce, ci renderemo conto che la vera gloria, il vero vanto, la vera pace e la vera luce che può illuminare i nostri sguardi e quelli delle persone che ci stanno accanto, anche le più sofferenti e perfino quelle più lontane da Dio e dalla Chiesa, sarà questa compagnia di Dio nella nostra vita. E tutto il resto sapremo allora rimetterlo al suo giusto posto, sapremo assegnargli il suo giusto valore, potremo considerarlo relativo perché, in certo senso, tutto è relativo di fronte all’unico Assoluto che è Dio.

 

Proviamo ad immaginare quanta libertà interiore ed esteriore ci da il sapere che la nostra vera patria è nel cielo, una patria in cui non ci saranno più il peccato e la morte, e che noi oggi possiamo già cominciare a vivere secondo la legge che regola questa patria che è il comandamento dell’amore!

 

Pensiamo che bello guardare alle nostre vite e alla vita delle persone che conosciamo con la consapevolezza che Dio vive in loro! È davvero uno sguardo nuovo, uno sguardo superiore al semplice sguardo naturale quello che la luce di Dio ci da, guidandoci ad una conoscenza più profonda e più autentica delle cose.

 

Capiamo allora che vivere di questa relazione con il Signore che dimora in noi non ci strappa dal presente, non è una fuga irresponsabile dalla realtà, ma è riconoscere la realtà in tutta la sua ampiezza, una realtà che è attraversata e abitata dalla presenza di Dio.

 

Davvero con Cristo il Cielo ha toccato la terra e può toccare anche la nostra vita. A noi la decisione di come vogliamo vivere; a noi è data la grande possibilità di vivere già oggi come uomini e donne risorti, ossia come cittadini della Gerusalemme celeste.

Non temiamo di alzare lo sguardo verso il Cielo e scopriremo che il Cielo è già dentro di noi.

 

venerdì 3 Maggio 2013 – Festa dei santi Filippo e Giacomo - fr. Giovanni Battista FMJ


Celebrando la festa dei santi Filippo e Giacomo la nostra attenzione si concentra sulla figura degli apostoli, cioè su coloro che sono stati scelti e chiamati da Gesù perché stessero con lui e anche per mandarli. Una vocazione del Signore dunque, prima che una missione. Anzi, potremmo dire che la missione esiste perché c’è una vocazione che la precede ossia una scelta del Signore: “Non voi avete scelto me ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portate frutto e il vostro frutto rimanga”.

 

Come la prima lettura di oggi mette ben in luce, l’apostolo così come qualsiasi altro cristiano che desidera farsi testimone di Cristo può dare agli altri solo ciò che prima ha scoperto e vissuto lui stesso, l’ha fatto proprio e ha lasciato che tale fede viva che annuncia continui a plasmare la propria vita. L’apostolo è infatti inviato da Gesù come discepolo e tale deve rimanere. Giova per questo risentire le parole stesse di San Paolo: “A voi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto”.

 

Quanto è importante allora per gli apostoli di un tempo come per noi oggi ritornare sempre alla roccia da cui siamo stati tagliati, alla vite da cui il tralcio della nostra vita trae quella linfa che lo tiene in vita e gli consente di portare frutto per gli altri. Se no avrebbe solo foglie da mettere in mostra ma incapaci di nutrire. Se l’ansia apostolica non nasce e non è governata da un costante cuore a cuore con Gesù saremo sì apostoli, ma forse di noi stessi e delle nostre idee più che del Vangelo di Cristo. Un Vangelo nel quale, sempre san Paolo ci dice, dobbiamo restare saldi.

 

Il cristiano sarà evangelizzatore ed apostolo per gli altri se lo sarà anzitutto di se stesso, conversione e cura di sé che richiedono spazio, tempo ed energie sempre rinnovate. Altrimenti le nostre opere soddisferanno forse il nostro bisogno di azione ma non nutriranno ne noi ne gli altri perché prive di quel cibo necessario che è il contatto con Dio. (Cfr. Dom Chautard, L’anima di ogni apostolato, pag 76)

 

Il vangelo di oggi menziona due apostoli entrambi accomunabili da un desiderio simile di vedere Dio: Tommaso, lo ricordiamo bene, solo dopo aver visto Gesù risorto crederà, e Filippo, che oggi festeggiamo, chiede a Gesù: “Mostraci il Padre e ci basta”. Gesù in entrambi i casi accontenta questa sete aiutando a crescere e maturare tutti e due: con Tommaso apparendogli risorto e invitandolo a toccare le sue piaghe e con Filippo donandogli una comprensione superiore della sua persona: “Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?”. In questa invocazione di Filippo a Gesù, “mostraci il Padre e ci basta”, scorgiamo forse tutto il suo desiderio di incontrare Dio, di vederlo, di vivere in comunione con Lui, sapendo che questo basta e che tutto il resto verrà di conseguenza, per sovrabbondanza, sgorgando da questo intimo cuore a cuore.

 

Non solo, ma è proprio grazie a tale intraprendenza di Filippo nel sondare il mistero di Dio che Gesù rivelerà qualcosa di importante sulla sua persona a beneficio di tutti. “Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me.”

 

Anche noi, se vogliamo essere annunziatori e apostoli del Vangelo, qualunque sia la nostra condizione di vita, dobbiamo tenere presente che la prima urgenza di ogni apostolato è quella di mantenere sempre viva e ardente in noi la sete di Dio e il nostro cuore a cuore con Gesù. Pazienza se talvolta il tempo che impieghiamo per questo sembrerà, alla nostra cultura efficientista ed attivista in cui si vale più per ciò che si fa che per ciò che si è, un tempo sprecato ed inutile. “La vita di unione con Dio è per l’apostolato ciò che l’anima è per il corpo. Senza vita d’unione con Dio, l’operaio evangelico rischia di essere solo «un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna»” (Cfr. Dom Chautard, L’anima di ogni apostolato, pag 77).

Saziati dal peso della presenza di Dio in noi potremo allora, pian piano, accogliere l’invito che il nostro libro di vita ci rivolge: “La tua vita indichi senza paura e senza rumore il sentiero della Sorgente e Dio stesso accoglierà e disseterà le anime affaticate. I santi non hanno bisogno di essere ascoltati: la loro esistenza stessa è un richiamo” (§49).

 

giovedì 2 maggio 2013 – V Settimana di Pasqua – Sant’Atanasio - fr. Giovanni-Battista FMJ

 

Rimanete nel mio amore mediante i miei comandamenti perché la mia gioia sia in voi. Sono queste le coordinate del nostro cammino cristiano che Gesù ci offre nel vangelo di oggi. Un cammino che si apre e dimora nell’amore, lascia che questo amore plasmi e orienti la nostra vita e la renda partecipe della gioia di Gesù. E colpisce scoprire che queste, del resto, sono le stesse coordinate del nostro Libro di Vita che inizia con il capitolo amore, sviluppa nel concreto cosa significhi per noi monaci vivere il comandamento dell’ amore, rimanere nell’amore di Gesù, e si chiude con il frutto dell’amore che è la gioia della comunione.

 

Una nota interessante di questo amore di cui Gesù ci parla è quella della comunione e dell’esperienza di questo amore. Gesù non ci trasmette un amore qualsiasi, qualora esistesse un amore qualsiasi, ma esattamente l’amore che egli riceve e vive con il Padre. Come il Padre ha amato me anche io ho amato voi. Un amore che è relazione e dono totale di sé. Cercando di comprendere e soprattutto facendo esperienza di quanto Gesù, per amore, ha fatto per l’uomo, noi allora non solo capiamo qualcosa di lui ma ci troviamo a vivere della stessa vita che unisce il Padre e il Figlio, ci troviamo nel cuore della Trinità che è relazione di amore. E come se Gesù ci dicesse: se vuoi capire cosa si vive a casa mia, nella dimora dove vivo con il Padre mio e lo Spirito, vieni e fanne esperienza, prendi parte anche tu a questa relazione.

 

Nella storia ci fu chi volle negare questa realtà relazionale della Trinità. In particolare oggi, celebrando la memoria di Sant’Atanasio non possiamo non fare menzione dell’eretico Ario che, per voler far quadrare la cultura greca del suo tempo con il Cristianesimo finì per frantumare il cuore stesso della nostra fede, ossia, la rivelazione delle tre Persone divine. Egli riconosceva a Gesù il posto più alto tra le creature di Dio così alto che poteva esercitare un ruolo di modello e maestro per noi uomini, ma restando pur sempre creatura. Così Ario incastrava Dio in una solitudine monoteistica razionalmente più gratificante o meglio più tranquillizzante. Sarà Atanasio che lottando per tutta la vita non semplicemente per dei concetti o dei dogmi ma per la realtà viva e vera a cui essi ci orientano, riaffermò con forza che Gesù era realmente Dio e proprio per questo poteva salvarci perché davvero aveva preso su di sé la nostra umanità ferita.

 

Possiamo imparare molto da Atanasio e a lui siamo certo particolarmente debitori. Ma possiamo imparare anche dall’errore di Ario: quando cerchiamo di far quadrare il pensiero di Dio con il nostro pensiero, ossia quando cerchiamo di modellare Dio e le cose di Dio a partire dal nostro modo di pensare forse saremo più popolari nel mondo, forse saremo alla moda e saremo applauditi e seguiti da molti, come accadeva per Ario la cui dottrina spopolava e il mondo sembrava divenuto irrimediabilmente ariano, ma dovremo certo dire addio alla verità per accontentarci di noi stessi e del vitello d’oro che ci siamo costruiti, tanto bello e luccicante quanto fasullo e inutile. Per questo dobbiamo sempre avere il coraggio e l’umiltà di ammettere che tutto quanto in noi è espressione della nostra personalità, della nostra cultura, del nostro modo di pensare, del nostro paese o luogo di origine o della nostra tradizione, non per questo è automaticamente vero e autentico. Non è che una mia opinione o un mio punto di vista sono veri semplicemente perché sono miei. Possono esserlo in parte sì e in parte no. Fa parte del cammino discepolare la disponibilità a cambiare.

 

Lasciamo che il pensiero di Dio ci sorprenda, ci evangelizzi, ci converta. Permettiamo a Dio che le Sue vie non siano le nostre vie e troveremo qualcosa di migliore di ciò che abbiamo lasciato. Scopriremo che Dio è più “divino” di quanto credevamo.

 

mardi 30 Avril 2013 V semaine de Pâque - Eglise St Gilles – Bruxelles - fr. Giovanni-Battista

 

Dans l’Evangile que nous venons d’entendre, Jésus nous fait une confidence toute spéciale : il nous transmet un de ses désirs intimes, une aspiration secrète qu’il porte en son cœur. « il faut que le monde sache que j’aime mon Père ». Les confidences de Jésus ne sont pas nombreuses dans les évangiles. Le plus souvent le Seigneur parle du Royaume, un peu moins de lui-même, moins encore dit-il quelque chose de sa relation avec son Père. Mais aujourd’hui cette relation avec son Père, il veut l’annoncer au monde entier, il veut que tout le monde en soit témoin.

 

Dans cette révélation que Jésus nous fait, nous découvrons toute la confiance qu’il place dans les siens et en nous aussi, qui aujourd’hui écoutons sa parole. C’est là une façon concrète pour nous démontrer qu’il ne nous considère pas simplement comme ses serviteurs, mais comme ses amis et frères qu’il rend témoins des intentions qui habitent son cœur. Et à l’intérieur de ce rapport confiant et amical, dans lequel Jésus nous entraîne, nous réussissons aussi à déterminer ce qui se cache, de façon implicite, derrière cette confidence qu’il nous fait : silencieusement et très distinctement Jésus s’adresse à chacun d’entre nous : aide-moi à dire au monde combien j’aime le Père.

 

Cette demande de Jésus ne peut que nous surprendre. On aurait pu s’attendre à une phrase du genre : il faut que vous aimiez le père, ou bien il faut que le monde aime le Père, ou quelque chose de semblable.

 

Mais il n’en est pas ainsi. Avant de nous enseigner ce que nous devons faire, comment nous devons entrer en relation avec Dieu, Jésus met devant nos yeux son témoignage d’amour au Père. L’amour que Jésus vit est un amour qui évangélise, car c’est un amour contagieux, qui attire, qui appelle : l’amour appelle l’amour. Et l’amour s’enseigne seulement en le vivant. C’est pourquoi, c’est à partir de la connaissance et surtout de l’expérience de cet amour de Dieu, que peut naître une parole ultérieure sur Dieu. Une telle vérité, saint Jean la redira ailleurs en affirmant : « Celui qui n’aime pas n’a pas connu Dieu, car Dieu est Amour » (1 Jn 4,8). Et du reste, qui ne connaît Dieu, ne peut en être témoin, car il rendrait témoignage à quelqu’un qu’il ne connaît pas.

 

En regardant avec attention le contenu de la première lecture, nous trouvons, en la personne de l’apôtre Paul, un exemple vivant de ce que nous venons d’énoncer: en lui en effet, une telle demande de Jésus est accueillie, incarnée et mise en œuvre.

 

Pour l’apôtre, l’annonce de la foi est au prix fort de la lapidation reçue de la part des juifs. Le texte dit même qu’on le traina hors de la ville en pensant qu’il était mort……Nous pouvons bien imaginer quelle valeur pouvait avoir aux yeux des habitants de la ville de Derbé, l’annonce de la Bonne Nouvelle faite par un homme blessé et vivant par miracle. Les meurtrissures et les cicatrices de Paul étaient plus éloquentes que ses propres mots. Sur son corps et son visage resplendissaient les signes témoins de la foi en Celui qu’il annonçait, signes compréhensibles pour tout homme et culture, qu’il croyait vraiment en celui qu’il annonçait.

Paul, comme Jésus, annonce l’amour en aimant ; comme Jésus, il annonce une vie nouvelle en offrant la sienne au Père, pour les hommes. A la suite de son Maître, le grand apôtre des Nations, nous confie aujourd’hui : « il faut que le monde sache que j’aime mon Père  »  et son témoignage nous convainc car quand l’amour a l’empreinte de la douleur, et en ce cas particulier, du sang, personne ne peut plus en douter : cet amour est vrai.

 

Les lectures d’aujourd’hui nous aident ainsi à accueillir cette parole de vérité pour avancer sur notre chemin de chrétiens : nous pouvons donner et annoncer seulement ce que nous vivons personnellement, nous pouvons témoigner la foi seulement si nous vivons de la foi, et nous pouvons édifier la communauté seulement si nous laissons que notre vie soit comme le grain de blé qui, jeté en terre, meure et porte du fruit.

 

La porte de la foi s’ouvrira encore pour de nombreux hommes de notre temps s’ils trouvent ouverte en nous la porte de notre amour pour notre Père. Comme écrivait le pape Paul VI : « Qui a été évangélisé, à son tour évangélise » (Evangelii Nuntiandi 24), même si personne ne le voit, même s’il reste dans la clôture d’un monastère, car séparé de tous et caché avec Christ en Dieu, il demeure uni à tous.

 

Domenica 28 aprile 2013 - V Domenica di Pasqua - fr. Massimo-Maria FMJ

 

   La fede la speranza e la carità.

  Tre luminose gemme che splendono nel cammino della vita cristiana e che brillano particolarmente oggi nella Parola di Dio di questa quinta domenica di Pasqua.

    La prima di queste gemme, contemplata da una prospettiva particolare,  ci è presentata nel testo degli Atti degli Apostoli.

   Paolo e Barnaba rivolgono  un invito pressante ai cristiani di Listra Iconio e Antiochia a:”... restare saldi nella fede”. Questo invito, così come l'insieme del brano di Atti, sottolineano una componente tipica della fede: la drammaticità.

   La fede sappiamo bene è una radicale e totale appartenenza a Gesù. Vivere il suo messaggio è sconcertante, provoca i luoghi comuni e mina gli equilibri artificiosi. Chi, ponendo nella sua vita un profondo atto di fede in Gesù, chi accoglie davvero il dono della fede in Lui, percorre inevitabilmente la sua stessa via, quella della passione e della croce. Si capisce così l'esortazione di Paolo e Barnaba che “... esortano a restare saldi nella fede "perché - dicevano - dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni".

   E' necessario, e buono per noi, raccogliere questo invito a lasciarci illuminare dalla gemma della fede, ma è altrettanto prezioso aver chiaro quanto la Parola oggi per bocca di Paolo e Barnaba ci ricorda, e cioè  che, nel momento in cui si inizia a vivere di questo dono in profondità, ci si imbatte in questa componente di drammaticità di cui abbiamo parlato. 

Deciderci davvero per Gesù non è mai una decisione che lascia indenni.

   Papa Francesco in una delle sue omelie delle liturgie mattutine in Santa Marta dove vive in Vaticano si chiedeva proprio qualche giorno fa: “ Quando nel testimoniare la fede arrivano le difficoltà siamo coraggiosi o tiepidi?  E continuava il Papa - commentando un passo di Atti in cui San Pietro con coraggio testimonia il suo appartenere a Gesù – Pietro non ha taciuto la fede, non è sceso a compromessi, perché la fede non si negozia. Sempre – ha continuato il Papa – c'è stata nella storia del popolo di Dio la tentazione di tagliare un pezzo della fede, la tentazione di essere un po' “ come fan tutti “  la tentazione di “ non essere tanto, tanto rigidi”. “ Ma – ha concluso il Papa, quando cominciamo a tagliare la fede, a negoziare la fede, un po' a venderla al migliore offerente, incominciamo la strada dell'apostasia, della non fedeltà al Signore.”

    Queste parole che evidenziano la drammaticità della fede vissuta e che ce ne ricordano l'altissima esigenza, non devono  tuttavia sgomentarci o spaventarci, piuttosto devono aiutarci a prendere sempre più coscienza del dono ricevuto custodendo nel cuore lo spazio per la seconda gemma che troviamo nella seconda lettura: la speranza.

    Nel testo di Apocalisse l'occhio si posa su una città paragonata ad una sposa pronta per le nozze. Il cuore di questa città, in cui sono espulse le cose amare di prima e la pace regna sovrana, il cuore di questa città è Dio stesso. Questa città incarna il progetto di Dio per l'uomo e per l'umanità. La speranza nasce proprio dalla certezza che Dio è all'opera per realizzare questa città. L'uomo di speranza così è quello che alacremente, nonostante ostacoli e derisioni, collabora con Dio in questa opera.

    L'uomo di speranza collabora e non indietreggia perché è sicuro che Dio per primo non si sgomenta, né si stanca mai di rinnovare tutto incessantemente. Nulla mai è compromesso definitivamente, nessuno mai in questa vita, in questo mondo è rinchiuso in una situazione in cui Dio non possa intervenire e “ fare una cosa nuova.” Ecco la forza della seconda gemma, la potenza della speranza.

     Quanto è opportuno e necessario in noi ed attorno a noi credere che sempre, anche quando tutto farebbe credere il contrario, Dio fa nuove tutte le cose. 

   Dice il testo dell'Apocalisse:” Colui che sedeva sul trono disse: “ Ecco io faccio nuove tutte le cose.”

  Questa Parola deve accompagnare il nostro cammino, sostenere le nostre vite comunitarie, i nostri percorsi ecclesiali. Crediamolo per noi e crediamolo per chi, nel nostro mondo, non ha più la forza di crederlo. Di questa speranza - non facciamo fatica a convincercene - il nostro mondo ha un infinito bisogno.

I credenti devono rendere questo servizio all'umanità di oggi.

    Dobbiamo crederlo per noi – dicevamo – e per chi non riesce più a crederlo. Ma anche – essendo fedeli alla Parola di Gesù – possiamo mostrare l'autenticità di una tale speranza con la vita.

    Ed ecco comparire la terza gemma che lucente illumina il cammino e la Parola di oggi: la carità.

    Nel testo di Giovanni appena uscito Giuda  Gesù annuncia di restare ancora per poco con i suoi amici. Ora, nel momento in cui lui sta per “ scomparire” fa un dono, il comandamento nuovo: “ Amatevi come io vi ho amato.”

Gesù consegna la legge nuova, scambiarsi reciprocamente l'amore con il quale lui ha amato i suoi, in questo momento in cui annuncia la sua prossima visibile assenza.

    Perché? Che cosa realizza l'osservanza di questa nuova legge? Realizza una cosa determinante per la fede cristiana: rende visibile l'invisibile, rende visibile Gesù. Lui si prepara a tornare al Padre, ma resta visibile, incontrabile, è possibile farne l'esperienza, nell'amore reciproco dei suoi discepoli.

   In un mondo pieno di divisioni, di chiusure, diciamo pure di odi, ostilità e rivalità, l'amore reciproco dei discepoli di Gesù mostra che Dio è all'opera per fare tutte le cose nuove, mostra Dio.

Il libro di vita delle nostre fraternità – con espressione felice ed audace – parlando dell'amore fraterno ed invitando ad aprirsi al suo mistero conclude: “ In questo modo – con il vivere l'amore fraterno – dai corpo a Dio.”

    Quante volte fr. Pierre Marie ha ricordato a noi fratelli e sorelle, con la parola e l'esempio, che è qua il nostro irraggiamento evangelico nel cuore delle città. Per tutti noi discepoli di Gesù che formiamo la chiesa per trasmettere il Vangelo è certo importante la bellezza della liturgia, è utile la competenza degli insegnamenti, è necessaria la parola chiara e audace, ma una comunità cristiana unita, che si vuol bene, che nella verità si sforza di scambiarsi l'amore con il quale Dio ama per primo, grida il Vangelo senza fraintendimenti, dice la novità di Dio senza possibilità di indulgere a ideologie di sorta. L'amore che ha la sorgente in Dio non si può infatti simulare,  truccare, inventare, fingere.

   La fede, la speranza e la carità. La Parola questa domenica ci riconsegna questa tre gemme con la loro lucentezza possono illuminare e far brillare tutta la nostra vita. Chiediamo al Signore: “ Donami di credere profondamente legando a Te tutta la mia vita senza nulla negoziare, senza nulla anteporre al tuo amore; donami di sperare che la tua novità non cesserà di raggiungermi, sorprendermi e stupirmi; donami di non stancarmi mai di amare per dire al mondo la verità del tuo amore, la bellezza del Vangelo, la gioia di camminare alla tua sequela. Amen

 

venerdì 26 Aprile 2013 – Venerdì IV settimana di Pasqua - fr. Giovanni Battista FMJ


La lettura continua del vangelo di Giovanni ci conduce oggi a meditare uno dei passi più profondi e rivelativi non solo dell’identità di Gesù in se stesso, ma soprattutto di chi sia Gesù per noi: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”.

 

La Chiesa attraverso tale affermazione rivelativa di Gesù riconosce il primato e la superiorità della rivelazione di Dio in Cristo al mondo rispetto ad ogni altra forma di conoscenza di Dio e ad ogni altra religione. Di fronte al mistero del Figlio di Dio fatto uomo non è infatti l’uomo a dire qualcosa su Dio ma è Dio stesso, nella sua onnipotente umiltà, a darsi alla conoscenza dell’uomo. Il fine di tale uscita di Dio da sé altro non è se non la volontà amante di Dio di lasciar traboccare tutto il Suo amore sull’unica creatura, l’uomo, che Egli ha voluto per sé: “per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo” recita il Credo.

