Biblioteca digitale

delle Fraternità

di Gerusalemme

di Firenze                                     

              

                   OMELIE 2008-2009

 Santa Maria Assunta alla Badia Fiorentina

 

 

 

Domenica 27 dicembre 2009 - S.Famiglia - fr. Marek FMJ

Fratelli e sorelle,

Il piccolo bambino Gesù che commossi contempliamo come giace nel mangiatoia è la luce così forte che per la sua presenza illumina tutte le cose umane. Cristo non cammina ancora, non parla, non può far nulla ed è totalmente dipendente dalle persone che stanno a canto a lui, ma già ci insegna. La sua debolezza infinita ci permette di vedere una delle più belle realtà create da Dio per manifestarsi alla creazione: la famiglia umana.

La parola ‘famiglia’ non lascia nessuno indifferente. Suscita tante emozioni e da secoli spinge uomo all’intensa riflessione per capire questa realtà fondamentale, onnipresente ed estremamente intricata. Anche il nostro tempo