 

Ciò evidentemente elimina dall’orizzonte cristiano ogni sorta di sincretismo, cioè ogni sorta di livellamento omologante delle varie religioni, come se si trattassero di alternative equiparabili ed interscambiabili. Le religioni non sono tutte uguali. Non è vero che una religione vale l’altra. La parola di Gesù, in questo senso, è categorica: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. “La Chiesa dunque rispetta tutto ciò che di vero e di buono si trova nelle altre religioni; è attenta e promuove la libertà di religione come diritto dell’uomo. Tuttavia essa sa che Gesù Cristo è l’unico redentore di tutti gli uomini. Egli solo è «la via, la verità e la vita».” (YouCat 136)

 

Tale consapevolezza, invece che chiuderci nella nostra fede personale, offre alle nostre menti e ai nostri cuori un’intelligenza nuova dell’esperienza umana affinché possiamo scoprire e valorizzare con il dovuto rispetto tutto quanto di vero e santo esiste in essa come riflesso, raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini (Cfr. Nostra Aetate 2).

 

Ma un’altra riflessione si propone a partire da questa affermazione importante di Gesù: se il Figlio di Dio si è fatto via dell’uomo alla verità e alla vita è perché egli sa che l’uomo è capace di percorrere questa strada e giungere alla comunione con il Padre, laddove il Figlio stesso dimora eternamente. Siamo capaci di Dio e Dio in Cristo si è fatto alla nostra portata!

 

Sapere e vivere questo può letteralmente rivoluzionare il nostro modo di stare al mondo e offrirci quello sguardo luminoso, perché verità significa anzitutto luce, che illumina la nostra di vita affinché possiamo sempre riconoscere in essa, anche nelle situazioni più critiche e più dure da accettare, la sua potenziale disponibilità ad entrare nel mistero di Dio. Se Cristo è via ciò significa per noi che non c’è nulla di quanto viviamo che possa rimanere estraneo alla Sua azione salvifica, che è azione risanante e redentrice proprio perché conduce l’uomo alla verità e alla vita. Non c’è nulla di quanto costituisce la nostra esistenza, sia nei suoi momenti più solenni ed importanti che nelle pieghe più feriali e trascurabili, che non possa divenire luogo di incontro con il Signore Risorto, e di conseguenza luogo di comunione con Lui: “perché dove sono io siate anche voi”.

 

Aprirsi a questo mistero di Gesù via verità e vita significa allora per noi riconoscere anzitutto che la nostra vita di per sé non è una vita incompatibile e impermeabile al mistero di Dio, che l’abisso che separa cielo e terra è stato attraversato e colmato da Gesù. Ora la nostra vita può essere una vita abitabile dal mistero di Dio, cioè può divenire luogo, tenda di incontro con il sacro, o meglio con il Santo che è Cristo, porta d’ingresso al Dio Trino tutto intero, tabernacolo della presenza di Dio per la nostra gioia e per portarlo nelle nostre città assetate di felicità e di pace.

 

martedì 23 Aprile 2013 – IV settimana di Pasqua - fr. Giovanni Battista FMJ


 

Ancora una volta vediamo, nel vangelo di oggi, Gesù alle prese con i Giudei che indagano con sospetto sulla sua persona. Essi dicono di essere nel dubbio e attribuiscono la responsabilità di questo stato di non conoscenza, di incredulità, a Gesù stesso: “Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente.” Gesù da loro una risposta interessante: “Voi non credete perché non fate parte delle mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conoscono ed esse mi seguono.” Delle pecore non è detto che ascoltano le parole di Gesù, forse perché questo non basta ancora per essere delle pecore che credono e che seguono il loro pastore. Pensiamo per esempio a quanta gente conosce i fatti principali della vita di Gesù, del suo messaggio, della Bibbia e magari anche della storia e delle vicende della Chiesa però stenta ad intraprendere un cammino cristiano che le coinvolga in prima persona. Gesù finché rimane un “contenuto” da conoscere resta uno sconosciuto.

 

Le mie pecore ascoltano la mia voce.” La prospettiva è qui ben diversa: le pecore del gregge del buon pastore non sanno semplicemente delle cose su di lui, ma ascoltano una voce, la Sua, cioè riconoscono una chiamata. Non ascoltano delle parole ma la Parola rivolta a loro. Seguono una persona, quella di Gesù, non perché hanno conosciuto e valutato tutto di Lui e poi hanno preso la loro decisione, ma piuttosto perché è Lui a conoscere tutto di loro ed esse, fidandosi di questa conoscenza che Gesù ha di loro, lo seguono. C’è un Dio vivente che entra in relazione con loro ed esse imparano a riconoscere la sua voce, il suono della sua voce prima ancora che le parole stesse. Le parole, anche quelle divine infatti, come vediamo per esempio nel brano di Gesù tentato nel deserto, potrebbero essere utilizzate del diavolo, il padre della menzogna, per strapparci dalla mano del Padre. È per questo, per esempio, che la Chiesa insegna a fare una lettura ecclesiale, ossia nel medesimo Spirito in cui è stato scritto, del testo sacro. Ed è sempre per questo che “Origene, uno dei maestri della lettura della Bibbia, sostiene che l’intelligenza delle Scritture richieda, più ancora che lo studio, l’intimità con Cristo e la preghiera. Egli è convinto, infatti, che la via privilegiata per conoscere Dio sia l’amore, e che non si dia un’autentica scientia Christi senza innamorarsi di Lui”, in altre parole, senza entrare in una relazione profonda e confidenziale di conoscenza reciproca.
 

Inoltre chi conosce la voce del buon Pastore non si spaventa delle sorprese di Dio, delle novità della sua opera tra gli uomini, e dunque non teme di seguirlo verso orizzonti inesplorati. Grazie a questa conoscenza della voce del Pastore i fratelli dispersi a causa della persecuzione scoppiata a motivo di Stefano possono annunziare la salvezza a categorie di genti sempre nuove. Il testo della prima lettura sottolinea infatti che questa loro iniziativa era accompagnata o addirittura veniva dopo l’intervento di Dio stesso che loro hanno saputo vedere, riconoscere e seguire. Passaggi come: “la mano del Signore era con loro”, come “Barnaba giunse e vide la grazia di Dio”, e ancora nella lettura di ieri le parole stupite di Pietro dopo aver visto discendere lo Spirito Santo sui pagani senza che nessuno l’avesse invocato: “Se Dio ha dato a loro lo stesso dono che ha dato a noi, per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?” (At 11,17), questi passaggi, dunque, degli Atti degli Apostoli mostrano quanto non fossero loro i protagonisti dell’opera di evangelizzazione. Seppur pastori del gregge loro affidato erano anzitutto pecore in ascolto della voce di quel Buon Pastore di cui loro dovevano essere anzitutto discepoli e poi imitatori e rappresentanti. E se noi oggi siamo qui è grazie anche a loro e a molti altri amici di Gesù che hanno riconosciuto e ascoltato nell’obbedienza la Sua parola.

 

Non temiamo dunque di porci in ascolto di questa voce soave che dice a ciascuno cose uniche, personali, ad hoc e nel contempo capaci di edificare la comunità e costruire la comunione. E facendo nostra un’esortazione del beato Giovanni Paolo II, siamo più docili alla voce dello Spirito, lasciamo risuonare nel profondo del cuore le grandi attese della chiesa e dell’umanità, non temiamo di aprire il nostro spirito alla chiamata di Cristo Signore, sentiamo su di noi lo sguardo d’amore di Gesù e rispondiamo con entusiasmo alla proposta di una sequela radicale. (Pastores dabo vobis 82)

 

venerdì 19 Aprile 2013 – III settimana di Pasqua - fr. Giovanni-Battista FMJ


L’obiezione che i Giudei muovono alle parole di Gesù: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”, superata l’evidenza che il cibarsi del corpo e sangue di Cristo non si tratti di un atto di cannibalismo, come del resto fraintendevano i più antichi avversari del Cristianesimo, non è un’obiezione priva di senso. Anzi essa ne racchiude un'altra più profonda e radicale: come è possibile vivere della vita di qualcun altro? È questo il quesito che oggi si pone alla nostra meditazione del testo sacro: vivere della vita di Qualcun altro.

 

Anzitutto dobbiamo riconoscere che la parola “vita” usata in questo contesto dev’essere intesa nel senso più forte possibile. Il figlio che nasce dalla madre riceve sì la vita dalla madre ma non vive della vita della madre se non durante la gravidanza quando è in una sorta di simbiosi con lei. Il cristiano che si nutre del corpo e sangue di Cristo invece può affermare davvero di ricevere e vivere della vita di Gesù. Per usare le parole stesse di Gesù nel Vangelo di oggi: colui che mangia di me vivrà per me, cioè grazie a me e per mezzo di me.

 

Ma come è possibile questo? Per comprendere questa realtà della vita divina in noi dobbiamo cercare di penetrare un pochino il mistero eucaristico che anche ora stiamo celebrando. Sentendo infatti parlare di mangiare la carne del Figlio dell’uomo e bere il Suo sangue non possiamo non pensare all’Eucaristia consacrata all’interno della Santa Messa.

 

Le specie eucaristiche che diventano per noi pane vivo e sangue vivo ci nutrono della vita stessa del Signore Gesù. Esse, lo sappiamo, non sono più né pane né vino, se non negli accidenti percepibili ai sensi umani, ma sono realmente il corpo, il sangue, l’anima e la divinità del Figlio di Dio fatto uomo. Basterebbe sapere questo per rendere ragione di come tale vita divina passi in noi attraverso la comunione, il cibarsi dell’Eucaristia.

 

Ma possiamo spingerci oltre. L’Eucaristia infatti, come insegna la dottrina cattolica, non è solo presenza reale del Cristo tutto intero, ma anche memoriale della Sua Pasqua, ossia del Suo Sacrificio redentore sulla Croce ratificato mediante la Risurrezione e riattualizzato in ogni celebrazione della Messa. Nel Suo sacrificio Cristo da, offre la Sua vita al Padre per noi. Questo è il mio corpo che dato per voi, questo è il mio sangue versato per voi. Nutrirsi di Gesù significa dunque non solo nutrirsi della sua Persona divina, miracolo già straordinario e quotidianamente rinnovato, ma ricevere interamente il beneficio salvifico del Suo sacrificio per noi, ricevere la sua vita offerta per noi. “Nell’Eucaristia sacrificio e sacramento sono (infatti) inseparabili; la presenza reale di Cristo nell’Ostia è (sì) la conseguenza necessaria e immediata della transustanziazione. Ma lo scopo di quest’ultima è prima di tutto quello di rendere presente Cristo sull’altare in uno stato di sacrificio o di immolazione, nella consacrazione separata delle due specie del pane e del vino”. (Thomas Merton, Il pane vivo, Ed. Massimo, 1983, 51-52) Ecco perché colui che mangia Gesù vivrà di Gesù!

 

Non è un Gesù inerte quello che riceviamo nell’Eucaristia, ma è Gesù nell’atto supremo del suo amore per il Padre e per gli uomini, è Gesù che continuamente si dona a noi. Comunione eucaristica significa allora comunione al sacrificio eucaristico, è il mistero pasquale che entra nella nostra vita, o meglio è la nostra vita che viene assorbita nel mistero pasquale perché, come pregheremo nell’orazione sulle offerte, sia trasformata in offerta perenne in unione alla vittima spirituale, Gesù servo del Padre, unico sacrificio gradito.

 

Come è possibile vivere allo stesso modo dopo essere stati nutriti di Gesù stesso crocifisso e risorto? Come opporre resistenza a questa divinizzazione in atto nelle nostre vite che ci rende sempre più simili a Gesù. Se i discepoli di Emmaus lo riconobbero nello spezzare il pane, ossia nel gesto a cui Cristo legò il memoriale della sua Pasqua, possano ancora molti uomini riconoscerLo nel Suo offrire se stesso attraverso le nostre povere vite inabitate dalla Sua presenza incessantemente amante.

 

giovedì 18 Aprile 2013 – III settimana di Pasqua - fr. Giovanni-Battista FMJ

 

Nel vangelo di oggi si incontrano, non senza un certo contrasto, due modi diversi di avvicinarsi alla persona di Gesù. Il primo modo è quello che emerge nei passaggi immediatamente precedenti a quelli ascoltati: i Giudei mormorano perché pensano di conoscere Gesù: ne conoscono il padre e la madre, è il figlio del falegname, come può dire di se stesso di essere disceso dal cielo? Essi non riescono ad armonizzare in modo ragionevole le conoscenze che hanno sull’uomo Gesù e quello che lui dice di se stesso. Il loro orizzonte conoscitivo si esaurisce in quello che loro sanno, che loro possono testimoniare di Lui. Non ammettono qualcos’altro, non ammettono che qualcosa possa loro sfuggire, non c’è spazio per alcun’altra interpretazione del pezzettino di realtà che loro conoscono, neppure la testimonianza di Gesù stesso e le opere miracolose che egli compie.

Questo tipo di conoscenza di Gesù è quella che San Paolo definirà, riferendosi al suo passato di persecutore di Gesù e della Chiesa, conoscere Cristo “secondo la carne”, o, più precisamente, con la nuova traduzione, “alla maniera umana”, ed è certamente una modalità di conoscere il Signore che si ripresenterà anche più in là nella storia e che anche oggi non è assente.

 

In questo contesto possiamo dunque collocare meglio il secondo modo di avvicinarsi alla persona di Gesù, quello che Gesù stesso indica: “nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che lo ha mandato”. Anzitutto è interessante notare che emerge qui il ruolo attrattivo del Padre per indicare che non basta lo sguardo umano per volgersi a Gesù, non bastano lo sforzo, l’iniziativa, la buona volontà, ma c’è un essere attratti che ha alla base il Padre, Dio stesso. Possiamo dire che c’è una spinta teologica, cioè che viene da Dio stesso, che muove il nostro volgersi a Cristo.

 

In secondo luogo notiamo che Gesù, di fronte alla gente che mormora di Lui dubitando di quanto dice di se stesso, non ribatte parlando di conoscenza più o meno vera o falsa, ma di fede. È questo infatti il significato del “venire a me”, che è dunque sinonimo di “credere in me”. Tali constatazioni hanno per noi delle conseguenza non indifferenti.

 

Non c’è conoscenza autentica di chi sia Gesù senza la fede, senza venire a lui. Conoscere Gesù è credere in Lui, entrare in relazione con Lui, in fondo, capire chi sia Gesù per me. Finché si rimane a parlare di Gesù in terza persona, di un lui sconosciuto e magari lontano, perché è un personaggio del passato il cui studio è delegato eventualmente alla ricerca storica, perché è un Dio e dunque incomprensibile perché al di là di questo mondo, rimarremo sempre al livello di una conoscenza alla maniera umana. Potremmo essere anche i più grandi studiosi della Bibbia o i più eruditi storici del Cristianesimo ma certo non per questo avremmo automaticamente il diritto di considerarci degli autentici conoscitori e amici di Gesù. La conoscenza autentica di Gesù è quella che viene dalla fede viva, cioè dal lasciarsi attirare in una relazione sempre più quotidiana, feriale, profonda col Figlio di Dio fatto uomo. È quella che dice sì alla parola di Dio, trasformando quanto letto, studiato o meditato in cammino di sequela, è quella che guarda a Gesù come il Dio vivente, è quella che accetta di nutrirsi di Lui, facendo della Sua vita la propria vita. Le conoscenze varie, storiche, bibliche o teologiche certo interessanti, e sicuramente utili, non vanno disprezzate ma, bisogna dirlo, conservano un posto strumentale in ordine alla vera e propria accoglienza della rivelazione del Figlio di Dio fatto uomo che accade nell’incontro personale ed ecclesiale con Colui che da la vita la mondo. Di questa salvezza annunciata e accolta è testimone l’eunuco etiope della prima lettura di oggi che si lascia guidare dallo Spirito attraverso la mediazione della Chiesa rappresentata da Filippo, dalla lettura del testo sacro, alla comprensione del suo vero significato rivelativo di Gesù Cristo, all’accoglienza di tale rivelazione nella richiesta di essere battezzato.

 

Come ha pregato il Santo Padre Francesco in un suo recente discorso, la Vergine Maria, modello di docilità e obbedienza alla Parola di Dio, ci insegni ad accogliere pienamente la ricchezza inesauribile della Sacra Scrittura non soltanto attraverso la ricerca intellettuale, ma nella preghiera e in tutta la nostra vita di credenti.

 

Domenica 14 Aprile 2013 – III settimana di Pasqua – fr. Giovanni-Battista FMJ

 

Sette discepoli di Gesù, l’abbiamo ascoltato nel Vangelo di oggi, vanno a pescare sul mare di Tiberiade. Sono a conoscenza che Gesù è vivo, è il Risorto, l’hanno incontrato e Tommaso aveva perfino messo alla prova le parole dei suoi confratelli finché Gesù in persona non si sarebbe manifestato di nuovo, eppure, nonostante questi incontri assolutamente unici, tutto sembra come prima: un normalissimo ritorno alla vita ordinaria, all’attività di pescatori che aveva caratterizzato diversi di loro prima di essere chiamati a camminare alla sequela di Gesù.

 

Ma questi tre anni di frequentazione del Signore sulle vie della Galilea e della Giudea erano forse solo una parentesi nella vita di queste persone? Cristo era Risorto, i discepoli lo sapevano e l’avevano visto, ma forse non avevano ancora capito davvero che questa risurrezione non era soltanto un evento di Cristo, qualcosa che riguardava solo Lui, ma che anche loro erano chiamati a risorgere, e non solo nella risurrezione finale dell’ultimo giorno. E che loro non smettevano di essere i Suoi amici, i Suoi Dodici, quelli chiamati a stare con Lui e ad essere mandati, la primizia della Chiesa nascente.

Gli apostoli sanno perciò che Gesù è vivo ma non sanno ancora, nel concreto della loro vita, cosa significhi questa vitalità del Signore nella storia degli uomini.

 

Essi dunque vanno a pescare ma la loro attività di pescatori si rivela fallimentare. Forse dopo tre anni in giro con Gesù avevano perso un po’ la mano, non avevano più quella maestria di un tempo. In realtà il problema è un altro: non era ancora venuta l’alba, non era ancora sorto in loro il vero sole che illumina l’uomo in ogni ambito della sua vita. L’iniziativa, il primo passo è ancora di Gesù: “Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù.”

 

Gesù, spettatore attento dell’attività e della malinconia dei Suoi amici che non riescono a pescare nulla, rimane ai loro occhi uno sconosciuto. Egli è così vicino a loro, eppure loro non se ne accorgono. Quante situazioni simili a questa viviamo anche noi nella nostra vita. Quante volte abbiamo il sospetto di essere soli con i nostri problemi, la nostra quotidianità che talvolta sembra essere così lontana dalle cose di Dio, dall’esperienza di Lui. Quante volte ripensiamo con nostalgia al passato rimpiangendo momenti di vita autentica, di intimità col Signore, di felicità. E quante volte, invece, il Signore risorto ci guarda, ci osserva, è lì vicino, ci rivolge una parola, insomma è il Dio con noi, ma noi non siamo con Lui! Si tratta solo di un problema di nostra poca fede? È possibile, però dal Vangelo di oggi capiamo che forse non è tanto un problema di fede, non si tratta forse di cercare di avere una fede più grande, ma di cercare di usare davvero questa fede, anche qualora fosse grande solo come un granellino di senape, che, come gli apostoli che vanno a pescare, anche noi abbiamo.

 

E usare la fede significa fidarsi: sia abbandonarsi sia attivarsi. “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”. È questa una parola di Gesù umanamente facilmente confutabile e criticabile dopo una notte di pesca andata a vuoto. Tra l’altro i discepoli non sanno che quell’uomo sulla spiaggia è Gesù, obbediscono a uno sconosciuto, a un passante, forse ad una persona che sembra loro un po’ importuna. Magari si chiedono: “Ma questo qui vuole venire a insegnare a noi che siamo pescatori?” Nonostante tutto si fidano di questa parola strana e solo dopo questa fiducia nel concreto i loro occhi si aprono come ad una nuova rivelazione del loro Maestro, presente e attivo nella loro vita come un tempo. “Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». La loro fede si nutre di questo loro atto di fiducia nella Parola di Gesù, la fede funziona davvero!

 

Il Signore dunque è intraprendente, è Lui a fare, ancora una volta, il primo passo, ma una cosa è certa: non può rispondere Lui al nostro posto! Se Lui ha il primato della chiamata, a noi spetta il primato della risposta. E se vogliamo essere dei cristiani che non solo sanno che Dio c’è, ma che lo conoscono e riconoscono davvero nella loro vita quotidiana, dobbiamo avere il coraggio anche noi, come questi sette apostoli, di fare un passo nel buio, di osare usando quella fede che abbiamo ma che talvolta ci fa un po’ paura. Usiamo la nostra fede, ascoltiamo, dalle acque tumultuose di questa vita instabile, la parola strana di quello Sconosciuto che dalla terra ferma dell’eternità ci chiama, ci custodisce e ci guida. Allora vedremo l’Invisibile, riconosceremo che anche nella nostra vita c’è Gesù Risorto che ci invita alla comunione con sé. “«Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore.”

 

giovedì 11 Aprile 2013 – II settimana di Pasqua (S.Stanislao) – fr. Giovanni-Battista FMJ


 

Obbedienza a Dio, obbedienza agli uomini; venire dall’alto, venire dalla terra. Nelle letture di oggi risalta con particolare evidenza l’irriducibile opposizione tra le due appartenenze, le due scelte di vita che sono poste di fronte all’uomo di ogni tempo: l’appartenenza a Dio e l’appartenenza al mondo. Si tratta dell’opposizione di sempre, quell’opposizione che come abbiamo celebrato pochi giorni fa ha toccato il suo grado massimo nella lacerazione del Figlio di Dio sulla Croce. Anche gli apostoli, come abbiamo ascoltato nella prima lettura, si trovano a combattere contro il medesimo spirito che condusse Gesù al patibolo, quasi come una necessaria conseguenza, un destino inevitabile per coloro che scelgono di vivere come il loro Maestro. Non si possono infatti servire due padroni: o si odierà l’uno e si amerà l’altro, o si amerà l’uno e si odierà l’altro. Questa separazione tra lo spirito di Dio e lo spirito del mondo deve essere ben chiara nella coscienza del cristiano e dunque nelle nostre menti. Il cristiano vive nel mondo come cittadino di un’altra patria e di un altro regno, suddito di un altro re, sottomesso ad un’altra legge.

Tale opposizione tra spirito di Dio e spirito del mondo, porta, come dice sant’Agostino, addirittura alla costruzione di due città diverse: la città di Dio edificata dall’amore per Dio portato fino al disprezzo di sé, e la città degli uomini, costruita sull’amore per sé portato fino al disprezzo di Dio. E la risurrezione di Cristo che celebriamo in questo tempo pasquale ci dice che la città di Dio non è una città senza abitanti, ma è addirittura la dimora del Dio vivente e del Cristo Risorto.

 

Per noi che viviamo ancora nel tempo non è facile vivere l’ambiguità di questo mondo, di una realtà che appare duplice, ne buona ne cattiva, ma in parte buona e in parte cattiva. Non è facile perché questa doppiezza, che pure ci portiamo dentro, richiede necessariamente un continuo discernimento, un’instancabile vigilanza per scegliere la strada giusta. E nel contempo, richiede il coraggio di andare controcorrente, perché scegliere il bene e rigettare il male significa andare controcorrente, talvolta fino al rinnegamento di se stessi e all’effusione del sangue.

 

È quanto sperimentò sulla sua pelle anche il vescovo e martire san Stanislao che oggi la Chiesa ricorda. Nato nel 1030 in un paesino alla periferia di Cracovia, visse proprio nel periodo della riforma gregoriana ossia in quell’epoca storica in cui la Chiesa tentò di rinnovare i suoi rapporti con il mondo rendendoli più liberi, più autonomi, più evangelici, meno frammisti agli interessi mondani dei potenti della terra. Stanislao, una volta divenuto vescovo a 42 anni, si attivò per attuare la riforma gregoriana in alcune regioni della Polonia e la serietà del suo proposito si spinse fino a rimproverare i costumi del re Boleslao che commetteva soprusi contro i poveri, si era innamorato di una donna sposata e conduceva una vita immorale con grave scandalo dei sudditi. Il re si vendicò con le armi del mondo, la violenza, l’arma di chi sa che non può contare sulla forza della verità: prima uccise e poi fece a pezzi Stanislao, che, come abbiamo pregato nell’orazione colletta, concluse con il martirio il suo servizio pastorale.

 

La testimonianza di trionfo della carità nella verità che san Stanislao ci offre in continuità con la parresia degli apostoli che non temevano di ribattere che “bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini” sono perpetua rivelazione nella vita degli uomini di quanto l’esistenza umana possa essere trasformata dalla forza della risurrezione di Cristo e rappresentano per noi una decisa chiamata a non cedere mai alla mediocrità, a non vivere nel NI ma a scegliere la via di Dio ogni giorno e in ogni ambito della nostra vita. La via di Dio è in fondo la via autentica dell’uomo, la strada sicura per l’edificazione di una comunità e di una città che siano profezia ed anticipazione della Gerusalemme celeste, a cui tutti aspiriamo.

 

mercoledì 10 Aprile 2013 – II settimana di Pasqua - fr. Giovanni-Battista FMJ


 

La liturgia della Parola di questo giorno del tempo di Pasqua è una testimonianza quanto mai convincente di come la forza della risurrezione di Cristo sia viva e attiva nella storia degli uomini e in particolare nella storia di coloro che la accolgono consapevolmente, ossia nella storia dei cristiani e della Chiesa.

 

Dalle guardie che vegliavano la tomba di Gesù per paura che i suoi discepoli trafugassero il cadavere inventandone poi la risurrezione, si passa oggi, nella prima lettura, alla prigione in cui gli apostoli sono rinchiusi, scrupolosamente sbarrata e sorvegliata dalle guardie. Dalla proclamazione, pochi giorni fa, di un sepolcro vuoto, alla constatazione attonita di una prigione vuota: “quando abbiamo aperto – dicono gli inservienti del carcere – non vi abbiamo trovato nessuno.”

La luce della risurrezione di Cristo non può essere vinta dalle tenebre dell’incredulità. La luce cerca la luce: “Andate e proclamate al popolo, nel tempio, tutte queste parole di vita”. Gli apostoli, gli amici di Gesù che avevano vissuto con Lui, rivivono nelle loro fatiche per l’annunzio del Vangelo lo stesso passaggio dalla forza costrittiva ed avversa di chi vuole ostacolare l’avanzata del piano di Dio, alla salvezza operata da Dio che l’antico popolo in fuga dal faraone aveva sperimentato nella sua Pasqua, e che Gesù, primizia del Nuovo Israele, aveva elevato ad una dimensione di salvezza eterna. Il buio dei sadducei, che negando che ci fosse risurrezione dei morti erano sostenitori di una morte irrevocabile e si ponevano dunque a priori come nemici dell’annunzio del Cristo Risorto, non riesce ad arrestare il coraggio degli apostoli che, pur consapevoli di essere fuori legge, vanno nel punto più pericoloso per loro, ossia nel tempio, e qui insegnano al popolo. I pescatori che poco tempo prima erano rinchiusi per paura dei Giudei, ora non temono più nulla.

 

Cosa c’è alla base di questo coraggio? Forse un eroicità puramente umana, esibizionista? Forse il tentativo politico di una nuova comunità nascente, come era la Chiesa in quei giorni, di rendersi superiore alle antiche istituzioni religiose giudee? In molti hanno tentato di contenere in comode teorie non verificabili l’evento della risurrezione di Cristo e tutto quanto eccedeva all’umanamente comprensibile nel testo del Vangeli. E anche oggi non manca chi si sforza di rendere ragione del trascendente nella storia degli uomini riconducendolo allo psichico, all’interiore, insomma al puramente soggettivo e dunque qualcosa che in fondo sei tu che ci credi ma in realtà non è così. Eppure, nonostante tutto, la corsa del Vangelo non cessa.

Gli apostoli avevano fatto esperienza nella loro vita di quanto erano amati dal Signore e corroborati dalla forza dello Spirito Santo, non vogliono più vivere se non per questo amore che li ha conquistati, catturati, consacrati. È questa la forza della risurrezione del Signore che quando penetra nella mente e nel cuore di chi crede da il coraggio di uscire da se stessi per gettarsi in una vita nuova, la vita del Cristo Risorto in noi. L’amore non teme di andare, non teme di uscire, non teme di camminare in una valle oscura, come dice il Salmo. È l’annunzio del Vangelo di Giovanni: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.”

Questo tempo di Pasqua è allora per noi chiamata, prima ancora che ad andare ad annunziare l’amore del Signore, a scoprirlo o riscoprirlo nella nostra vita per poter portare in noi stessi, come ha detto il Papa, “un raggio del suo amore a quanti incontriamo.” (Udienza generale del 27 marzo 2013)

 

martedì 9 aprile 2013 - II settimana di Pasqua - Gv. 3, 7-15 - fr. Nicolas-Marie FMJ

 

Siamo a Gerusalemme nella festa di Pasqua (cfr. 2,23), Gesù ha purificato il tempio, molti credono in Lui.

Tutto è pronto per la festa, nella quale Gesù rinnova l’alleanza e ci dona il cuore nuovo e lo spirito nuovo.

Siamo di notte, nell’ora del desiderio, dell’anelito profondo.

Nicodemo viene da Gesù, un maestro d’Israele cerca la luce, e con lui il popolo, tutto il creato, geme, sospira, desidera il sole, la vita nuova!

“non meravigliarti se ti ho detto: bisogna che voi siate generati dall’alto”

Spesso pensiamo che dobbiamo noi darci da fare per scalare e conquistare non soltanto il cielo, ma la felicità in questa vita, e un posto in questo nostro mondo, e magari anche nella Chiesa, nella famiglia, nella comunità, nell’ambiente dove viviamo.

Vogliamo essere padrone e maestro della propria vita.

Siamo figli di Adamo che ha messo mano sul frutto bello, ha voluto impadronirsi del dono dimenticando il Donatore!

Essere generato dall’alto è riconoscere questo dono immenso, così grande che non può essere imprigionato tra le nostre mani, quello di essere figli di Dio, figli prediletti, beneamati.

Siamo chiamati a camminare sulla via della vita, non, per così dire, rannicchiati su di noi e sul piccolo orizzonte di questa terra, ma ad alzare gli occhi, tutto il nostro essere, verso l’alto, verso il Signore, fonte della vita.

“Sursum corda!”

“In alto i nostri cuori!” canta la liturgia.

“Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù,

non a quelle della terra.”(Col. 3,1-2)

Questa accoglienza della vita nuova, della vita dall’alto, è fondata su un atteggiamento di abbandono: abbandono dell’uomo vecchio

e delle sue abitudini di morte fino all’abbandono di se stesso nelle mani del Padre.

Si tratta di lasciare le proprie sicurezze che non sono che paura, per entrare in questa umana insicurezza che diviene divina fiducia,

e che è la maggiore sicurezza: quella di essere nel Padre, tra le sue mani, Lui, il nostro Creatore.

Lo sappiamo, e questa è la nostra forza, unica!

“Niente e nessuno ci potrà mai separare dall’amore del Padre, che è Cristo Gesù, nostro Signore” (cfr. Rm 8,38)

E’ lo Spirito di Dio che ci stabilisce in quella dinamica di vita fondata su quest’abbandono fiducioso e amorevole.

Non si tratta di essere come fanciulli  in balie delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ma sotto la guida dello Spirito, quel vento di vita, soffio divino, che ci dona di crescere in ogni cosa tendendo a Cristo, (cfr. Ef. 4,14-15) avendo lo sguardo fisso su Gesù, origine e capo, compimento della nostra fede. (cfr. Eb. 12,2)

Non è che ignoriamo lo scopo della nostra vita, o che siamo in balia dell’esitazione!

Ci affidiamo, ci abbandoniamo per sempre alla misericordia del Signore (Sal 51,10)

Vogliamo che sia Lui e Lui solo a guidare i nostri passi; sulla scia di Pietro che scopre, nella luce della Risurrezione, che la vera maturità, è nel tendere, nell’aprire le mani come Gesù, e nel lasciarsi guidare da Lui, portare da Lui! (cfr. 21,18)

Tutta la nostra vita è fondata su una sola parola: “Tu seguimi”

Per te, apro la porta del cielo! Lasciati portare da me! Vivi con me l’esodo, la Pasqua, da questo mondo, dalla terra, al Padre.

Ti sollevo come su ali di aquila, nel soffio dello Spirito, e ti faccio venire fino a me! (cfr. Es 19.3) Vieni ed entra nella mia alleanza!

Conoscerai il tuo Dio!(cfr. Os 2, 21-22) (Ti farò mia sposa per sempre, nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza,

nella fedeltà!)

 

lunedì 8 aprile 2013 - solennità dell'Annunciazione - Prima S.Messa fr. Giovanni Battista - Omelia fr. Massimo-Maria FMJ


 

     La Solennità dell'Annunciazione del Signore che stiamo celebrando in questo giorno è stata definita anche la festa del “Sì”.

Accostandoci a questa liturgia ed alla Parola che in essa è stata proclamata non è difficile scoprire come due “ si “ misteriosamente e provvidenzialmente si incrociano: l'” Eccomi “ della Madre e “ l'eccomi “ del Figlio.

     I due “ eccomi “ si incrociano perché il mistero di Maria è da sempre profondamente inserito , nel “ Si “ del Figlio Gesù, ma il “ sì “ del Figlio misteriosamente nasce passando attraverso l'” eccomi “ del cuore amante e docile della Madre.

Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola.” Come, abbiamo ascoltato, così risponde Maria Santissima alla chiamata dell'angelo.

     Un “ Sì “ capace di far trasalire di gioia profonda il cuore di ogni credente tutte le volte che esso risuona.

    Un “ Sì “ che evoca tutto il mistero di Maria: mistero di umiltà e di silenzio, di libertà e di tenerezza materna, mistero di donazione e appartenenza radicale al mistero di Dio.

     E' vero che il momento più intenso dell'Eccomi di Maria fu l'annunciazione, ma poi certamente ogni istante della sua vita si è sincronizzato con quel “ Sì “ generoso e totale,un “ sì “ infatti che ha significato da subito “ per tutto “ e “ per sempre “.

     Che cosa ha realizzato questo “ Eccomi “? O meglio : “Che cosa ha permesso nella storia questo “sì” generoso e a tutto campo di Maria? “

     Certo il mistero dell'Incarnazione,! Ma possiamo dire, ha ancor prima, ha aperto il varco all'irruzione dello Spirito nella sua vita, nell'esistenza di Maria, una irruzione così potente che appunto “ ….Il Verbo si è fatto carne. Dio si è fatto uomo. Il Figlio di Dio è divenuto figlio dell'uomo.”

     L'angelo glielo aveva annunciato:” Lo Spirito Santo scenderà su di te...ti coprirà con la sua ombra...Colui che nascerà sarà il Figlio di Dio.”

     Il “ si “ di Maria, come sempre ogni “ si “a Dio è concreta disponibilità a che l'azione dello Spirito sia libera, sovranamente libera nel cuore di chi lo pronuncia; è disponibilità a che lo Spirito possa compiere agilmente e liberamente l'opera di Dio.

     Al “ Sì” umile e dolcissimo di Maria, fa eco un altro “Sì”, altrettanto libero e pieno: “ Un corpo mi hai preparato. Allora ho detto “ Ecco io vengo per fare o Dio la tua volontà.”

     Il “ Sì” di Gesù, Figlio di Dio e figlio di Maria. Anche questo “sì “ è piena consegna allo Spirito , piena disponibilità a che Lui compia l'opera di Dio: “ E Il Verbo si fa carne. “

     Il si del Figlio passa misteriosamente attraverso l'eccomi della Madre, ma il Si della Madre è da sempre tutto nel Sì del Figlio.

     E tutto questo è vero per ogni altro “eccomi” pronunciato dai discepoli di Gesù nella storia dell'umanità: quello della nostra fede battesimale, quello della fedeltà coniugale di tanti di voi, quello della vita consacrata di molti qua presenti e quello dei sacerdoti come lo è da ieri sera fr. Giovanni Battista.

     Il tuo “ si “ è tutto nel Si di Gesù, e come Lui anche tu attraverso il tuo “ Si “ piccolo e povero ,ma totale e generoso hai permesso allo Spirito attraverso il ministero del Vescovo di fare irruzione nella tua vita e consacrarti per sempre sacerdote dell'Altissimo, ministro di Gesù il Risorto e presbitero della Santa chiesa di Dio.

 

     Il primo sentimento per questo, in te e in noi è certamente quello del rendimento di grazie al Signore, perché ti ha chiamato, ti ha amato e così lo Spirito ti ha unto.

     Non certo per meriti particolari, ma per un mistero di puro e gratuito amore.

     Ma fratelli e sorelle cosa significa che per l'unzione dello Spirito da ieri e per sempre fratel Giovanni Battista è divenuto– come dicevo -sacerdote di Dio Altissimo, ministro di Gesù Cristo e presbitero della Santa Chiesa ?

     La sua vita è legata al mistero santo di Dio per il sacramento del Battesimo, per la sua cresima, per la professione monastica, per il diaconato ed ora, con una completezza crescente, per l'ordine sacro del presbiterato.

     Legato a Dio! Ecco il mistero del sacerdote. Giovanni Paolo II parlando ai sacerdoti una volta riassunse tutto ciò con una felicissima espressione : “ In un mondo immerso nel relativo siate voci che parlano di Assoluto.” Il prete quindi un uomo legato a Dio! E' la prima verità della sua vita.

     Per questo, come già fa da monaco, ma ora ancor più, fr Giovanni Battista ogni giorno dovrà offrire a Dio anzitutto il suo cuore e in quest'offerta dovrà fare quanto ieri sera abbiamo fatto insieme cantare che: “ Il suo amore è per sempre”. S. Agostino direbbe, con la bocca, con il cuore e con la vita.

     “ Il suo amore è per sempre. “ Cantare nel proprio cuore questa verità fondamentale della nostra fede cristiana, cantarla offrendo per questo a Dio il proprio cuore, cantarla con la bocca nel ministero della Parola, cantarla con il ministero dei sacramenti, cantarla con lasciarsi configurare sempre più all'offerta del Unico e sommo sacerdote Gesù il Signore è riassunta qua l'identità del sacerdote di Dio, l'Altissimo.

    Da sempre carissimi fratelli e sorelle Dio ci ama, non c'è nulla di più vero e niente di più reale, se così non fosse noi non esisteremmo, ed il sacerdote è chiamato a cantare nel suo cuore questo eterno amore di Dio, e ad aiutare i discepoli di Gesù, laddove la Provvidenza lo pone, a fare lo stesso.

Il suo amore è per sempre “.

     Farà forse fatica a cantare e a far cantare l'amore di Dio, a far sentire che Dio ci ama da sempre, e che questo amore non può essere scalfito da nulla, neppure dal nostro peccato. Ma caro Giovanni Battista lo Spirito che ieri sera ti ha consacrato sarà la tua consolazione per cantare questo amore, la tua forza per attrarre i tuoi fratelli e sorelle nello stesso canto.

Legato a Dio! Madeleine Delbrel, così cara alle nostre fraternità ha scritto con eloquenza unica:” Che cosa desideriamo per un sacerdote? Desideriamo per lui che si realizzi nella sua vita ciò che noi stessi vorremmo trovare in lui. Desideriamo che prima di essere questo o quello egli sia di Dio; che sia il vivente richiamo di ciò che nel più profondo di ogni battezzato è di Dio; che sia “l'uomo di Dio”e tutto il resto sia in lui come conseguenza della sua appartenenza a Dio a tal punto che i non credenti inciampino in lui come una realtà evidente ed al tempo stesso assurda, come nella prova di un Dio impossibile.”

      Sacerdote di Dio Altissimo, ti ha consacrato lo Spirito, e ti ha costituito ministro di Gesù Cristo.

     San Tomaso d'Aquino con una immagine forte e diremmo consolante ha scritto che, quando Gesù, dopo i giorni della sua Resurrezione, sapeva che partiva, con destinazione il cielo, in attesa della sua ultima venuta, non volendo lasciare gli uomini senza qualcuno che ri-dicesse e che ri-facesse, quello che Lui aveva detto e fatto, scelse per sé alcuni come ministri. Dunque per se!

     Giovanni Battista è ministro di Gesù Cristo, questa verità seconda solo nell'ordine, ma come la precedente – sacerdote di Dio – primaria e fondamentale, fa di lui, come si dice con una espressione audace ma eloquente se ben compresa, un altro Gesù Cristo.

     E' per questo che celebrerà come ha cominciato ieri sera e come presidente sta facendo ora, l'Eucarestia segno grande e bello dell'amore infinito di Dio per ogni uomo. Per questo assolverà, non certo nella sua forza e nel suo amore, ma nella forza dello Spirito e nella forza di Gesù, il peccato degli uomini, esercitando quel ministero della consolazione e della misericordia, di cui oggi il mondo ha un bisogno urgente ed infinito.

     Ministro della misericordia di Gesù Cristo, ministro del perdono di Gesù Cristo, ministro della concordia e della pace del Vangelo di Gesù Cristo, ministero dell'unione delle menti e dei cuori.

 

     Ministro di Gesù Cristo. Possa viverlo con generosità e gioia crescente nella tua vita.

     E infine, presbitero della Chiesa.

     Presbitero vuol dire colui che è diventato almeno un po' maturo nella fede, certo nella speranza, generoso nella carità. Certo chi di no può dire di esserlo? Tutti infatti in questo siamo sempre novizi, tuttavia l'unzione dell'olio che nel ministero del Vescovo abbiamo ieri sera ammirato ti ha reso nella chiesa di Dio: presbitero.

     Presbitero nella chiesa e della chiesa.

     Guai a dimenticare questo. Nella chiesa e della chiesa. Tu non amministri una cosa tua, tu non annunci una cosa tua, tu non celebri mai una cosa tua, tu non decidi una cosa tua, tu non amministri una cosa tua. Sei di Cristo e della Chiesa, non sei per te ma per gli altri. La coscienza di essere della chiesa e per la chiesa è garanzia sicura per custodire davanti alle cose sante che la chiesa ti ha affidato, sempre e solo servo mai padrone.

     Presbitero della chiesa. Per questo se per ogni credente, per ogni consacrato è essenziale l'amore affettivo ed effetttivo alla chiesa che si declina nell'accoglienza e nell'obbedienza al suo insegnamento, al suo magistero ed alla sua disciplina, per un presbitero della chiesa questa comunione con la chiesa non è mai negoziabile.

     Il tuo ministero lo vivrai inserito nella chiamata monastica che il Signore ti ha rivolto con lo stesso gratuito amore. Un passaggio di una omelia dell'allora cardinale Joseph Ratzinger per una ordinazione di un monaco è davvero preziosa: ” Essere sacerdote significa, a partire dalla comunione amichevole con Cristo, divenire anche amico di tutti i fratelli e le sorelle. La manifestazione più intima di tale amicizia verso gli uomini è portare nella preghiera tutti loro, tutte le loro preoccupazioni, i loro dolori, le loro sofferenze, le speranze e le gioie al cospetto del Dio vivente. Il sacerdote deve, per così dire, raccogliere ciò che di irrisolto si nasconde nelle attività quotidiane e ciò che negli eventi di questo mondo angustia e minaccia gli uomini, e deve portarlo in alto, affinché diventi una supplica al Dio vivente, colpisca il suo occhio, il suo orecchio, il suo cuore.....Questa è quindi la prima e più intima funzione del ministero sacerdotale: comprendere ed accogliere le cose umane e trasformarle in preghiera, in modo che ciò diventi un grido davanti al volto di Dio, un grido che, toccando il suo cuore, sempre e di nuovo lo induca a discendere, a venire in mezzo a noi per redimerci.”

     Il nostro augurio allora per il tuo ministero è, com'è facile dire felice, pieno del dono della grazia questo sì, pieno del desiderio di servire questo sì, pieno della volontà di vivere ogni giorno non per te, ma per Dio, per la chiesa per i fratelli questo sì. Il Signore ti accompagni e la Vergine Maria ti custodisca.

     Così sia.

 

Domenica 7 aprile 2013 - II Domenica dopo Pasqua ( Gv 20, 19-31) - fr. Nicolas-Marie FMJ


In mezzo a questa moltitudine di uomini e di donne che credono nel Signore, in mezzo agli ammalati nelle piazze, ci siamo anche noi!
Pietro ci copre con la sua ombra.
Guidati dagli apostoli andiamo incontro a Gesù.
Guidati da Pietro, da Giovanni e da Tommaso, nostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù (Ap 1,9).
Quest'ultimo viene chiamato Dìdimo, cioè gemello, Tommaso è gemello di molti fratelli.
E' gemello di Giuda, perché come lui rischia di perdersi nella notte dell'incredulità, della ribellione, del tradimento e della morte, tagliandosi fuori dalla comunità,
al cui centro, come cuore pulsante, fonte zampillante di vita, sta il Signore, il Crocifisso risorto.
Tommaso è gemello nostro, come noi, non ha ancora visto il Signore, cammina zoppicante sulla via della fede.
Con noi viene chiamato a diventare gemello di Gesù, vivendo con lui.
Infatti se Pietro è disposto a "dare la vita" per Gesù (13, 37), Tommaso vuole morire con Gesù (cf. 11,16).
Ama Gesù e vuole seguire l'Agnello ovunque vada ( Ap 14, 4), fino alla morte. 
Ma egli ignora ancora che la morte non ha l'ultima parola.
La morte di Gesù, e la nostra con Lui e in Lui, non finisce nel nulla, ma è una Pasqua, un "passare da questo mondo al Padre" (13, 1).
Un passare che si vive nel consegnarsi assoluto, totale, di sé stesso nelle mani del Padre della vita, dalle quali nulla, niente ci può strappare (cf. 10, 28-29).
La morte di Gesù, quell'abbassamento quasi al di sotto della condizione umana, come schiavo, "verme e non uomo, rifiuto..." (Sal 21, 7) per poter portare ogni uomo, e riportarlo alla casa del Padre di ogni misericordia e tenerezza, che "ci ha scelti in Gesù prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d'amore e della sua volontà,  a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato" (Ef 1, 4-6).
 

Fratelli e sorelle,  ecco il progetto di Dio su di noi, il suo desiderio che supera ogni umana attesa.
Con Tommaso scopriamo con stupore che il nostro orizzonte è troppo stretto,  imprigionati come siamo nel nostro ragionare.
Davvero il nostro Dio è grande, e ci guida su una terra ampia e spaziosa, infinita, come le sue braccia allargate e spalancate.
Con Tommaso passiamo da un amore senza speranza, disperato, alla pienezza di vita nella casa del Padre, dove c'è una dimora infinita, un posto, non per tutti,
ma per ciascuno!
Agli Apostoli imprigionati, ammucchiati dalla paura della morte, a Tommaso che fatica così tanto a credere, Gesù viene e dice: "Pace a voi!" Pace a te!
Il Signore viene a visitarci, noi che siamo seduti nelle tenebre e nell'ombra di morte.
Egli non si vergogna dei suoi fratelli (cf. Eb 2, 11) anche se noi l'abbiamo abbandonato, rinnegato e tradito.
"Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno" (Lc 12, 32).
Gesù viene e la luce scende nei loro cuori, illumina i loro volti e irradia il loro essere.
"Guardate a lui e sarete raggianti" (Sal 33, 6).
Gesù ci chiama ad alzare lo sguardo verso di Lui che noi abbiamo trafitto (19, 37; cf. Zac 12, 10).
Gesù ci mostra le mani forate e il fianco trafitto, si manifesta a noi come Colui che espone e depone la sua vita per noi!
Sono le sue ferite la sorgente della pace vera, profonda, duratura.
Sono le sue piaghe che ci guariscono (Is 53,5) dandoci di vivere, di dimorare all'ombra dell'Altissimo.
Avviciniamoci a Lui!
"Alzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto!
O mia colomba che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è incantevole" (Cant 2, 13b-14),
Con Tommaso, che finalmente si lascia prendere per mano dal Signore e guidare da Lui, entriamo nella sua dimora e affascinati, incantati rispondiamo:  "Mio Signore e mio Dio!" Mio Dio e mio tutto!
Amico mio che hai dato , deposto la tua vita per me! (cf. Gv 15,13).
Mi ero rinchiuso nella pietra del mio cuore indurito (cf. Ez 11, 18), Ma da questo mio sepolcro tu fai togliere la pietra e mi chiami alla luce: "Vieni fuori!" (Gv 11, 38.43).
Tu mi apri le porte della vita. Queste porte sono il tuo fianco squarciato dal quale sgorga la sorgente zampillante di vita eterna (4, 14).
Dalla tua carne, dal tuo fianco, dal tuo cuore trafitto mi viene donato di nascere.
"Vieni ed entra nella gioia del tuo Maestro!"
Tu mi chiami a varcare queste porte delle tue ferite, ad essere immerso nel torrente della tua misericordia.
Davvero sei quel profeta che Zaccaria vede venire. Un profeta che non soltanto annuncia la sorgente zampillante che lava il peccato e ogni impurità.
ma che è in sé stesso quella sorgente. A lui si chiede: "Perché quelle piaghe in mezzo alle tue mani?" ed Egli risponde:"queste le ho ricevute in casa dei miei amici" (Zac 13, 1...6)
Avvicinati e guarda, ha scritto il tuo nome sulle palme delle sue mani.
Non verrà mai meno la sua alleanza di pace con te (cf. Libro di Vita, n. 1).
Gesù è l'Agnello pasquale, immolato e vittorioso.
Egli è il Pastore innamorato che si è perso per te, il Pastore bello in quanto è ferito d'amore per te.
Entrando, per così dire, nella ferita del suo cuore e facendovi la nostra dimora ci viene donato di partecipare della sua vita divina.
E' ciò che sperimentiamo nei sacramenti gemelli, se si può dire così, dell'Eucaristia e della Misericordia divina, affidati in modo particolare ai sacerdoti, che agiscono nel nome del Signore, capo del suo Corpo che è la Chiesa, "in persona Christi capitis".

Accogliamo la parola di Gesù come ultima preparazione all'ordinazione che vivremo stasera.
Rendiamo grazie a Dio per il dono che Egli fa alla sua Chiesa e al mondo intero.
Ci dona dei ministri, cioè dei servi, dei missionari della sua misericordia e della sua tenerezza, servitori della sua Presenza viva nel cuore del mondo.
Loro ci battezzano in questa fonte inesauribile di vita. Fanno di noi uomini e donne nuovi che vivono con Gesù, che vivono di Lui.
La loro vita celebra quell'inno di silenzio, di gioia traboccante, che canta col cuore semplice e trasparente dei piccoli e dei poveri; tutta la loro vita proclama:
"per me vivere è Gesù" . Egli mi ama e dona se stesso per me!
Lode e gloria a Lui Tutti i giorni della mia vita!"
 

giovedì 4 Aprile 2013 – Giovedì Ottava di Pasqua - fr. Giovanni-Battista FMJ


Pace a voi”! È questo l’annunzio pasquale del Cristo risorto che porta a compimento l’esultanza del Natale, quando gli angeli cantavano: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e sulla terra agli uomini che egli ama.” (Lc 2,14) “Pace a voi!”

 

La pace, lo constatiamo in questi giorni unici dell’anno liturgico, è dono del Cristo risorto, è qualcosa che trascende le iniziative umane, che non si limita al quieto vivere o all’assenza di guerra, ma è qualcosa che ha dei contenuti ben più profondi, che anche nel Vangelo di oggi sono messi in luce e che, rileggendoli, ci rendiamo conto essere realtà assolutamente divine, assolutamente aldilà delle possibilità dell’uomo, non quanto alla loro accoglienza ma quanto alla loro instaurazione.

 

Il primo contenuto è questo: la morte è vinta! Per la prima volta nella storia qualcuno ha superato la morte. Non soltanto è tornato in vita, alla vita mortale, ma ha superato la morte vincendola, cioè divenendone immune per sempre. E non soltanto la vinta dentro di sé, psicologicamente, nel proprio cuore, nelle proprie intenzioni, nel proprio modo di guardare il mondo, e nemmeno semplicemente nella propria anima rendendola immortale. La vinta in tutta la sua umanità: “Gesù in persona stette in mezzo a loro … guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho.”

 

Cristo risorto continua ad evangelizzare i suoi discepoli, ad annunziare loro la buona novella facendo di tutto perché si rendano conto che Lui è davvero Lui, è sempre quello di prima, ornato di ferite indelebili che se prima erano segno di infamia, ora sono segno dell’amore, perché l’amore vero non teme di pagare anche il prezzo dell’infamia, del disonore, della brutta figura.

Gesù perfino mangia di fronte a loro un pesce arrostito. Gli apostoli sconvolti e delusi per la morte del loro maestro che pensavano fosse il Cristo di Dio, sono aiutati a rendersi conto che non si erano sbagliati, quello che pensavano è davvero così, ma non secondo il loro punto di vista.

Amare, servire e regnare ha significato per il Cristo morire, e per di più ingiustamente, prendendosi le colpe degli altri. Il santo si è fatto passare per colpevole per salvare il colpevole. È questo lo strano modo di Dio di “vendicarsi” del male dell’uomo! Il pensiero di Dio, ancora una volta, trionfa sul pensiero dell’uomo.

 

Ma nel vangelo di oggi c’è un secondo contenuto della pace di Cristo, anche questo, impossibile all’artificio umano, ed è questo: Dio è fedele alle sue promesse. Non è un grande truffatore dell’umanità che la abbindola facendole credere chissà che cosa, facendola vivere di sogni utopici e di promesse ipocrite, ma è un Dio fedele e concreto! “Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi.” Dio è fedele cioè Dio fa davvero quanto promette! È fedele nella vita di Gesù, è fedele nella nostra se ci fidiamo. Fedeltà di Dio + fedeltà dell’uomo = una speranza inattaccabile! Credere questo è il primo passo indispensabile per vivere da Risorti, per entrare nella risurrezione di Cristo a tal punto da plasmarci in essa, con la grazia di Dio, una nuova mentalità che vince il mondo. Vince il mondo perché, come sappiamo, il mondo, nella sua accezione negativa, è il luogo della morte e dell’incredulità. Ma la pace del Cristo ci annunzia che la morte è vinta e che chi si fida del Dio fedele ha la vita eterna.

 

Questa è la pace che Cristo oggi inaugura sulla terra, come s’è capito ben superiore alla pace delle bandiere arcobaleno.

 

martedì 2 Aprile 2013 –  Ottava di Pasqua - fr. Giovanni-Battista FMJ


La festa di Pasqua che celebriamo in quest’unico giorno dell’Ottava è una festa che per essere realmente tale deve coinvolgerci profondamente. Con la risurrezione di Cristo ci è stato infatti aperto il passaggio ad una vita nuova, alla vita eterna. Non solo Uno è tornato dal mondo dei morti, ma tale suo ritorno è tale da poter rendere anche noi partecipi di una vita nuova. Non si tratta dunque di un evento che riguarda unicamente la sfera divina, ma ci troviamo di fronte ad un nuovo inizio della storia umana, ad una vera nuova creazione.

 

Le letture che abbiamo ascoltato, sia quella degli Atti degli apostoli sia il vangelo, ci pongono davanti l’urgenza di entrare in questo nuovo stato di cose che Cristo ha inaugurato sulla terra. Senza questo nostro ingresso in una nuova vita anche se uno risorgesse dai morti, come di fatto è accaduto, tutto per noi potrebbe restare invariato. Vivere il giorno di Pasqua significa perciò anzitutto lasciarsi raggiungere e cambiare dalla risurrezione di Cristo e, di conseguenza, essere disposti a guardare a Gesù, al rapporto con Lui e a coloro che ci vivono accanto in modo assolutamente nuovo. Forse pensavamo che, una volta conclusasi la Quaresima la festa sarebbe stata immediata, automatica. E invece ci rendiamo conto che il cammino di conversione non si conclude e che la festa di Pasqua non si celebra in verità se non provoca anche per noi un passaggio ad una nuova vita.

 

Si tratta di un cammino di conversione che tocca anzitutto il nostro rapporto con Gesù, ma non solo. L’abbiamo ascoltato, è in fondo lo stesso cammino che ha dovuto percorrere anche Maria di Magdala: dalla ricerca di un cadavere perduto all’essere lei stessa trovata dal Signore vivente che la chiama per nome. Dal conoscere Pietro e Giovanni come discepoli del Signore, al riconoscere che tali discepoli ora sono chiamati da Gesù stesso “miei fratelli”, in un certo senso dunque, al pari suo, degni di essere considerati familiari di Gesù. Da una fede tutta basata su quanto il Signore aveva fatto per lei in passato, ad una fede che guarda al futuro, che diventa annunzio e dunque interesse e responsabilità per quanto Dio può fare per gli altri: “non mi trattenere, ma va’ dai miei fratelli e di’ loro”.

Lo stesso l’abbiamo ascoltato nel discorso di Pietro alla folla nel giorno della Pentecoste. Pietro rende testimonianza al Signore Risorto con la forza dello Spirito Santo che ha ricevuto e spiega attraverso la nuova luce che ha ricevuto, il vero senso delle Scritture: “sappia dunque con certezza la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (At 2,36). Ora una tale annunzio suscita nei presenti uno sconvolgimento interiore: “All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?» E la risposta è la stessa che dava Gesù all’inizi del Suo ministero: “Convertitevi!”

 

Risurrezione di Cristo non significa allora per noi sicurezza e lasciare tutte le cose come erano prima, ma significa annunzio che trasforma, incontro che cambia, rapporto con un Signore che ci chiede di non fermarci a Lui ma di andare dai suoi fratelli anche quando preferiremmo che fossero piuttosto gli altri a venire da noi.

 

sabato 31 marzo 2013 - Veglia Pasquale 2013 - fr.Massimo-Maria FMJ

 

   Domenica scorsa, all'inizio della settimana santa celebrando l'ingresso di Gesù a Gerusalemme, proprio prima della processione,  è stato letto un brano del Vangelo di Luca in cui Gesù ha pronunciato una Parola particolare.

    Poiché molti dei suoi discepoli lo osannavano con canti e acclamazioni,  stendendo i loro mantelli al suo passaggio – il testo dice che alcuni farisei chiedono a Gesù di rimproverare i suoi discepoli. Gesù risponde: “ Io vi dico che, se essi taceranno, grideranno le pietre.”

    La stessa espressione, carissimi fratelli e sorelle, potremmo usare noi questa notte.

  La forza del mistero della resurrezione di Gesù, l'intensità della vita che ha sprigionato è così travolgente  che  se tacessero i canti dei credenti, se tacessero le acclamazioni del popolo di Dio, se si ammutolissero le liturgie della Chiesa, in questa santissima notte, griderebbero le pietre, la natura sussulterebbe per esprimere la gioia, il creato fremerebbe per manifestare lo stupore.

     Perché, fratelli e sorelle, tutto questo? Eh si! Perché la Resurrezione di Gesù è storia vera, la vita sprigionatasi dal sepolcro del Signore è reale, il Signore Gesù, il crocifisso è vivo e ormai più nessuno può cercarlo tra i morti.

     E' la nostra fede! E' la fede della Chiesa! E' la buona notizia che accompagna per sempre la storia dell'umanità.

    Ieri sera a conclusione della Via Crucis al Colosseo il Santo Padre Francesco ha detto: “  La Croce di Gesù è la Parola con cui Dio ha risposto al male del mondo. A volte ci sembra che Dio non risponda al male, che rimanga in silenzio. In realtà Dio ha parlato, ha risposto, e la sua risposta è la Croce di Cristo...”

    Questa notte, parafrasando queste parole del Papa, con forza possiamo dire :

 ” A volte possiamo pensare che Dio resti in silenzio dinanzi al mistero della morte, ma in realtà Lui ha parlato, ha detto una parola, ha risposto al mistero della morte che attanagliava il cuore dell'uomo e lo teneva prostrato nell'angoscia e nello sgomento. La sua risposta è la Resurrezione di Gesù; la sua parola è l'aver risollevato il Figlio dal sepolcro come profezia, caparra, promessa di quanto è riservato ad ogni uomo.

   E' vero, confusi e umiliati dobbiamo confessarlo. Queste parole, queste affermazioni, questi ragionamenti anche a noi possono apparirci – come alle donne di cui ci parlava il Vangelo - un vaneggiamento, e la tentazione di incredulità è grande. O magari anche se noi per grazia, per fede lo crediamo, ne siamo interiormente convinti, ci guardiamo bene dal dirlo ad altri, ci guardiamo bene dall'annunciarlo ai nostri fratelli del mondo di oggi, perché rischiamo la derisione, rischiamo di essere accusati di vaneggiamento appunto. Così come le donne del testo Lucano anche noi credenti avanziamo nella storia impauriti e con il volto chinato a terra dando l'impressione di continuare a cercare un morto più che di aver incontrato il Risorto.

    Questa notte, fratelli e sorelle, la Resurrezione di Gesù, deve, e vuole, ancora una volta evangelizzare la nostra vita.

    Questa liturgia con i suoi segni e i suoi canti; la Chiesa con la sua maternità e con la sua proclamazione di fede; la Parola di Gesù nella sua intensità; lo stupore di Pietro che trova solo i veli nel sepolcro e non più il corpo morto del Maestro; la storia di santità e di martirio di tanti nostri fratelli e sorelle credenti; tante esistenze trasfigurate dall'incontro con Cristo; ci proclamano Gesù è risorto, il Signore della vita ha vinto, Cristo Signore è vivo per sempre.

    Qualche volta con sarcasmo si sente dire : “ Dall'al di là non è mai tornato nessuno:” Stanotte noi stiamo celebrando l'esatto contrario. Di là è ritornato il Figlio di Dio fatto figlio dell'uomo. E' tornato sì, ed è tornato vittorioso, con una promessa di vita senza fine per ogni creatura umana.

     Dobbiamo rimettere al centro della nostra vita la Resurrezione di Gesù. Dobbiamo ricollocare al centro della nostra vita la fede.

    Troppo spesso la Resurrezione di Gesù è periferica nella nostra esistenza: non meravigliamoci allora se siamo tristi, angosciati, inquieti e persino disperati.

        Troppo spesso la fede non è la cifra del nostro vivere: non è così anomalo allora se anche noi viviamo con logiche più del mondo che di Dio, discerniamo tutto ciò che ci accade o che accade attorno a noi con criteri emotivi, superficiali, mondani, fermandosi magari soltanto al mi piace -non mi piace;  trasformando tutto in un reality, persino la vita della chiesa. La chiesa non è un reality è una comunità di fede attorno al Risorto, al Vivente, e la si comprende veramente solo a partire dalla fede.

      La nostra vita di credenti – è questo il senso della Pasqua – deve avere come riferimento chiaro ed essenziale il Signore risorto e come cifra di lettura di tutto, di discernimento di tutto, di accostamento al tutto la visione che nasce dalla profondità della fede in Gesù, non la superficialità delle emozioni che passano.

      La Pasqua oggi è un invito del Signore a ricordarci che oggi il mondo, la storia, la chiesa, hanno bisogno di uomini e donne di spessore, che hanno maturato cioè  questa profondità di fede; uomini e donne che hanno inscritto, hanno inciso, nella loro vita l'intenso splendore della resurrezione di Gesù; uomini e donne che per questo, solo per questo, trasudano speranza.

     Uomini e donne che ad ogni istante, in ogni situazione, in ogni avvenimento piccolo o grande sanno ripetersi “ ….comunque Gesù è risorto e questa è la vera e sconvolgente novità.”

    No, non possiamo più, noi credenti, vivere come se prescindessimo dalla fede, dalla Resurrezione di Gesù. Il rischio di omologazione verso il basso, verso le logiche mondane diventa troppo grande. Un esempio.

     Noi viviamo in questi ultimi anni una stagione difficile ma esaltante della storia della chiesa, della storia della comunità di coloro che credono nel Risorto e nella Resurrezione.

      Ora, la chiesa nella sua storia ha avuto almeno una volta l'esperienza di due papi viventi, esperienza che allora non fu per nulla facilissima.

      Ha avuto poi le tristi esperienze di papi e anti-papi.

     Oggi noi abbiamo due papi uno emerito ed uno in carica che ci hanno offerto e ci stanno offrendo esempio di fraternità, di grande libertà e umiltà l'uno, di parresia e mansuetudine l'altro. Come fratelli pregano insieme fino a commuovere per la tenerezza e affetto che si manifestano.

     E noi, anche credenti,  anziché chiederci : “ Cosa Dio ci sta dicendo attraverso questo. Magari stiamo vivendo una stagione drammatica ed esaltante della storia della chiesa. Noi ci fermiamo a contrapporli,  a dire mi piace e non mi piace, secondo le nostre emozioni, sino a cambiare parere repentinamente. Così facendo non raccogliamo la vera sfida: l'invito che il Signore ci sta rivolgendo  a  riporre  Cristo al centro della nostra vita cristiana; a riconsiderare il posto che diamo agli altri  - soprattutto ai più poveri -  nelle nostre comunità cristiane, nelle nostre assemblee, nelle nostre città e nelle nostre chiese.

     Se la resurrezione di Gesù non è centrale, se lo sguardo di fede non è al cuore della nostra vita, vedete, anche in eventi importanti rischiamo di passare accanto all'essenziale, attardandoci sul superficiale, su quello che più mi aggrada e non decidendoci invece per una vita che nasca tutta dalla fede in Gesù Risorto.

     Fratelli e sorelle,

questa sera siamo qua con nel cuore tanti desideri, tante sofferenze, tante gioie e ante preoccupazioni e speranze, certo tutte le presentiamo al Signore, ma soprattutto non usciamo di qui senza chiedergli in tutta la sua forza e tutta la sua freschezza  lo stupore della Pasqua, che questo stupore invada la nostra esistenza; che la buona notizia del Risorto infranga ogni durezza del cuore; che la fede in Lui Signore della vita torni centrale nella nostra esistenza e la trasfiguri, così che sempre più tutto -pensare, agire, parlare e operare -  sia solo a partire da questo.

   Così per la nostra capacità di misericordia, di pace, di tenerezza, per la nostra sincera ricerca e amore alla verità, per il nostro  desiderio di bontà e di profonda libertà diremo agli altri con l'autenticità e lo stupore della nostra vita più che con l'altezza dei nostri ragionamenti: Gesù è il Signore; Lui, il Signore è Risorto; è vivo; è con noi per sempre.

Così sia.

 

venerdì 29 Marzo 2013 – Venerdì santo - fr. Giovanni-Battista FMJ


Ascoltando in questi giorni della settimana santa i discorsi di addio di Gesù nel contesto dell’ultima cena, siamo stati testimoni dell’ardore e dell’affetto di Pietro per il suo Maestro: “Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!” (Gv 13,37). È un affetto, quello di Pietro, che forse abita anche il nostro cuore: anche noi probabilmente, almeno una volta nella nostra vita abbiamo detto al Signore: Signore darò la mia vita per te! A Pietro questo non fu consentito subito; egli dovrà attendere un altro tempo e un altro luogo, come Gesù aveva profetizzato: “Tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi” (Gv 13,36). Ma Pietro, soprattutto, dovrà attendere l’ora in cui sarà Gesù a dare la vita per lui. Solo superato questo momento, solo giunti all’ora fissata, a quel tempo prestabilito, anche Pietro sarà abilitato, se così si può dire, a dare la sua vita per Gesù, realizzando così quello che anche Paolo aveva sperimentato sulla sua pelle: “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo” (Col 1,24).


La Croce di Cristo, che oggi celebriamo nel presente liturgico della Chiesa, inaugura un nuovo modo di soffrire e, soprattutto, un nuovo modo di morire. Cristo muore come vittima dell’odio e del male umano, nulla in Lui merita la morte. Egli consuma così quell’unico sacrificio che ancora oggi ci riscatta, ossia che ancora oggi è in grado di acquistare a caro prezzo (cfr 1 Cor 6,20) le nostre vite con il loro carico di dolore, di sofferenza, di umiliazione e di peccato, per strapparle all’inutilità e al non senso e renderle, a loro volta, un sacrificio accetto a Dio.

 

In adorazione di fronte alla Croce noi oggi facciamo la grandiosa scoperta che la sofferenza non è più un vuoto di senso all’interno della vita umana, perché c’è Qualcuno che questa sofferenza l’ha penetrata fino alle sue profondità più amare e mortali, e l’ha unita a sé indissolubilmente fino a lasciare sul suo corpo delle cicatrici eterne, conferendo così al dolore umano un senso e un valore salvifico che prima non aveva.

 

La sofferenza rimane un mistero, i nostri ragionamenti vacillano nel tentativo di penetrarlo e il nostro sentimento fatica a contenerlo. Ma abbiamo la certezza che questo mistero è ormai abitato e, soprattutto, consacrato da un Mistero più grande, quello della passione e morte del nostro Redentore. “Nella Croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta. Cristo – senza nessuna colpa propria – si è addossato «il male totale del peccato»” (Salvifici Doloris 19) il cui salario è la sofferenza e la morte (cfr. Rm 6,23). Cristo è così sceso alle radici del soffrire e del morire, in quel nucleo più recondito e indisponibile all’uomo e lo ha risanato già fin d’ora, in questa nostra vita terrena che attende il pieno compimento di questa redenzione già cominciata.

 

Capiamo allora perché non Pietro poteva dare la vita per Gesù, ma bisognava che prima fosse Cristo a dare la vita per lui perché prima di sapere cosa doveva fare lui per Dio facesse esperienza di cosa Dio aveva fatto per Lui.

 

Domenica 17 Marzo 2013 – V Domenica di Quaresima – fr. Giovanni- Battista FMJ


 

Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!” Questa era la speranza che abitava il cuore di Marta e della sorella Maria. Ed anche i Giudei che partecipavano al lutto della famiglia di Lazzaro esclamano, forse anche con un po’ di sdegno: “Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?”.

Gesù era il Maestro e taumaturgo che aveva fatto molti segni e prodigi, eppure tutti ragionano come se ormai, di fronte alla morte dell’amico Lazzaro, non ci sia più niente da fare. L’unica attesa che rimane è quella della risurrezione escatologica, quella dell’ultimo giorno, in un futuro indefinito; il presente, invece, è ormai stato inghiottito dalla morte. A dire il vero, però, in fondo al dolore di Marta, una luce rimane accesa: Maestro “anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà”.

 

Gesù, da parte sua, non risparmia a Lazzaro di morire, e anche potendo raggiungerlo più celermente e guarirlo, lascia che le cose vadano come devono andare per mostrare come nulla sfugga alla mano di Dio, come il suo braccio non sia troppo corto da non poter salvare, da non poter scendere negli inferi e strappare dalla morte coloro che non avevano un redentore. Gesù si dice addirittura contento di essere arrivato troppo tardi presso l’amico Lazzaro, “affinché voi crediate”.

 

Ci troviamo di fronte allora ad una fede che ha bisogno di crescere, ha bisogno di osare di più, di scoprire che davvero nulla è impossibile a Dio, non solo guarire dalla malattia, ma anche strappare dalla morte, e perfino salvare dal peccato, che è ancor più nocivo della morte fisica in quanto, potremmo dire, è una morte scelta consapevolmente, una morte interiore accolta con la propria volontà e, di per sé, dalle conseguenze ancora più nefaste della malattia e della morte fisica, come disse Gesù all’infermo della piscina di Betzatà: “Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio” (Gv 5,14) ossia la cosiddetta “seconda morte” di cui parla il libro dell’Apocalisse.

 

Sappiamo infatti, come insegna la fede cattolica, che il nostro corpo un giorno risorgerà, o per una risurrezione di vita e di beatitudine o per una risurrezione di condanna, ma in un senso o nell’altro risorgerà. Ciò significa che la morte fisica non è eterna, mentre lo può essere la morte spirituale, quella prodotta dalla scelta consapevole del male, perché può perpetuarsi e “incarnarsi” nella futura risurrezione di condanna.

 

Ritornando al nostro brano, Gesù soffre insieme a Marta e Maria, piange insieme a loro, non semplicemente rendendosi partecipe del loro dolore, ma addolorandosi lui stesso per la morte dell’amico. Ma Gesù non vuole semplicemente fare tutti contenti e risvegliare Lazzaro per far cessare il lutto, Gesù non è semplicemente un super eroe che sistema le cose perché tutti siano nella pace, Egli è il Figlio di Dio e compie le opere di Dio. E qual è l’opera di Dio se non che noi crediamo in colui che egli ha mandato? (Cf. Gv 6,29) Una fede viva, una fede che entra nella vita e la cambia, fino al punto da poter ritenere una malattia, via per le manifestazione della gloria di Dio. L’abbiamo ascoltato “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”.

 

Il Signore ci vuole condurre verso una fede che sappia dare una forma nuova, assolutamente inedita, al nostro modo di pensare, alla nostra mentalità che si fida solo se prima possiede delle garanzie non solo tangibili, ma anche umanamente affidabili e sicure, garanzie che però non possono resistere di fronte all’ineludibilità della morte. Ebbene, la nostra garanzia è Cristo: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?”.

 

Cristo, facendo rialzare Lazzaro, non solo salva un amico, ma prepara i cuori all’Evento che cambierà la sorte della terra e del cielo, del tempo e della storia: la sua stessa Risurrezione, avvenimento che si presenta alla storia con dei segni concreti pur non essendo osservabile direttamente come i normali fatti storici, in quanto le sue modalità rimangono ignote. Mistero che si manifesta alla storia ma che trascende la nostra comprensione e la storia stessa e può essere affermato solo per fede, seppur ragionevolmente, a motivo dei segni, come la tomba vuota e le apparizioni del Risorto (Cf. Catechismo degli adulti §§269-270). Credere nella potenza di Cristo è più importante che vedere dei segni, perché è questa fede che consente di dare ai segni il loro vero significato. Tornano in mente le parole di Abramo rivolte al ricco epulone nella famosa parabola riportata dall’evangelista Luca: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti” (Lc 16,21).

 

La nostra prima risurrezione sia allora una risurrezione dalla morte dell’incredulità e del peccato alla vita della fede nella potenza di Gesù, potente in se stesso, ma soprattutto potente e attivo nella nostra vita, e allora saremo pronti a salire con Lui a Gerusalemme e a seguirlo, sulla via della Croce, sulla via della gloria.

 

venerdì 15 Marzo 2013 – IV settimana di Quaresima – Commento ora media - fr. Giovanni-Battista FMJ

Sap 2,1a. 12-22


 

Il brano che abbiamo ascoltato è tratto dal secondo capitolo del libro della Sapienza, il più recente libro dell’antico testamento, in cui si riflettono le non poche influenze filosofiche ellenistiche presenti ad Alessandria d’Egitto, dove il testo venne composto, a cavallo tra il primo secolo avanti Cristo e il primo secolo dopo Cristo.

 

La maggior parte di questo capitolo è posta in bocca agli empi, ossia ai non pii, a quei giudei apostati che hanno assorbito acriticamente quanto di peggiore veicolavano le filosofie del tempo: la vita non ha senso, siamo frutto del caso, non c’è rimedio quando l’uomo muore perché non si conosce nessuno che liberi dal regno dei morti. Le conseguenze di un tale modo di pensare sono facili a trarsi: se l’uomo non ha a disposizione che l’orizzonte terreno, tra l’altro così breve, triste ed assurdo, non resta altra saggezza che quella dell’uomo definito da alcuni filosofi del Novecento “a una sola dimensione”: godersi la vita immersi nei piaceri, costruirsi una salvezza puramente temporale e materiale, ergere se stessi e la propria forza come unico criterio etico, nell’attesa che quanto nacque dal caso e per caso, al nulla privo di senso ritorni.

 

Un tale sguardo sulla realtà non si è ancora estinto, neppure ai nostri giorni; anzi spesso, coloro che la pensano così sono considerati quelli che sanno vivere veramente, che sanno gustarsi la vita fino in fondo, che sanno gioire davvero del mondo presente. Eppure, nel versetto finale del capitolo precedente a quello che abbiamo letto, questi empi sono annoverati fra i seguaci della morte, tra i militanti del suo partito: “gli empi invocano su di sé la morte con le parole e con le opere; ritenendola amica si struggono per lei e con essa stringono un patto, perché sono degni di appartenerle” (Sap 1,16). Essi infatti “non conoscono i misteriosi segreti di Dio, non sperano ricompensa per la rettitudine né credono a un premio per una vita irreprensibile” (Sap 2,22).

 

Di fronte ad essi si pone il giusto che confida nel Signore, e tale fiducia è per lui foriera di una conoscenza superiore, ossia la conoscenza della presenza e vicinanza di Dio nella vita dei Suoi amici. Forte di tale appartenenza vitale a Colui che libera dalla morte donando l’incorruttibilità eterna, il giusto riesce a rimanere se stesso anche di fronte alle insidie degli empi avversari che non sopportano nemmeno di vederlo. Ministro di inquietudine verso chi sceglie una vita inquieta, egli vive da figlio di Dio, senza rispondere al male con il male.

 

In tale giusto la tradizione patristica vi leggerà un’immagine del Cristo sofferente che non fugge le persecuzioni rifugiandosi nella legge della forza ma abbraccia la Croce a vantaggio dei suoi stessi crocifissori, che siamo noi, tracciando per noi la strada sicura della salvezza, la norma suprema dell’amore fino alla Croce. Del resto, come ha affermato ieri il Santo Padre Francesco nella sua prima omelia da Sommo Pontefice: “Quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo Vescovi, Preti, Cardinali, Papi, ma non discepoli del Signore.”

 

mercoledì 13 Marzo 2013 – IV settimana di Quaresima - fr. Giovanni-Battista FMJ


Per ben due volte nel vangelo che abbiamo ascoltato ritorna una frase di Gesù che ci sorprende: “il Figlio da se stesso non può far nulla” e ancora: “Da me, io non posso far nulla”. E inoltre: “non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato”.

Gesù, il Figlio di Dio, nel rivelare ai Giudei che complottavano contro di Lui la sua natura di Figlio del Padre, in un certo senso, non teme di confessare la propria impotenza, o meglio, il suo essere debitore nei confronti del Padre di tutto quanto è, di tutto quanto fa. Egli scandalizza l’uditorio perché presenta una relazione con Dio assolutamente nuova, eccessivamente confidenziale, che per la mentalità giudaica è irrispettosamente familiare: “chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio”. Questa pagina del Vangelo diventa così per noi una finestra che lascia intravedere qualcosa di quella, altrimenti inaccessibile, vita trinitaria.

 

Gesù non rivendica nulla per sé. Pur essendo il Figlio di Dio non nasconde da dove provenga tutto quanto ha ricevuto, nonostante gli appartenga come proprio essendo Egli della stessa natura del Padre, e tutto quanto dona agli uomini. Ed è grazie a tale trasparenza di Gesù all’amore del Padre e alla volontà del Padre, volontà che diventa per Cristo il cammino da seguire su questa terra per compiere la missione che ha ricevuto e a cui liberamente si consegna, che anche noi siamo resi partecipi dei segreti divini, della salvezza divina, e della figliolanza divina che in modo unico marca il rapporto vivo ed eterno del Figlio con il Padre. In Cristo abbiamo la perfetta immagine del Padre e contemporaneamente la perfetta immagine del discepolo credente in Dio. Cristo non è così solo rivelazione del Padre ma anche rivelazione dell’uomo nuovo, ossia l’uomo ricostituito nella sua autentica santità ed identità di figlio di Dio.

Anche noi siamo allora chiamati a seguire il nostro capo e il nostro modello e a fare del suo abbandono alla volontà del Padre la regola suprema della nostra vita, e il cammino non solo di una vita santa ma anche di una vita che sa inserirsi nel mondo con giustizia: “Il mio giudizio è giusto – dice Gesù – perché non cerco la mia volontà ma la volontà di colui che mi ha mandato.”

 

Se questo è vero per tutti è ancor più vero per i consacrati che hanno fatto della loro vita un cammino di progressiva conformazione a Gesù, come affermava il beato Giovanni Paolo II: “Attraverso la professione dei consigli, il consacrato non solo fa di Cristo il senso della propria vita, ma si preoccupa di riprodurre in sé, per quanto possibile, «la forma di vita, che il Figlio di Dio prese quando venne nel mondo»” (Vita Consecrata 16).

Questo cammino entusiasmante passa necessariamente, come lo fu per Cristo, per il sacrificio di sé, in particolare per il sacrificio della propria volontà, per far emergere in essa quella volontà di amore universale e salvatore che mosse il Padre a donare il Suo Figlio, e muove anche noi oggi noi a non considerarci proprietà privata ma appartenenti per sempre a Cristo nella Chiesa. Le nostre membra mortali e peccatrici potranno allora diventare strumenti vivi per la salvezza nostra, di tutti coloro che ci vivono a fianco, e, attraverso il mistero della comunione dei santi, anche di coloro che ci sono sconosciuti, soprattutto di quelli che meno conoscono il Signore e che dunque hanno ancor più bisogno di trovare in noi dei credenti e dei testimoni degni di fede. Attraverso la nostra conversione, esigenza particolarmente stringente in questo tempo forte della quaresima, non si gioca infatti solo il nostro cammino di santità ma anche quello degli altri.

 

sabato 9 Marzo 2013 – III settimana di Quaresima - fr. Giovanni-Battista FMJ


 

Il brano evangelico di oggi ci pone davanti non semplicemente due maniere di pregare, ma più profondamente, due modi alquanto diversi di relazionarsi con Dio e con gli altri, di cui poi, le due modalità di orazione sono espressione.


 

Il fariseo loda Dio perché l’ha costituito diverso dagli altri uomini. Il fariseo si sente baciato da una sorta di privilegio divino che gli consente di digiunare, di pagare le decime e di non essere ladro e adultero come gli altri. Ai suoi occhi è un vero santo, un vero amico di Dio, eppure questa sua preghiera non contribuisce in modo decisivo alla sua giustificazione, come si legge nelle righe finale di questo testo.

Il pubblicano ha poco da offrire, si presenta al Signore a mani vuote, o meglio, in totale nudità: riconoscendosi indegno di accedere alla presenza di Dio non osa nemmeno alzare gli occhi al cielo. Si limita piuttosto a lasciare che sia lo sguardo di Dio a posarsi su di lui. Ebbene, questo peccatore tornerà a casa giustificato.


 

Ora, dicevamo, non ci troviamo di fronte semplicemente a due modi diversi di pregare, ma a due modalità opposte di relazionarsi con Dio e con gli altri: la prima, quella del fariseo, sicura, decisa di sé, loda Dio attraverso la lode di se stesso e il disprezzo degli altri. Dev’essere sicuramente difficile per lui entrare in una logica di comunione, da cristiani diremmo di ecclesialità o quanto meno di solidarietà con gli altri uomini, rallegrandosi di quella sua diversità che presenta al Signore come la prima qualità di cui rendere grazie. Il pubblicano invece conserva il suo posto tra i peccatori: non gareggia con nessuno per essere migliore, si accontenta di chiedere scusa al Signore ed implorare il suo perdono, addolorato della triste e peccaminosa realtà che macchia la sua vita.


 

In questo tempo di quaresima questa parola indirizza al nostro cammino di cristiani e di monaci un deciso avvertimento che ci dice: fate attenzione a che relazione con Dio e con gli altri state costruendo. Ci sono infatti anche oggi modi molto sottili e raffinati di fare i farisei: di valutare se stessi in base a quello che si fa di buono quasi rivendicando a Dio i propri atti meritori; di fare delle proprie opere buone strumenti di allontanamento dagli altri; di rimanere indifferenti, o quasi segretamente compiaciuti, delle cadute degli altri soprattutto di quelli che ci stanno antipatici o che, per qualche motivo, consideriamo più nostri concorrenti che nostri fratelli; di cercare a tutti i costi, magari in modo inconsapevole e ingenuo, una propria originale diversità nell’essere cristiani e monaci, per apparire più uomo degli altri uomini, più cristiano degli altri cristiani, più monaco degli altri monaci.

Ebbene, come ci insegna il vangelo di oggi e come lo esprime bene il nostro libro di vita: ogni virtù è vana senza l’umiltà. L’umiltà, come condimento di tutte le vivande del festino e come anima della vita monastica (LdV § 118) e cristiana, è quella disposizione interiore che ci apre a Dio, ci apre agli altri e ci educa al giusto amore di se stessi perché ci apre alla verità, e ogni cristiano deve avere il coraggio, verso se stesso anzitutto, di amare la verità.


 

Alla vigilia di questa quarta domenica di quaresima, domenica del cieco nato, chiediamo allora per intercessione di Maria, la serva umile del Padre, un cuore umile, amante della luce e della verità. Non temeremo allora il giudizio di Dio che, come abbiamo ascoltato dal profeta Osea, sorgerà per tutti come la luce.

 

inserito il 9 marzo 2013  - Messa funebre per p.Pierre-Marie (27 febbraio 2013) - Notre-Dame de Paris - Omelia del Cardinale André Vingt Trois, arcivescovo di Parigi - traduzione di Raimonda (FEG Immacolata)

"Gesù apparve ai suoi discepoli nella Gloria della sua Trasfigurazione" (Mt 17, 1-9)

 

 

Fratelli e sorelle,

malgrado tutte le qualità che tutti noi conosciamo, la città di Parigi, non diversamente da ogni altra città del mondo, non può essere paragonabile alla Gerusalemme Celeste!

Senza grande margine di errore, si può valutare che c'è ancora molto cammino da fare perché essa risplenda della luce della Città di Dio!

 

Ci vorrebbe senza dubbio la fede inestirpabile dei due figli dell'Aveyron, voglio dire François Marty e Pierre-Marie Delfieux, per lanciarsi in questa vita urbana senza debolezze e senza dubbi.

Perché è veramente per la fede, nella fede che essi si sono lanciati nell'avventura delle Fraternità Monastiche di Gerusalemme, stimando, senza dubbio, che se la città, questa grande città di Parigi, poteva nascondere bene i suoi vizi, poteva ancora di più nascondere una virtù che aveva bisogno di essere manifestata, di essere svegliata, di essere sostenuta, di essere incoraggiata, e che per condurre questa battaglia, i cristiani che cercano di testimoniare il Vangelo nel cuore di questa città, avevano bisogno, come tutta la Chiesa, che, da qualche parte, nel cuore del loro apparato (in francese : dispositif - n.d.t.), degli uomini e delle donne pregassero, cantassero il linguaggio di Dio, accettando di condividere il sacrificio di Cristo nella loro carne, affinché la Buona Novella possa essere annunciata a tutti gli uomini.

Evidentemente è portare alle estreme conseguenze l'idea originale del progetto delle Fraternità Monastiche di Gerusalemme, ma è almeno dare una idea della sfida alla quale esse hanno risposto e alla quale, spero, esse rispondono sempre, non più soltanto nel cuore della città di Parigi, ma in molti altri cuori delle città in tutto il mondo!

C’è in queste masse umane che costituiscono le città moderne, una riserva di energia e di forza spirituale che può rimanere completamente nascosta ai nostri occhi.

E’ questa capacità di avere fiducia in ciò che non si vede ancora, ma di cui non si dubita, che Dio riversa nei cuori come una Grazia; è su questa fiducia che si basa la sfida di sviluppare prima di tutto una esperienza, poi una regola di vita nel cuore della vita cittadina. Una esperienza e una regola di vita che si sono sviluppate e strutturate nel tempo, e che il cardinale Marty continua, credo, a sorvegliare con la coda del suo occhio malizioso (in francese: malicieux, - n.d.t.), e forse anche ad incoraggiare ancora, intercedendo presso Dio per i frutti di questa avventura di cui ha condiviso la responsabilità con Pierre-Marie Delfieux.

 

Potrebbe essere fastidioso anche per i membri della Confraternita monastica di Gerusalemme, che l'arcivescovo di Parigi evochi i frutti della loro vita e del loro lavoro nella capitale. Ma penso che questo non è necessario perché tutti, o meglio tutti coloro che sono interessati a questioni di fede nella città di Parigi, sanno che cosa sta accadendo a Saint-Gervais e riconoscono i frutti spirituali che ne risultano non solo per i membri della Fraternità Monastica, non solo per i loro amici, non solo per coloro che regolarmente o occasionalmente vengono a partecipare alla loro liturgia, ma per tutta la diocesi di Parigi. Si tratta di una rara ricchezza della nostra Diocesi, che non è così prevedibile nelle comunità contemplative. Lo vediamo ogni anno al momento della chiamata decisiva (Elezione) dei Catecumeni.

I religiosi, che rappresentano queste comunità contemplative, non sono così numerosi. Queste comunità tuttavia sono particolarmente utili al cuore dell'Arcivescovo che fa affidamento sul loro impegno (in francesce: investissement - n.d.t.) e sulla preghiera, non solo per accompagnare i Catecumeni, ma per sostenere la missione di tutta la Chiesa a Parigi. Tutti sanno quello che è dovuto alle Fraternità Monastiche di Gerusalemme, tutti hanno visto i frutti che ne derivano.

Evidentemente, Pierre-Marie Delfieux in questa avventura insieme con il Cardinale Marty, ha avuto un carattere deciso, non solo attraverso il coinvolgimento della propria vita e della sua persona, ma per il suo dinamismo personale, le sue intuizioni, la sua tenacia, la sua resistenza, e forse non ci sarebbe bisogno di ripeterlo, a volte per la sua testardaggine! Perché a volte alcuni difetti possono contribuire alla venuta del Regno. Abbiamo quindi beneficiato di questa forza potente che Pierre-Marie Delfieux aveva in lui.

Ho avuto il privilegio, come, penso, un certo numero di voi, di scoprire questa personalità, nello stesso tempo in cui ho scoperto la Terra Santa, perché la prima volta che sono andato in pellegrinaggio in Terra Santa, sono stato in un gruppo guidato da Pierre-Marie Delfieux. Sono stato in grado di scoprire allo stesso tempo una ricchezza del Vangelo che non sospettavo attraverso i luoghi dove Gesù ha vissuto e ha parlato, e una ricchezza del Vangelo che traspariva (brillava) attraverso di lui che era la nostra guida. E 'quindi consapevolmente che posso parlare di questa motivazione, di questo potere, di questa forza evangelica che viveva nel cuore di Pierre-Marie Delfieux.

Ma se le città, come le persone, sono portatrici di ricchezze che non si manifestano ancora e che bisogna stimolare e sostenere, questo lavoro non si porta avanti da soli (in francese: ne se fait pas tout seul - n.d.t.). Perché ciò che vogliamo far comparire, è semplicemente la Presenza Divina sotto l'apparenza di una banalità terribilmente ordinaria. E 'nostra convinzione che nelle nostre immense città, Dio opera nel cuore degli uomini, che Egli persegue instancabilmente il suo cammino di Misericordia per incontrare il cuore umano, che Egli cerca misteriosamente e segretamente le libertà degli uni e degli altri.

E’ quindi rivolgere sulle nostre città uno sguardo da visionari (contemplativi). Questo sguardo non può formarsi e non può essere messo in opera se non nell’incontro con Cristo Risorto che si rivela attraverso l'umanità di Gesù di Nazareth. I discepoli lo hanno sperimentato durante la Trasfigurazione per impegnarsi nel cammino che li avrebbe portati a seguire Gesù, non solo durante gli eventi decisivi che avrebbero avuto luogo a Gerusalemme, ma anche nei fatti della loro esistenza, in cui sarebbero stati chiamati a testimoniare la potenza di Dio attraverso l’offerta della loro vita.

 

 

 

Ciascuno di noi, all’interno del cammino della vita spirituale, è chiamato a fare esperienza di questa Trasfigurazione, posta nel cuore dei Vangeli come un punto di svolta nella comprensione e nella sequela di Cristo. Ma per radicare questo progetto di vita contemplativa di cui ho parlato in precedenza, Pierre-Marie Delfieux ha voluto essere condotto nel deserto, probabilmente per essere tentato, ma soprattutto per vivere la comunione totale con la presenza del Risorto . Per un anno ha vissuto nel deserto a Tamanrasset, prima di intraprendere il progetto delle Fraternità Monastiche e prima di dare loro il volto che hanno oggi.

Voglio dire che la fede di cui ho parlato all'inizio del mio intervento, non è solo il retaggio di una civiltà perduta, è il crogiolo in cui si sperimenta il desiderio di seguire Cristo e di manifestare la sua presenza nel cuore del mondo. Questo è il motivo per una vita contemplativa nel cuore della città, non è solo un'esperienza esotica rispetto ad altre forme di vita monastica, è un modo di aderire e partecipare alla battaglia spirituale che caratterizza tutta l'esperienza della Chiesa.

Fratelli e sorelle delle Fraternità Monastiche sapete che per un certo numero di anni che noi abbiamo la decenza di non calcolare - ho avuto il privilegio di seguire da vicino lo sviluppo della vostra famiglia, di contribuire in piccola parte al suo consolidamento, al suo sviluppo, e voglio dirvi oggi che condivido sia il vostro dolore che la vostra Speranza, non solo per Pierre-Marie, ma per la vostra Fraternità e, attraverso di essa, per la Chiesa di Parigi. Amen.

 

+Cardinale André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi

 

inserito il 9 marzo 2013  l'ultima omelia di p. Pierre-Marie Delfieux - traduzione di Raimonda (FEG Immacolata)

 

Fête de la Toussaint Festa di Ognissanti 2012 - Saint-Gervais, Paris - Frère Pierre-Marie

Des béatitudes de la terre à la Béatitude du ciel (Dalle beatitudini della terra alla Beatitudine del cielo)

 

Oggi celebriamo una festa solenne.

Una grande festa piena di speranza e di gioia.

Una festa per tutti noi, in quanto è di tutti coloro che ci hanno preceduto e che popolano già il Regno di Dio, in cui siamo chiamati ad entrare un giorno.

Vivendo vicino a Dio, dove intercedono per noi, insieme costituiscono la Chiesa celeste.

Questa Gerusalemme celeste, aperta a tutti coloro che che hanno vissuto le beatitudini.

Le beatitudini proclamate da Gesù (Mt 5,1-11) e che sono come il gioiello e la fonte di tutto il Vangelo.

Con la sua rivelazione, il veggente dell'Apocalisse dà a tutti noi un po 'di Cielo.

E 'per noi che il Signore gli mostrò ciò che ci attende oltre il nostro tempo qui sulla terra.

 

Con quanta attenzione si devono sentire queste parole!

Dopo questo vidi quattro angeli che stavano ai quattro angoli della terra e che trattenevano i quattro venti (vale a dire ogni sorta di male) (Ap 7,1).

Il primo cielo e la prima terra, dove noi siamo, scompariranno per cedere il passo a un nuovo cielo e una nuova terra.

Non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno (Ap 21,1-4).

Modo poetico di dire le cose, naturalmente; ma quale visione piena di speranza per il mondo a venire!

E la visione continua con la rivelazione del numero dei figli d'Israele, contrassegnati con il sigillo della Salvezza.

Centoquarantaquattromila di tutte le tribù (7.4).

Che è un modo per dire che tutto il popolo biblico, una volta convertito alla parola di Cristo, sarà chiamato alla Salvezza.

Perché Dio è fedele alle sue promesse e non nega le sue alleanze.

Poi ecco che apparve davanti ai nostri occhi una moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù e popolo e lingua, davanti al trono dell'Agnello Redentore.

Questo è anche un ottimo modo per ricordare la promessa della Salvezza universale.

Siamo confusi per l'ottimismo e la gioia davanti a ciò che Dio destina ai suoi figli.

A condizione, naturalmente, che essi restino o diventino finalmente fedeli alla sua parola.

E questo al di là di tutto lo spazio e di tutta la durata nel tempo!

Ecco, fratelli e sorelle, ciò che dobbiamo saper contemplare Quando, già su questa terra, guardiamo verso il Regno dei cieli.

Non ci attende la semplice quiete (pace) di una banale esistenza senza scopo, ma un avanzare di gloria in gloria, nella Gloria infinita di Dio!

E canteremo con gli angeli e i santi questa felicità di pienezza.

Questo è il lieto fine della nostra vita così rivelata.

Fratelli e sorelle, la morte non è che un passaggio e Cristo l’ha già vissuto per noi.

E sarà ancora presente in quell’ora, vicino a ciascuno di noi.

E noi passeremo - è scritto, lo sapete! - da tutta la nostra pienezza in tutta la Pienezza di Dio (Ef 3,19).

Il passaggio potrà essere un po 'duro, ma non c'è niente di cui essere tristi.

Ci sono migliaia e migliaia di miriadi di persone che ci aspettano sull’altra riva: quella della Luce e dell’ Amore.

E, in quel momento, la Grazia di Dio, noi ci mancherà!

 

San Giovanni nella sua prima lettera, sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, completa questa rivelazione.

Lo fa in termini di semplicità estrema,ma di una elevazione e di una profondità inaudita.

 

Tutto comincia con una proclamazione di fede piena di entusiasmo: Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere

chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! (1 Gv 3,1 a).

Con il cuore pieno di traboccante tenerezza, Giovanni continua dicendo: Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato (1 Gv 3,2).

Noi siamo felici di comprendere che ora siamo chiamati figli di Dio.

La Scrittura ce lo dice chiaramente quando afferma: Lo Spirito stesso – per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre! - , insieme al nostro spirito attesta che siamo figli di Dio.. Figli e perciò anche eredi (Rm 8:16).

Gesù stesso ce l’ ha detto proclamando: uno solo è il Padre vostro, quello celeste (Mt 23,9).

E precisa: Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro (Giovanni 20:17).

Comprendiamo ancora più facilmente che ciò che saremo non è stato ancora rivelato (1 Gv 3,2 b).

Basta guardare la nostra esistenza per constatarlo!

Ma poi le parole di Giovanni sono così meravigliose come misteriose: Sappiamo però che, quando Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo così come Egli è (3.2 c).

Perché saremo come Lui, perché Lo vedremo così come Egli è?

Semplicemente perché non possiamo vedere Dio senza morire.

La sua immagine ci ha lasciato. Ma abbiamo perso la sua somiglianza.

Riconquistarla è il lavoro di una vita.

Dobbiamo morire per vivere. Morire in tutto ciò che non è Dio.

È per questo che l'apostolo Paolo dice: Ogni giorno, fratelli, io vado incontro alla morte (1 Cor 15,31).

In questo mondo che passa e in questo vecchio che cade in rovina.

Poi, a poco a poco, ritroveremo, nella sequela di suo Figlio, la Sua somiglianza.

Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio! (Mt 5,8).

Bruciati nel fuoco di una vita di santità, vale a dire di separazione dal peccato, possiamo già, con la sua Grazia, diventare sempre più simili a Lui.

 

La nostra morte, inevitabile per ogni uomo, ci laverà alla fine di tutte le opere morte, come dice la Scrittura.

Esse non hanno nulla a che fare con il suo Regno!

Contemplando il suo volto, faccia a faccia (2 Cor 13,12), ci riconosciamo in Lui ed Egli in noi.

Egli si riconoscerà in noi e noi in Lui, e noi Lo vedremo così come Egli è. Vale a dire, come un Dio d’amore, di misericordia, di santità, di luce e di bellezza.

Chiunque ha questa speranza in Lui, purifica se stesso, come Egli è puro (1 Gv 3,4).

 

Non abbiamo finito di meditare su questo versetto di San Giovanni.

Uno dei più belli e dei più luminosi del Nuovo Testamento.

 

Tutto culmina nella proclamazione delle beatitudini.

Siamo là al culmine e alla base del Vangelo di Cristo.

Beati! Beati!

Quale Grazia che tutto cominci con questa parola che ritorna nove volte nella Sua bocca!

Questa è la sua prima parola rivolta alla folla nel Vangelo secondo San Matteo.

Non potrebbe esserci un modo migliore per dire quanto, per Dio, la felicità ci è promessa!

 

Ma non a qualsiasi prezzo.

La Beatitudine si riceve e si conquista, ma attraverso il cammino delle beatitudini.

Quindi comprendiamo bene quello che ci dicono.

 

Sì, beati i poveri, la cui vita è tutta abbandonata alla guida dello Spirito, perché accumulano tesori in cielo (7,9).

Beati i miti e umili di cuore, perché erediteranno una terra nuova, in cui abiterà la giustizia (2 Pietro 3:13).

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché questi giusti davanti agli uomini saranno eternamente giustificati da Dio.

Beati coloro che, mossi dalla misericordia e dal perdono, otterranno la remissione di tutti i loro peccati dal Padre delle misericordie (2 Cor 1,3).

Beati coloro che, per la purezza e la rettitudine di vita, hanno ottenuto quello sguardo chiaro che permetterà loro un giorno di vedere Dio.

Beati i messaggeri, gli operatori e i difensori di pace, perché saranno per sempre chiamati figli di Dio da parte del Principe della Pace.

Beati quelli che sono perseguitati perché vivono e promuovono la giustizia, perché fin d’ora sono aperte loro le porte del Regno dei cieli.

Beati infine coloro che, attraverso l'amore e la fede, si sono donati fino al martirio, perché perdendo la loro vita per Cristo, l’hanno già salvata in Dio.

La caratteristica più bella di questa proclamazione del Salvatore del mondo, è che essa non è esclusivamente cristiana.

Anche se, nel complesso, essa rappresenta l’immagine più perfetta del Signore Gesù: Lui, per eccellenza, il povero, il mite, il pacifico, il puro di cuore.

Qualsiasi uomo dunque può sentirsi chiamato e viverla.

Il Regno dei cieli gli sarà aperto alla fine della sua strada!

 

Fratelli e sorelle, che gioia sapere che un cielo ci attende, che ci sarà un giorno, per ciascuno di noi e tutti insieme, una Beatitudine senza fine. Ecco il cristianesimo!

 

È in vista di questa nuova ed eterna Gerusalemme che è stata fondata la nostra prima Fraternità di Gerusalemme sulla terra.

E’ stato 37 anni fa, nella solennità di Tutti i Santi, proprio qui a Saint-Gervais a Parigi.

 

Benedetto sia Dio! Amen, Alleluia!

 

sabato 2 marzo 2013 – II settimana di Quaresima - fr. Giovanni-Battista FMJ


Nella parabola evangelica che abbiamo ascoltato possiamo cogliere molti elementi importanti che ci aiutano a camminare con maggiore profondità in questo tempo di quaresima. Uno particolarmente importante è la libertà.

 

Il giovane che parte dalla casa paterna è in cerca di libertà: crede di essere schiavo e limitato nella casa paterna, e decide di costruirsi un nuovo futuro prendendo in mano la sua vita secondo i propri desideri, assecondando le sue voglie e separandosi definitivamente dalla casa paterna (Cf Lc 15,12). Essendo giovane e anche ricco, perché aveva ricevuto in eredità una parte del patrimonio di famiglia, ha tutto il necessario per vivere come vuole. Ma la sua libertà si rivela piuttosto espressione della sua immaturità: non è in grado di gestire la sua vita e i suoi beni, e da figlio del padre si ritrova ad essere schiavo di uno sconosciuto. In questa situazione di schiavitù e di indigenza, che diventa icona dell’anima che si fida solo delle proprie forze, egli si rende conto che è meglio essere semplici servi nella casa del padre piuttosto che schiavi del mondo. La sua foga di essere libero l’aveva ingannato, il suo desiderio di essere grande e indipendente l’aveva portato non solo fuori dalla casa del padre ma anche fuori di sé.

La libertà e l’autonomia così intese che allora come oggi tanto abitano l’ambizione degli uomini e forse talvolta anche dei cristiani, l’essere come Dio senza Dio, si rivelano per quello che sono: vie di rimpicciolimento e, se così si può dire, di auto-schiavizzazione.

Il giovane scoprirà la vera libertà quando rientrando in se stesso, come dice il testo, ricomincerà a mettere in relazione la sua vita con quella del padre, a comprendersi, se non ancora come suo figlio, almeno come suo salariato.

 

Alla luce di questa parabola comprendiamo allora che la Quaresima è questo tempo di educazione e di crescita della libertà dalla sua meschina immagine mondana, alla autentica libertà dei figli di Dio. Ciò suppone necessariamente un cambio di mentalità prima che una conversione morale: non si può vivere nella dimora paterna, nella Chiesa, se non in uno stato di continua evangelizzazione del proprio modo di pensare se stessi e la relazione con Dio e con gli altri.

Non fidiamoci di chi ci propone una libertà che non ha niente a che fare con la vita cristiana e che è più debitrice alla gloria, o meglio, alla vanagloria umana che alla povertà di spirito che il Vangelo insegna. “Dai loro frutti li riconoscerete” ci avverte Gesù. Libertà cristiana fa rima con rinnegare se stessi e camminare alla sequela di Cristo nella consapevolezza che non si possono servire due padroni.

 

È questo che ci testimonia il figlio prodigo, è questo che attende da noi il Padre misericordioso. Non siamo noi a costruirci la nostra grandezza se non nella misura in cui accogliamo il giogo soave di coloro che si mettono con fiducia dietro a Gesù. Il cristiano deve essere consapevole di questo e, come dice san Paolo (cf. Rm 12,2), non conformarsi a questo mondo, ma lasciarsi trasformare rinnovando il proprio modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.

 

Domenica 24 Febbraio 2013 – II Domenica di Quaresima – fr. Giovanni-Battista FMJ

 

Il nostro itinerario quaresimale cambia oggi ambientazione: si passa dal deserto, luogo simbolo della quaresima che con i suoi 40 giorni ripercorre il tempo di cammino del popolo d’Israele nel deserto nonché i 40 giorni di Gesù tentato dal diavolo nel deserto, ad un monte. Solo pochi discepoli, per iniziativa di Gesù, sono invitati a seguirlo in questa salita, per essere spettatori di un evento che resterà stampato per sempre nella loro memoria, come testimonierà lo stesso Pietro nella sua seconda lettera: “Gesù Cristo ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”. Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui nel santo monte.” (2 Pt 1,17-18).

 

Gesù, come abbiamo ascoltato nel vangelo, si trasfigura, cioè cambia aspetto; pur rimanendo se stesso, perché si tratta non di una metamorfosi ma di una trasfigurazione, assume una forma diversa, fa’ risplendere visibilmente nella sua carne umana quella gloria divina che possiede per natura. Non è difficile credere per chi è spettatore di una tale teofania, accreditata, se così possiamo dire, anche dalla presenza delle due colonne dell’antica alleanza, Mosé ed Elia, la Legge e i Profeti che conversavano con Cristo di fronte a coloro che saranno le colonne della Chiesa, Pietro, Giovanni e Giacomo. Dall’alto il Padre conferma la verità della teofania riconoscendo in Gesù il Figlio diletto: “Questi è il Figlio mio, l’eletto, ascoltatelo!”.

Dicevamo che non è difficile credere di fronte ad una tale manifestazione di gloria e di splendore che lascia letteralmente gli apostoli senza parole, incapaci di reagire razionalmente di fronte ad un fulgore simile e desiderosi unicamente che tale visione beatifica si prolunghi all’infinito. Eppure tale gloria divina ora visibile, non si estinguerà finita la visione, ma continuerà a dimorare nella carne di Cristo e ad accompagnare tutta la sua missione, anche e soprattutto nell’ora più tremenda e dolorosa della Passione e della Croce. Anche questo momento di lotta pacifica contro l’impero delle tenebre, di sofferenza e di morte per il Figlio dell’uomo sarà definito l’ora della gloria (cf. Gv 12,16.23.28).

 

Forse, anzi sicuramente, non è facile per noi scorgere nell’ora della Croce il momento della glorificazione di Cristo, e tale difficoltà non è solo nostra ma è anche dello stesso Pietro che, se sul monte Tabor estasiato aveva esclamato “Maestro, è bello per noi essere qui”, si rifiuterà di salire il monte Golgota, il monte della passione. Eppure davvero la Croce è il momento della grande glorificazione del figlio dell’uomo, della manifestazione della regalità di Colui che è inchiodato sul suo trono. Anche sulla Croce il figlio dell’uomo vive una trasfigurazione come aveva profetizzato Isaia: “Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca.” (Is 52,14).

Come si spiega questa apparente assurdità? Come non rimanere disorientati di fronte a due esperienze così paradossali eppure così simili tra loro? La risposta non la troviamo nel sensazionale ma nella consapevolezza che la gloria divina appartiene al Cristo per natura, egli è il Figlio di Dio e non deve dimostrare nulla a nessuno. Tutto in lui è glorioso, dalla trasfigurazione, alla Croce, ai germi di risurrezione di cui il suo insegnamento era ricolmo, ai molti segni di guarigione e di salvezza che accompagnano il suo ministero, e persino alla vita nascosta di Nazareth dove lavorava come umile falegname. Tutta la vita di Cristo è una vita gloriosa. È lo sguardo umano che distingue il momento della gloria dal momento della sventura a seconda se siamo nel successo e nel plauso, oppure se le cose ci vanno male. Ma per Cristo tutta la vita è una vita gloriosa perché è una vita fedele alla volontà del Padre. La vera gloria è il poter, per noi uomini, dire sì alla chiamata di Dio ed abbandonarci alla sua volontà. Cristo per questo traccia per noi la via della vera gloria, la via dell’obbedienza al Padre che traduce in modo umano quella reciproca appartenenza che egli eternamente vive con il Padre e con lo Sprirtonel seno della Trinità, perché non c’è vera gloria per l’uomo lontano da Dio.

Se dunque l’estasi della visione di Gesù sfolgorante dura pochi istanti, la Parola del Padre che segue questo evento rimane: “Ascoltatelo!”. La teofania prosegue nell’ascolto di Colui che è rivelazione del Padre, nella conformazione a Gesù che rimane al nostro fianco, e ci accompagna nella via del deserto di questa quaresima e di questa vita che è via di liberazione dalla schiavitù del peccato e di ingresso nella terra promessa ai figli di Dio.

 

venerdì 22 Febbraio 2013 - Festa della Cattedra di S. Pietro - fr. Giovanni Battista FMJ


 

La Cattedra di San Pietro che la festività liturgica di oggi propone alla nostra riflessione richiama un aspetto molto importante della vita e della natura della Chiesa: la sua realtà educatrice, in particolare educatrice nella fede. Tale ministero che la Chiesa, fin dai tempi di Cristo, è consapevole di aver ereditato dallo stesso Signore conserva urgenza ed importanza sempre attuali. Se c’è una Cattedra vuol dire che c’è anche chi insegna e governa; se c’è chi insegna e governa c’è anche chi si lascia guidare. Per cui festeggiare oggi la Cattedra di San Pietro significa anche festeggiare il nostro essere allievi di questa Cattedra.

 

Tale cammino di educazione e di discepolato è solo per analogia paragonabile all’apprendimento scolastico, infatti sappiamo che la docenza, l’educazione che la Chiesa offre ai suoi figli per mandato divino non si limita ad una trasmissione di contenuti o di conoscenze ma si tratta di un’offerta di vita, la vita divina: per questo la Chiesa non solo insegna la fede ma genera alla fede, fa nascere nuovi figli di Dio, grazie all’azione dello Spirito Santo di cui, come Maria, la Chiesa è tempio e dimora. Tale azione divina dello Spirito Santo è certo un’azione liberamente sovrana: lo sappiamo, lo Spirito soffia dove vuole e non sai da dove viene e dove va, ma è anche azione rispettosa del ministero che ha affidato alla Sua Chiesa per il bene di tutti gli uomini: Pietro “a te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”. Si spiega dunque la famosa descrizione della Chiesa come madre e maestra confermata anche dal Catechismo della Chiesa cattolica quando dice: “Essendo nostra madre, la Chiesa è anche l’educatrice della nostra fede”.

 

La cosa forse potrebbe sorprenderci: il Dio onnipotente e tre volte santo ha voluto affidare a uomini deboli, limitati e peccatori un’opera così importante, quale la guida della sua opera più bella – come afferma il nostro Libro di Vita – che è la Chiesa e il lavoro per l’accoglienza da parte di tutte le genti della salvezza che Cristo ci ha ottenuto sulla Croce. Anzi, addirittura, come abbiamo sentito, Dio stesso, in qualche modo, obbedisce ratificando nei cieli quanto Pietro lega o scioglie sulla terra. Davvero Gesù vuole continuare a servire e guidare il suo popolo con le mani di altri, mediazione umile ma efficace.

 

Eppure tale mediazione ci apre, misteriosamente, ad un rapporto immediato con Dio: è quanto abbiamo ascoltato nel vangelo di oggi: di fronte all’interrogativo di Gesù ai suoi discepoli circa la sua identità, Pietro prende la parola a nome di tutti. È lui a parlare, sì, eppure il Padre parla attraverso di lui: Pietro sei beato perché né carne né sangue ti hanno rivelato chi sono, ma il Padre mio che è nei cieli. Nel marasma delle opinioni mezze vere e mezze false della gente che conosceva Gesù per sentito dire, dalla bocca di Pietro ascoltiamo la parola vera, la retta interpretazione dell’identità di Gesù che è rivelazione del Padre: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Molti avevano incontrato Gesù ed avevano ascoltato la sua parola e assistito ai suoi grandi prodigi, eppure ciò non bastava per conoscerlo in verità: non bastava la scienza della carne, ma era necessaria la sapienza che viene dall’alto e che il Padre dona a chi vuole lui.

 

Anche oggi le opinioni e le interpretazioni mezze vere e mezze false su Cristo e sulla vita cristiana non mancano nel mondo e tra i cristiani. Tra le loro molte sfaccettature e divergenze una cosa le accomuna: l’autoreferenzialità, cioè il non conformarsi in modo discepolare al magistero di quella Cattedra che oggi festeggiamo.

 

Il cammino quaresimale in cui si inserisce questa ricorrenza liturgica ci esorta allora a conservarci ed eventualmente a rimetterci alla scuola di Pietro e degli apostoli, quelli di ieri, cioè quelli che incontrarono Gesù di Nazareth e per rivelazione del Padre lo conobbero in verità, e quelli di oggi, attraverso i quali non cessa di parlare Colui che ha promesso: “Andate e fate discepoli tutti i popoli…Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,19-20) perché come affermava San Cipriano: «Non può avere Dio per Padre chi non abbia la Chiesa per madre».

 

15 Febbraio 2013 - venerdì dopo le Ceneri - fr. Giovanni-Battista FMJ


    Il tema del digiuno è quanto ci viene proposto nelle letture che abbiamo ascoltato, e si tratta di un tema tipicamente quaresimale: ne parlava il vangelo che abbiamo ascoltato il mercoledì delle Ceneri, giorno di apertura del tempo forte della quaresima, ed è tradizionalmente annoverato tra le pratiche penitenziali di questo cammino di purificazione e di preparazione alla Santa Pasqua.

 

    Il digiuno non è di per sé una pratica di origine cristiana, e anche oggi, la limitazione o la regolamentazione dell’alimentazione non sono prassi vissute unicamente da cristiani, pensiamo per esempio al digiuno come segno di protesta, di contestazione, come anche alla diffusione di diete caratterizzate da scelte vegetariane e dunque di continua astinenza dalle carni.

 

    Anche dal punto di vista religioso il digiuno trascende i confini del Cristianesimo: già nell’antichità pagana il digiuno era considerato un metodo per prepararsi all’incontro con la divinità o per aprirsi all’influsso divino; era diffuso il digiuno come segno di lutto e come pratica magica con funzione propiziatoria.

La prima lettura ed il vangelo di oggi ci testimoniano una pratica del digiuno già consolidata ed abituale all’interno del popolo d’Israele che digiunava per predisporsi al rapporto con Dio, per vincere grandi preoccupazioni personali e, a livello comunitario per allontanare flagelli come quello della guerra o di altri disastri, e anche con funzione espiatoria.

 

   Il profeta Isaia, l’abbiamo ascoltato, pur riconoscendo valida la pratica del digiuno in se stessa, ne denuncia lo svuotamento del senso profondo che non esprime più tanto, presso Israele, il desiderio di umiliarsi di fronte a Dio, ma assume il valore di un’opera pia slegata dalla vita quotidiana di chi la pratica e dalla sua esigenza di conversione tanto che si accompagna ad uno stile di vita indifferente verso i fratelli, soprattutto verso i più poveri che, nella Bibbia, sono sempre i prediletti di Dio: “Ecco, nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari, angariate tutti i vostri operai. Il digiuno che voglio non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà “Eccomi”!” Insomma, il vero digiuno, secondo il profeta Isaia è quello che si apre ad una relazione di vicinanza, di giustizia e di carità con il prossimo; solo a queste condizioni esso sarà realmente accetto a Dio e dunque capace di attirare la Sua risposta ed il Suo aiuto.


    Nel vangelo la risposta che Gesù da ai discepoli di Giovanni che sono sorpresi del fatto che Gesù non fa come loro, ci offre una chiave di lettura del senso cristiano del digiuno e di conseguenza una pista da seguire per il nostro cammino di conformazione a Gesù: “Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno.” In questa frase è racchiuso il senso profondo di ogni pratica ascetica e di pietà del cristiano: la relatività a Gesù. Gesù è il centro del pensare, dell’agire e del pregare del credente e tutto dev’essere a lui relativo. Per il cristiano “qualsiasi pratica di rinuncia trova il suo pieno valore, secondo il pensiero e l’esperienza della Chiesa, solo se compiuta in comunione viva con Cristo, e quindi se è animata dalla preghiera ed è orientata alla crescita della libertà cristiana, mediante il dono di sé nell’esercizio concreto della carità fraterna.” (Nota pastorale della Cei sul digiuno e l’astinenza § 7). Il rischio infatti di una pietà che si chiude nell’autocompiacimento, di una religiosità di accumulo di diritti da rivendicare di fronte a Dio, della pretesa di essere giusti in virtù delle opere che facciamo sentendoci magari migliori degli altri e dunque autorizzati, vista la nostra superiore santità, a guardarli dall’alto in basso, sono rischi che si presentano soprattutto ai cristiani più impegnati. È per questo che, come ci ricorda il nostro Libro di Vita, ogni nostro atteggiamento, soprattutto quelli potenzialmente buoni, deve essere sempre accompagnato dall’umiltà di chi sa che deve tutto al Signore il quale detesta il povero superbo.

 

    Da questo capiamo allora che in fondo, come affermava san Leone Magno, il vero digiuno quaresimale consiste “nell’astenersi non solo dai cibi, ma anche soprattutto dai peccati”. Diffidiamo sempre da una religiosità che veda noi stessi come eroici protagonisti della nostra crescita spirituale, ed apriamoci invece umilmente alle mille occasioni di conversione e di apertura a lui e agli altri, che il Signore non ci farà certo mancare in questa incipiente Quaresima.

 

martedì 11 Febbraio 2013 - V Settimana T.O. - fr. Giovanni-Battista FMJ


 

Il vangelo di oggi è un esempio di come la Parola di Dio o un comandamento divino possano essere recepiti, vissuti e trasmessi in modo non del tutto autentico, fino al caso estremo dell’annullamento del comandamento stesso, come abbiamo ascoltato dalla bocca di Gesù: “Così annullate la Parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi”.

 

La posta in gioco, il nocciolo della questione non è tanto Parola di Dio sì, Tradizione no. Chi infatti secoli più tardi tenterà di opporre questi due poli intendendoli come antitetici, vedrà nascere spontaneamente, anche in seno alla propria comunità separata, una tradizione propria.

 

Per capire meglio come stanno le cose possiamo domandarci: che cos’è la Tradizione? Senza entrare in considerazioni troppo teologiche, possiamo considerare, in ambito religioso e più specificamente cristiano, tradizione l’insieme di forme, contenuti ed istituzioni con cui la comunità dei credenti, in modo comunitario, accoglie, vive e risponde alla chiamata ricevuta da Dio alla salvezza sulla base di quanto gli apostoli hanno ricevuto dalla bocca del Cristo vivendo con lui e guardandolo agire e dai suggerimenti dello Spirito Santo, deposito affidato poi ai loro successori (Cfr DV 7).

 

Senza Tradizione e senza le istituzioni che essa stessa include dovremmo rinunciare ad alcuni aspetti intrinseci al Cristianesimo come l’aspetto comunitario e la volontà di perpetuarsi lungo i secoli., oltre che l’esigenza di custodirsi nella verità. Ognuno farebbe per conto suo, crederebbe a modo suo e ciò che vuole e difficilmente il singolo potrebbe percepirsi membro, anzi, pietra viva di un’assemblea di credenti. E inoltre una fede ed una morale puramente soggettive ed arbitrarie non avrebbero neanche lunga vita perché non avrebbero nulla di oggettivo, e dunque di universalmente valido, da trasmettere agli altri. Perciò non solo è legittimo che esista una Tradizione ma è anche normale perché connaturale alla fede della Chiesa che è appunto cattolica ed apostolica.

 

Venendo al vangelo di oggi capiamo dunque che Gesù non vuole tanto condannare queste tradizioni in se stesse, non critica il fatto che esse esistano ma riconosce che non sono più espressione autentica del sì degli uomini a Dio, non sono più vie di obbedienza alla Parola, ma diventano piuttosto strumenti di allontanamento dal cuore stesso del messaggio biblico. Invece che aiutare la Parola a penetrare nelle trame più nascoste e quotidiane del vissuto degli uomini, rivestono piuttosto di una purezza formale, esteriore, ipocrita, dice Gesù, che non è in grado di convertire realmente il cuore dell’uomo bisognoso di guarigione e di salvezza. La comunità credente in questo caso non è più un’assemblea materna in grado di generare nuovi figli, si pone anzi, forse inconsapevolmente, come antagonista di Dio: “Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini.”

 

Questo rischio può divenire anche il nostro quando, nel nostro pensare e vivere da cristiani, cerchiamo soluzioni facili, accomodanti, individualiste o di quella falsa libertà che ci esorta a minimizzare il confronto fiducioso e umile con il magistero di coloro che nella Chiesa, in forza della successione episcopale – cito il Concilio (Cfr DV 7-8) – hanno ricevuto un carisma sicuro di verità e il posto di maestri che era degli apostoli stessi.

 

Per questo il Santo Padre Benedetto XVI nella sua esortazione apostolica Verbum Domini, riprendendo quanto il Concilio aveva precisato circa il rapporto tra Parola di Dio e Tradizione viva della Chiesa afferma: “In definitiva, è la viva Tradizione della Chiesa a farci comprendere in modo adeguato la Sacra Scrittura come Parola di Dio.” (…) è “ importante che il Popolo di Dio sia educato e formato in modo chiaro ad accostarsi alle sacre Scritture in relazione alla viva Tradizione della Chiesa, riconoscendo in esse la Parola stessa di Dio. Far crescere questo atteggiamento nei fedeli è molto importante dal punto di vista della vita spirituale. (VD 17-18).”

 

sabato 2 Febbraio 2013 – Commento Ora media – Festa della presentazione di Gesù al tempio - fr. Giovanni Battista FMJ


La lettura del profeta Malachìa, contestualizzata nel giorno liturgico della festa della presentazione del Signore Gesù al tempio ci pone nuovamente, anche se dal Natale sono passati 40 giorni, in una situazione di attesa e di preparazione all’incontro con il Signore che viene. E il tempio è il luogo in cui avviene questo incontro. Se a Natale abbiamo contemplato l’incontro dei pastori con Gesù a Betlemme, e all’Epifania quello dei Magi venuti dall’Oriente per adorarlo, primizia della manifestazione del Signore ai popoli pagani, oggi è Israele il destinatario della visita di Dio, un Israele rappresentato da Simeone ed Anna. Gesù, attraverso i Suoi genitori si sottomette alla legge di Mosè che imponeva l’offerta al Signore del figlio primogenito come riconoscimento della sua sacralità, cioè della sua appartenenza a Dio che in senso ebraico significa anche separazione: il primo figlio viene messo da parte per il Signore come sta scritto nel libro dell’Esodo: “Il Signore disse a Mosè: Consacrami ogni essere che esce per primo dal seno materno tra gli Israeliti: ogni primogenito di uomini o di animali appartiene a me.” (Es 13,1-2) Gesù entra dunque nel tempio e per Lui viene offerto il sacrificio previsto.

 

Ma la profezia di Malachìa ci aiuta a riconoscere qui qualcosa di diverso. Rispetto alla presentazione al tempio degli altri bambini israeliti, l’ingresso nel tempio di Gesù ha un valore superiore perché in Lui c’è molto di più di un bambino: “Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai. Siederà per fondere e purificare l’argento; purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia”.

 

L’ingresso di Gesù al tempio non è solo espressione dell’offerta della Sua vita al Padre, offerta che si consumerà definitivamente nel sublime e cruento atto d’amore della Croce, ma è quanto prepara Giuda e Gerusalemme e soprattutto chi opera nel tempio, cioè i sacerdoti figli di Levi che offrivano i sacrifici a nome del popolo, ad “offrire al Signore un’offerta secondo giustizia”. Dunque nella presentazione di Gesù al tempio Egli non solo offre se stesso al Padre ma da inizio al rinnovamento del culto e della relazione di Israele con il Suo Dio al fine di restaurarne l’autenticità e la purezza, per far sì che l’oro e l’argento tornino ad essere tali. E Simeone ed Anna sono la primizie del sì di Gerusalemme a Gesù riconosciuto Messia Salvatore e gloria del popolo d’Israele, un sì che non sempre sarà costante, in Gerusalemme, e che anzi diverrà anche rifiuto mortale nel grido “Crocifiggilo, crocifiggilo” del venerdì santo.

 

Ma fedele rimarrà invece il sì di Cristo, che in tutta la Sua vita donata al Padre e agli uomini, porterà a compimento quella dinamica di oblazione e di sacrificio che viene espressa ritualmente oggi in questa sua consegna a Dio. Gesù rimarrà sempre fedele a tale vocazione scritta nella Sua carne di figlio di Dio e vivrà sempre come un uomo appartenente a Dio e dunque a Lui consegnato, da Lui protetto ma soprattutto a Lui sottomesso, fino ad abbracciare liberamente la morte in Croce. Il bambino Gesù, anche se piccolo è già grande nel gesto che oggi, sotto la guida dei suoi santi genitori, compie, e ci rivela l’essenza, il punto supremo di ogni sacrificio autentico: l’offerta, il sacrificio di se stessi secondo la volontà di Dio.

 

È questa la vocazione dei consacrati, di coloro che vogliono vivere nel tempio del Signore e fare della loro vita una continua attesa di Lui e della sua opera purificatrice della loro oblazione. In questa Giornata della vita consacrata riscopriamo allora la nostra vita come vita non più appartenente a noi stessi, rallegriamoci per esserci liberamente espropriati di un bene così grande che il Signore ci ha dato per restituirglielo nella fiducia che solo Lui potrà farne “un’offerta gradita” per la Sua gloria e per la salvezza del mondo.

 

giovedì 31 Gennaio 2013 - III Settimana T.O. - fr. Giovanni-Battista FMJ


La metafora della lampada e dunque della luce che il vangelo ascoltato ci propone è una delle immagini più belle e più comuni per esprimere la vocazione cristiana. Oltre a trovarla sulle labbra di Gesù in più occasioni, pensiamo per esempio anche alla parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte la cui saggezza o imprudenza si verifica proprio nella capacità di attendere il Signore con le lampade accese, è presente anche nell’epistolario paolino quando l’Apostolo ci esorta a brillare come astri nel mondo in mezzo ad una generazione malvagia e perversa (Fil 2,15). Inoltre san Giovanni nella sua prima lettera accosta la luminosità di Dio con la luminosità che deve caratterizzare l’agire cristiano: “Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna; se camminiamo nella luce come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri” (1 Gv 1,5.7)


Ma se si parla di luce dobbiamo necessariamente presupporre due cose: o che si tratti di una luce riflessa, una luce che non appartiene all’oggetto lucente ma di cui piuttosto questo ne e il primo beneficiario e di conseguenza il portatore e il trasmettitore; oppure dobbiamo postulare che, alla base di una fonte di luce ci sia una combustione, un fuoco che rendendo l’oggetto incandescente lo rende anche luminoso. Al cristiano si possono applicare entrambe le modalità di provenienza della luce.

 

La prima, quella della luce riflessa, è un’idea tipicamente patristica che veniva applicata al rapporto tra Cristo e la Chiesa: se Cristo è il sole, la fonte del calore e dunque della luce, la luna ne è il riflesso che, seppur pallido, è importante e necessario perché illumina la notte del tempo presente nell’attesa e nella speranza di trovarsi, un giorno, faccia a faccia con il vero Sole. Questa idea affascinante è stata recepita nella Costituzione dogmatica Lumen Gentium quando in apertura si esplicita qual è lo scopo del Concilio Vaticano II: “illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa” (LG 1).


Ma è vero anche che, se i cristiani, come sono chiamati a fare, diventano degli altri Cristi, progressivamente sempre più simili e conformi al Lui, costoro non solo saranno dei riflettori della luce di Cristo, ma saranno incendiati dal Suo stesso calore perché invasi dal suo amore che è un amore totale e geloso. Afferma in proposito il nostro Libro di Vita nel capitolo sulla castità: “Poiché il tuo Dio è un fuoco che consuma, non puoi avvicinarti a lui senza essere consumato … Benché niente sia impuro di per sé, nondimeno tutto in te non ridiventa puro se non passa attraverso il fuoco” (LdV 81).

Comunque sia, in entrambe le prospettive, quella della luce riflessa o quella del fuoco dell’amore divino che infiamma e purifica, una cosa è chiara: la luminosità del cristiano e della Chiesa si pone più nell’ordine dell’essere che dell’apparire. Solo se si è totalmente illuminati o totalmente infuocati da Cristo la nostra vita sarà una lampada per gli altri, come lo fu quella di San Giovanni Battista che, pur non essendo la luce vera, è paragonato appunto ad una lampada che arde e risplende: dunque prima arde e poi risplende. Se non abbiamo chiaro che tipo di luce dev’essere quella che illumina il mondo la nostra visibilità nel mondo sarà forse molto luccicante ma poco luminosa se non spenta del tutto come quelle lampadine che sono sì su bellissimi lampadari ma sono guaste. E il nostro calore un fuoco di paglia, tanto rapido ad accendersi e magari scoppiettante, quanto veloce a spegnersi e incapace di scaldare a lungo.

 

Se questo è vero dobbiamo allora ravvivare sempre il dono di Dio che è in noi, cioè la nostra relazione con Dio, preparare l’olio in piccoli vasi che consente di attendere a lungo lo sposo che viene nella notte, e ricordare che se la visibilità del cristiano non è custodita nella gratuità anche mediante il nascondimento soprattutto per il monaco, rischia seriamente di degenerare in superficiale ed egocentrica appariscenza.

 

martedì 29 Gennaio 2013, III Settimana T.O. - fr. Giovanni-Battista FMJ


 

Ci troviamo oggi, grazie alle letture che abbiamo ascoltato, al cuore della risposta dell’uomo a Dio che si rivela e che lo chiama: l’ascolto credente della Sua Parola che diventa obbedienza operosa della Sua volontà.

 

Le parole del Signore Gesù che abbiamo ascoltato vogliono esplicitamente caratterizzare in senso famigliare i rapporti in seno alla comunità dei discepoli che gli vengono dietro. Egli non fonda un partito politico, non istituisce un club di appassionati che saltuariamente si riunisce per l’hobby preferito, ma chiama tutti a seguirlo, senza interruzione e senza vacanze, sulle orme dell’obbedienza al Padre, e così facendo, a diventare, in profondità figli del Padre sempre più simili a Lui, il solo che lo è per natura e non per grazia ed adozione come lo siamo noi.

 

Ma cosa c’è, in fondo di originale, in questa logica di ascolto ed obbedienza che Gesù ci propone per essere considerati Suoi fratelli? L’affermazione di Gesù “chi fa la volontà di Dio, costui è per me fratello, sorella e madre” potrebbe infatti non avere molto di diverso dalle regole di convivenza di un qualsiasi gruppo umano. Del resto il rispetto di una norma, di una volontà riconosciuta da tutti come superiore ai desideri del singolo è la regola per poter permanere in qualsiasi raggruppamento che desidera un minimo di stabilità, di buon ordine. Anche il militante in un partito politico potrebbe dire: miei fratelli sono coloro che obbediscono al partito, che seguono il leader. Se interpretiamo così il vangelo di oggi rischiamo però di impoverire non solo la parola di Gesù, ma la sua stessa persona e la sua autorità, rendendola simile a quella di un gurù, di un santone o di un qualsiasi capo di gruppo politico, filosofico o religioso.

 

Il brano della lettera agli Ebrei che abbiamo ascoltato nella prima lettura ci offre una chiave di lettura del vangelo molto profonda. Il testo cita il salmo 39 come espressione del Cristo sacerdote stesso che entra nel mondo: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta … Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà”. Entrando nel mondo mediante l’Incarnazione nel seno della Vergine Maria la Seconda persona della Trinità rivela qual è l’atteggiamento del Figlio nei confronti del Padre: l’adesione alla Sua volontà. Gesù di Nazareth è la perfetta immagine umana, in quanto anche divina, del movimento donativo ed eternamente amante che si vive da sempre nel cuore della Trinità. È solo “in Cristo e mediante la sua volontà umana che la volontà del Padre è stata compiuta perfettamente ed una volta per tutte” (CCC 2824). Se il Figlio di Dio fatto uomo per noi vive nell’obbedienza al Padre ecco che allora, per noi fare la volontà di Dio non è semplicemente per una regola di pacifica convivenza o la condizione per appartenere ad un circolo o ad una famiglia spirituale ma è quanto ci rende pienamente figli nel Figlio, fratelli e figli con Cristo e in Cristo, è il nostro modo di dare concretezza e visibilità in noi stessi a quell’amarsi e donarsi reciproco che il Padre e il Figlio nello Spirito Santo vivono incessantemente. Ecco perché chi fa la volontà di Dio è per Gesù fratello, sorella e madre, perché si comporta, insieme a lui e grazie a lui, come figlio del Padre, confermando ed assecondando con la vita il dono della figliolanza divina ricevuto nel Battesimo.

E, del resto è solo nell’adesione alla volontà del Padre che l’uomo trova la pace, pace con Dio, pace dentro di sé, pace con gli altri uomini che diventano così fratelli. Quante nostre inquietudini interiori ed inimicizie esteriori nascono da un rifiuto più o meno esplicito e consapevole di fare la volontà del Padre! Al contrario, quanto è riposante per il nostro cuore deporre, o meglio, scomporre i nostri perseveranti e complessi tentativi di giustificare di fronte a Dio o agli altri, soprattutto di fronte a chi, nella Chiesa il Signore ha posto per governare in Suo nome, per fare quello che vogliamo noi!

Essere figli significa lasciare al Padre la Parola definitiva su noi stessi.

 

Sia questo per noi il vero cammino di santità e l’autentica via per crescere nella comunione reciproca, ad immagine della Trinità. Sia questa, nel nostro tempo e nel nostro mondo, la profezia della vita cristiana e della vita monastica capace di stupire ed interrogare le coscienze più lontane da Dio. “La tua gioia tranquilla, parlerà”

 

venerdì 25 gennaio 2013 - Conversione San Paolo - fr. Massimo-Maria FMJ

     Come ogni anno la festa della conversione di San Paolo conclude l'ottavario di preghiera per l'unità dei cristiani. Questa scelta diviene quasi un invito, neanche troppo implicito,  a tenere presente durante tutto l'anno liturgico che, il continuo cammino di conversione della vita è il miglior modo per lavorare a favore dell'ecumenismo.

      Una domanda però, a tale proposito, si impone: quale significato particolare assume la parola conversione in tale contesto?

     Certamente la conversione nel senso di una vita che sia più evangelica; ad una vita che appaia più credente; verrebbe da dire più di Dio, più secondo Dio.

    Guardando però all'esperienza di Paolo che oggi celebriamo, ed alla parola che è stata scelta per la liturgia di questo giorno,  la parola conversione assume un particolarissimo significato che diviene per noi prezioso.

    La prima lettura ci ha dato di ascoltare il racconto della sua conversione da parte dello stesso Paolo.

    In viaggio verso Damasco, con l'intenzione di perseguitare i cristiani, Saulo ha vissuto l'esperienza determinante e fondante di tutto il resto della sua esistenza: l'incontro con Gesù, il Nazareno.

    Paolo si converte!

   Non nel senso che passa da una vita malvagia ad una vita buona; le opere che compiva erano le opere sante di ogni pio israelita;

   neppure nel senso che passa da una vita senza Dio ad una vita piena di Lui; Paolo è non solo pio israelita, ma fedele osservante e pieno di zelo per il Dio d'Israele.

   Paolo si converte allora, nel senso che tutta la sua vita sulla strada di Damasco è – come lui stesso afferma – afferrata da Gesù, presa da Gesù, ri-orientata a Lui e da Lui, informata dal Signore Risorto. Paolo sulla via di Damasco è come posto in una relazione nuova e definitiva che diviene la relazione davvero determinante per tutto il suo vivere e persino per il suo morire.

    Cari fratelli e sorelle in questo c'è dunque per noi una prima indicazione da fare nostra, da fare assolutamente nostra: ricordarci che tutta la nostra vita deve essere un continuo cammino di conversione, non significa che tutta la nostra vita deve essere un continuo sforzo ad essere un po' più buoni, un po' più pii, ma piuttosto che tutta la nostra vita deve essere sempre più orientata, tesa, verso Gesù, il Signore. Tutta la vita come per Paolo deve essere afferrata, presa dal Signore Gesù.

   Si può essere buoni senza essere cristiani, si può essere onesti senza essere credenti, si può essere ineccepibili, brava gente, senza essere santi. La differenza sta proprio nella centralità o meno  della persona di Gesù, il Signore.

   Tendere alla conversione equivale allora a tendere instancabilmente a Gesù con forza, con generosità, passione entusiasmo.

     A questo punto si coglie anche l'altra direzione della conversione: gli altri, l'universo intero per portare non noi stessi, neppure una dottrina ma una persona, la persona che ha preso la nostra vita e ne è il senso profondo e la gioia segreta: Gesù il Figlio di Dio.

   Il Signore Gesù per la preghiera dell'apostolo Paolo ci conceda in questo giorno di ri-orientarci decisamente e costantemente verso di lui, per portarlo così ai nostri fratelli nella certezza che così con tutta la chiesa collaboriamo a quell'unità che è il desiderio profondo del Signore Gesù. Amen

 

mercoledì 23 Gennaio 2013 – II Settimana T.O. - fr. Giovanni-Battista FMJ


 

Il brano evangelico che abbiamo ascoltato chiude il ciclo dei racconti di controversie iniziato al capitolo secondo del vangelo di Marco, un ciclo che si era aperto con il paralitico a Cafarnao e che si conclude oggi con la guarigione di un uomo dalla mano paralizzata, sempre a Cafarnao, e con il drammatico epilogo: ” E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire”.

In questi racconti, il ministero di predicazione e di guarigione, spirituale e fisica, di Gesù si compie sullo sfondo dello sguardo pesante e critico dei farisei. Ad ogni parola o atteggiamento di Gesù fa seguito lo scandalo degli osservanti della Legge, dei dotti conoscitori delle cose di Dio, dei veri religiosi: chi può perdonare i peccati, se non Dio solo? Perché costui mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori? Perché i discepoli di Giovanni digiunano mentre i tuoi discepoli non digiunano? E ancora: Guarda! Perché fanno in giorno di sabato quello che non è lecito? Anche oggi si ripresenta lo stesso genere di sorpresa, la stessa perplessità, questa volta, però, mascherata dietro un ambiguo silenzio, quasi un rifiuto a prendere posizione pubblicamente e a venire alla luce.

 

Di fronte ad un pubblico così ostile Gesù si rattrista per la durezza dei loro cuori. Pur essendo conoscitori e scrupolosi osservanti della lettera della Torah, hanno fatto dei comandamenti del Signore una sorta di anestetico per la coscienza, una muraglia intorno al proprio cuore.

 

Un tale atteggiamento era già stigmatizzato nell’Antico Testamento. Ricordiamo bene le forti esortazioni del profeta Isaia: “Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità. (…) Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova.” (Is 1,13.17) Ma l’ambiguità di una religione che separi culto e amore a Dio dall’amore per l’uomo risalta ancor di più da quando Dio, in Gesù ha posto nell’uomo stesso la sua dimora rendendolo non più soltanto “sua immagine e somiglianza” in senso generico, ma τύπος – figura del Suo Figlio.

 

Da ciò capiamo allora che se è tragicamente vero che quando l’uomo toglie Dio dalla sua vita e dalla relazione con il prossimo rischia di produrre danni seri e, talvolta irreparabili, a sé e agli altri, è vero anche il contrario: quando l’uomo esclude l’uomo dalla propria relazione con Dio va incontro allo stesso rischio: una religione contro l’uomo, un culto spietato, un sacrificio degli altri e non di sé. Cristo, sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedek, “sacerdote perché sacrificio”, come ci è stato spiegato nel commento dell’ora media di oggi, ci introduce nel vero culto in Spirito e Verità. Il Padre, del resto, cerca tali adoratori.

 

Noi pensiamo – scriveva il Venerabile Papa Paolo VI – che la carità debba oggi assumere il posto che le compete, il primo, il sommo, nella scala dei valori religiosi e morali, non solo nella teorica estimazione, ma altresì nella pratica attuazione della vita cristiana. Ciò sia detto della carità verso Dio, che la sua Carità riversò sopra di noi, come della carità che di riflesso noi dobbiamo effondere verso il nostro prossimo, vale a dire il genere umano.” (Ecclesiam Suam § 58) Non c’è nulla di squisitamente puro e cristiano che non sia anche perfettamente umano. Il Signore è per l’uomo e l’uomo è per il Signore. È questo il cammino di unificazione che la sapienza divina traccia per ognuno di noi. L’unità visibile della Chiesa rimane un traguardo probabilmente ancora lontano, ma nulla ci impedisce di amare e di colmare le nostre distanze, già fin d’ora, seguendo la via della carità.

 

Se il Figlio di Dio incarnandosi ha colmato l’abisso che separa Dio dall’uomo corrotto dal peccato, anche noi potremo, insieme a Lui, attraversare l’abisso (perché talvolta davvero di abisso si tratta, se pensiamo per esempio al “l’inferno sono gli altri” di Jean Paul Sartre “l’inferno sono gli altri”) che ci rende estranei, per non dire nemici, a vicenda.

 

venerdì 18 Gennaio 2013 – IA Settimana T.O. - fr. Giovanni-Battista FMJ


 

Le letture che abbiamo ascoltato, anche se tratte da testi differenti, sono tra loro legate da un tema che accogliamo con particolare interesse oggi, giorno iniziale dell’Ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani. Questo tema è l’unità nella fede.

La lettera agli Ebrei, meditando sul salmo 94, lo collega giustamente al contesto storico a cui fa riferimento: l’esodo nel deserto, l’uscita del popolo d’Israele dall’Egitto. Il salmo riflette sulla fede degli israeliti, una fede degenerata per alcuni in ribellione, distacco da Dio, non ascolto. Un tale atteggiamento irritò il Santo d’Israele: “mi disgustai di quella generazione e dissi: hanno sempre il cuore sviato, non hanno conosciuto le mie vie … non entreranno nel mio riposo.” E l’autore della lettera agli Ebrei aggiunge: “Noi vediamo che coloro che non avevano creduto non poterono entrare nel riposo di Dio a causa della loro mancanza di fede.”

 

Tale storia passata diventa insegnamento per il presente, avvertimento per non cadere nello stesso genere di disobbedienza, invito urgente ad accogliere con cuore docile ed ascoltante la Parola del Vangelo. Ma l’ascolto non è sufficiente. C’è bisogno di interrogarsi sul come ascoltare, sul tipo di ascolto, un ascolto che dev’essere concorde, dev’essere accoglienza comunitaria della parola nella e per la fede comune. Un ascolto diverso potrebbe non solo non essere di giovamento per noi stessi, ma potrebbe mortificare il frutto di grazia e di comunione che la Parola porta in sé a tal punto da creare divisioni in seno ai credenti: “Anche noi, come quelli, abbiamo ricevuto il Vangelo: ma a loro la parola udita non giovò affatto, perché non sono rimasti uniti a quelli che avevano ascoltato con fede.”

 

Venendo al Vangelo, anche qui il tema dell’unità nella fede è molto presente, anzi si parla addirittura di una fede visibile, tanto che l’evangelista Marco scrive che Gesù, vede la fede delle quattro persone che gli recavano un paralitico. Il testo non ci dice nulla riguardo alla fede di quest’ultimo, ma è chiaro che Gesù, vedendo la fede dei quattro, disse: Figlio ti sono perdonati i peccati. Per la fede di terzi il paralitico sarà salvato. La fede di cui si parla è una fede unanime, concorde, una fede che corroborata dall’amore e dalla compassione per il fratello infermo rende queste quattro persone, forse inconsapevolmente, armonico strumento della grazia per la guarigione interiore ed esteriore di un povero sofferente.

 

Il fotogramma di questa scena che il vangelo ci consegna diventa per noi, oggi, immagine del nostro desiderio di cristiani di vivere e di esprimere in modo indiviso, cioè in una comunione piena, la nostra vocazione cristiana in un mondo e per un mondo sofferente che ha bisogno del sostegno unito e compartecipe di tutti i cristiani per poter giungere a Cristo e trovare salvezza. Ricordiamolo, non per la fede di uno solo dei portantini il paralitico fu sanato, ma per la fede di tutti e quattro. E non sta scritto che Gesù vede “le loro fedi” ma “la loro fede”, un’unica fede che orientava, potremmo dire, governava il movimento dei quattro orientandolo verso Cristo per la santificazione dell’infermo. Tra le righe, e in modo un po’ allegorico, sembrano emergere qui quei tre vincoli di comunione, nella professione di fede, nel governo e nei mezzi di santificazione (ossia i sacramenti) che debbono sostenere la comunione della Chiesa che si edifica sulla roccia di Cristo.

 

“Da Cristo Signore la Chiesa è stata fondata una e unica, - afferma il decreto sull’Ecumenismo del Concilio Vaticano II – eppure molte comunioni cristiane propongono se stesse agli uomini come la vera eredità di Gesù Cristo. Tutti invero asseriscono di essere discepoli del Signore, ma hanno opinioni diverse e camminano per vie diverse, come se Cristo fosse diviso. Tale divisione – si legge sempre nel decreto conciliare – non solo si oppone apertamente alla volontà di Dio, ma è anche di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura.”

Tali parole non possono lasciarci indifferenti. Di fronte ad un tale stato di cose vogliamo e dobbiamo sentirci anche noi interpellati nel nostro intimo e sollecitati nel nostro agire a dare il nostro contributo per far sì che quella barella su cui ancora oggi giace chi ignora la salvezza di Cristo possa essere condotta nella casa di Gesù, laddove il Maestro annuncia ai molti la Parola e guarisce i peccatori.

 

Il desiderio di Gesù che Egli ci ha lasciato come preghiera e come una sorta di testamento nelle sue ultime ore di vita terrena abiti in questi giorni le nostre invocazioni: “Non prego solo per coloro che mi hai dato, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una cosa sola … perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,20-21).

 

venerdì  10 Gennaio 2013 - 2a settimana dopo Natale - fr. Giovanni-Battista FMJ


Colui che per decenni era rimasto un qualsiasi con-paesano degli abitanti di Nazareth, oggi, nella sinagoga inizia la sua missione di annuncio e di salvezza. Tutti avevano lo sguardo fisso su di Lui, tutti avevano percepito nel modo di Gesù di proclamare il passo del profeta Isaia, qualcosa di diverso, di personale e di universale insieme, di remoto e atteso da secoli e, nel contempo di incredibilmente contemporaneo. “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. Nessuno immaginava di trovarsi “nella pienezza dei tempi”. Sta in mezzo a voi qualcuno che non conoscete, diceva Giovanni il Battista. Ritorna in questo frangente lo stupore, la meraviglia che già a Betlemme avevano lasciato a bocca aperta coloro che udivano la testimonianza dei pastori: siamo di fronte ad una nuova Rivelazione! Coloro che pensavano di conoscere Gesù perdono i loro riferimenti, sono spiazzati e forse disorientati, un disorientamento che, come sappiamo da un altro episodio avvenuto sempre a Nazareth, aveva quasi condotto Gesù al linciaggio.

 

È interessante notare come Gesù non si autoproclami Messia Salvatore, pur sapendo di esserlo, ma lascia che sia la Parola di Dio ad illuminare, agli occhi delle genti, la sua identità. Pur essendo Colui che, in quanto vero Dio e vero uomo, “proferisce le parole di Dio”, non annunzia se stesso ma lascia che la testimonianza autorevole della Scrittura, e dunque dello Spirito che è sopra di lui, illumini il suo volto e lo riveli agli astanti. La parola di Dio che ancora oggi e in diversi modi risuona nel mondo e nella Chiesa ci dischiude l’insondabile mistero, il volto di Cristo, ci fa conoscere Colui nel quale si ricapitolano tutte le cose.

 

Ora, la Parola di Dio ha questo potere, ma solo ad una condizione: che la si consideri come Parola di Dio e non come parola umana, e di conseguenza, che la si accolga con cuore credente, con fiducia. In quanto parola di Dio continua ad essere efficace nell’intimo di chi l’ascolta, prima che per dare degli orientamenti di vita da seguire, per preparare i cuori all’accoglienza della rivelazione di Gesù. Di questo rendeva grazie san Paolo: “noi rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l’avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti” (1 Ts 2,13). Dio continua a venire a noi, il Verbo divino continua ad incarnarsi, e non avremo mai finito, anche noi come gli abitanti di Nazareth in preghiera, di conoscere qualcosa di Gesù e del suo vero volto. Se dunque ci avviamo verso la fine di questo tempo di Natale in cui abbiamo solennemente celebrato e accolto nuovamente nella nostra storia l’incarnazione del Verbo di Dio, ecco che tale incarnazione rimane nella Chiesa, perdura nell’ascolto della Parola di Dio, e, in essa, ci raggiunge.

 

Il santo Padre Benedetto XVI parlando in una sua esortazione della “Cristologia della Parola” ricorda un aspetto molto affascinante messo in luce dalla tradizione patristica e medievale con un’espressione suggestiva: “il Verbo si è abbreviato”: “«I Padri della Chiesa, nella loro traduzione greca dell’Antico Testamento, trovavano una parola del profeta Isaia, che anche san Paolo cita per mostrare come le vie nuove di Dio fossero già preannunciate nell’Antico Testamento. Lì si leggeva: “Dio ha reso breve la sua Parola, l’ha abbreviata” (Is 10,23; Rm 9,28) … Il Figlio stesso è la Parola, è il Logos: la Parola eterna si è fatta piccola – così piccola da entrare in una mangiatoia. Si è fatta bambino, affinché la Parola diventi per noi afferrabile». Adesso, la Parola non solo è udibile, non solo possiede una voce, ora la Parola ha un volto, che dunque possiamo vedere: Gesù di Nazareth.” (Verbum Domini § 12)

 

Anche a noi perciò si addice lo stesso atteggiamento contemplativo dell’assemblea della sinagoga di Nazareth dove gli occhi di tutti erano fissi su Gesù perché davvero tra noi “è apparsa la grazia di Dio” (Tito).

 

venerdì  4 Gennaio 2013 - 1a settimana di Natale - fr. Giovanni Battista FMJ

 

     Il testo del vangelo di oggi è sicuramente una delle pagine più belle degli scritti giovannei. Ci troviamo di fronte infatti alla narrazione di un incontro particolare, unico, irripetibile, un incontro che cambierà non solo la vita delle poche persone direttamente coinvolte, ma il corso della storia e soprattutto il corso della nostra storia personale: la nostra vita oggi non sarebbe la stessa, sarebbe molto diversa, se non fossero realmente accaduti eventi come questo. Ogni parola di questo testo sarebbe degna di soffermarsi lungamente per penetrarne il contenuto e rimanerne illuminati, abbagliati, per entrare anche noi nella vicenda narrata.     

    Ci possiamo accontentare di qualche raggio di luce.

   Anzitutto notiamo l’utilizzo di un verbo molto diffuso nel vangelo di Giovanni, il verbo meno, rimanere, dimorare, che è uno dei migliori tentativi di tradurre in parole umane, per quanto sia possibile, la dinamica di unità e distinzione che si vive eternamente in seno alla Trinità. Questo termine è qui utilizzato per descrivere l’esperienza dei due discepoli, Andrea e l’altro discepolo (che la tradizione ha identificato con Giovanni) a casa di Gesù: Andarono, videro dove egli dimorava e quel giorni rimasero con lui. Egli dimorava e anch’essi diventano con-dimoranti insieme a Gesù. È interessante notare che questo verbo non viene utilizzato per esprimere l’aggregarsi degli stessi discepoli con Giovanni Battista, in questo caso si utilizza infatti un verbo diverso, Istemi, stare: Giovanni – si dice – stava ancora là con due dei suoi discepoli. Cosa è cambiato tra le due situazioni, cosa c’è di diverso tra le due comunità? Ebbene, ci troviamo davanti ad una relazione nuova, ad un’esperienza nuova: non si dimora con Giovanni il Battista, ma solo Gesù è il compagno con cui dimorare! Cosa c’è in mezzo tra questi due momenti che, anche se molto ravvicinati temporalmente all’interno della vicenda narrata nel testo di oggi, rimandano ad un passaggio globale del mondo e della storia avvenuto nella pienezza dei tempi? La risposta ce la da San Paolo: Dio mandò il suo Figlio perché ricevessimo l’adozione a figli, in altre parole perché divenissimo tutti fratelli, tutti abitanti della stessa casa, dimoranti, rimanenti della stessa casa. Con l’incarnazione del Figlio di Dio si inaugura il tempo della comunione. Ecco il senso pieno del verbo meno. Se è vero che, al tempo di questa vicenda Gesù già si era incarnato, tuttavia l’incarnazione per i protagonisti del racconto si rivela in questo incontro: Abbiamo trovato il Messia!

     Ora, se è Dio in Cristo il fondamento della comunione in quanto è Lui che ci rende partecipi della sua natura facendoci figli nel Figlio e fratelli in Cristo, tale rigenerazione, tale nuova identità divina che ci viene offerta non si compie in modo impercettibile, passandoci sopra come se niente fosse. Perché entrare e vivere in comunione con Dio e con i fratelli significa rompere con il peccato, purificarsi dal male. Lo stesso apostolo Giovanni nella prima lettura ci esorta con parole molto chiare: “Figlioli, nessuno v’inganni: chi commette il peccato viene dal diavolo…chiunque è stato generato da Dio non commette peccato perché un germe divino dimora in noi…per questo si manifestò il Figlio di Dio: per distruggere le opere del diavolo”. Il nostro Salvatore è nato per darci la vita, cioè per salvarci dalla morte il cui pegno, la caparra è il peccato. Vivere la comunione con Dio significa morire al peccato. Questo è un passaggio forse duro e doloroso, che ci costa , ma è necessario. Se da un lato dobbiamo mettere in conto che, finché siamo in questa vita dobbiamo tollerare la promiscuità del bene col male, del grano buono con la zizzania, in noi e fuori di noi, d’altro canto non dobbiamo mai rinunciare all’ideale della santità. In questo “nessuno vi inganni” è contenuta un’esortazione paterna a rimanere vigilanti e a non cedere all’illusione di un cammino cristiano più facile, più comodo perché magari ha rinunciato al desiderio della misura alta, di essere come Gesù. La grazia di Dio non sia vana in noi! Vale molto agli occhi di Dio la sofferenza provocata dalla fatica della conversione.     

     Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia – dice il Salmo.

     Venite e vedrete! È questo l’invito che il Signore ci rivolge oggi. Chi vuole risponda: ecco Signore, io vengo, per fare la tua volontà.

 

martedì 1° Gennaio 2013 - 1 settimana di Natale - Maria SS.Madre di Dio - fr. Giovanni-Battista FMJ

     L’Ottava di Natale si compie e il nuovo anno si apre guardando alla figura di Maria nell’accezione più alta che una creatura potesse mai ricevere nella storia dell’umanità: Madre di Dio. Per quanto, durante i secoli, la pietà popolare, la teologia e la spiritualità mariana ci abbiano regalato profondissime riflessioni e abbiano esaltato Maria attribuendole le qualifiche più belle e descrivendola nei modi più affettuosi ed espressivi, nulla può lodare maggiormente la bellezza di Maria se non il titolo che la Chiesa le riserva da secoli, quello di Madre di Dio. Se dunque, pochi giorni fa, abbiamo visto avverarsi la parola del profeta Isaia (9,5): “un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio”, oggi vogliamo aprirci ad una sorta di nuova rivelazione: la rivelazione di Maria come Madre. Sì, perché il Natale del Signore è anche il Natale di Maria come Madre, e dunque molto opportunamente questa solennità, un tempo celebrata l’11 ottobre, a ricordo del Concilio di Efeso che proclamò definitivamente il dogma della maternità divina di Maria, venne poi contestualizzata nell’unico giorno liturgico dell’Ottava di Natale.

     Parlare di Maria nei termini di Madre di Dio presuppone anzitutto il riconoscere la realtà dell’incarnazione del Verbo di Dio, della seconda Persona della Trinità. Maria non è Madre di Dio nel senso che sia principio della divinità, ma è Madre di Dio perché concepisce e partorisce Gesù Cristo, che è vero Dio e vero uomo, Colui che era prima di tutti i secoli, prima ancora di Maria. Maria da alla luce il Creatore di tutte le cose. Gesù, nato da donna, è nel contempo il concepito per opera dello Spirito Santo. Maria offrì la sua umanità al Figlio eterno, ella non fu semplicemente un contenitore per il Dio bambino, ma Maria fu Colei che donò a Cristo quella carne grazie alla quale tutta la natura umana è stata assunta, redenta, glorificata, partecipe della natura divina. Da ciò iniziamo a comprendere meglio anche il mistero e la profondità della maternità di Maria, divina e umana. Ma per evitare che tale comprensione ci lasci semplicemente a bocca aperta, regalandoci sentimenti di stupore o meraviglia, in fin dei conti, poco incisivi nella nostra vita di credenti, per evitare di lasciare Maria nella sfera delle cose impossibili dobbiamo ricordarci che Maria è anzitutto Madre grazie alla fede, dunque Madre nella fede. Già il Vangelo mette in luce almeno due occasioni in cui Maria è considerata beata perché crede: quando Gesù corresse la donna che nella folla gridò: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!” Ribattendo: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28). E quando Gesù rispose a coloro che gli avevano annunziato che sua madre e suoi fratelli lo cercavano: “Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21).

     Maria è madre e genera anzitutto perché ha fede! Ora, “la fede – ci insegna la Chiesa – è un dono di Dio, una virtù soprannaturale da lui infusa. (…) è impossibile credere senza la grazia e gli aiuti interiori dello Spirito Santo. Non è però meno vero che credere è un atto autenticamente umano” perché “nella fede, l’intelligenza e la volontà umane cooperano con la grazia divina.” (CCC 153.154.155). E Maria ha corrisposto alla grazia divina in modo squisitamente puro e anche squisitamente umano e materno: con la sua umiltà! Maria, libera da se stessa, ha provocato la libertà del suo Creatore. Per Maria credere non è stato solamente, cosa già grande, accogliere con fiducia e oblatività la Parola di Dio trasmessale dall’angelo. Prima ancora di questa adesione personale al progetto di Dio Maria vive un atteggiamento di straordinaria purezza: lascia che Dio si riveli per quello che è! È questo atteggiamento antropologico e trascendente, insieme esistenziale e spirituale, ad interloquire con il Tu che Dio le rivolge. Tale disponibilità di Maria, che è apertura del cuore e della mente è, in fondo, quell’atteggiamento che distingue lo stupore, la meraviglia di coloro che udivano le cose dette dai pastori, reazione non negativa ma ancora superficiale, incapace di andare al di là dell’apparenza, dal “custodire meditando nel cuore” di Maria, esperienza interiore che dice rispetto, accoglienza casta delle parole e degli eventi, sguardo contemplativo del divino che emerge nell’umano. Nel seno di una donna del genere Dio trova riposo, trova dimora, prende carne.

     Se l’essere Madre di Maria è anzitutto esserlo nella fede e per la fede, capiamo allora che, se lei lo è in modo privilegiato e unico, tuttavia anche per noi è possibile generare Cristo per mezzo della fede. Generarlo in noi stessi lasciando che si riveli nella nostra vita. E generarlo negli altri assecondando l’opera di Dio e, nel contempo, lasciando che tale opera sia come la vuole Dio e non come la vorremmo noi. Maria, donna che genera Cristo, diventa per noi allora il modello non solo della credente, della donna di fede in quanto tale, ma soprattutto di una fede che è apertura e disponibilità al mistero non detentrice.

     Maria, Madre di Dio e Madre nostra, pura trasparenza di Gesù, tu sei l'umile serva che il Signore ha voluto fare partecipe dei suoi segreti, rivelando se stesso in te, mostraci la via della vera maternità e della vera fecondità. O Madre dei viventi, beata tu che hai creduto!

 

 

 

 

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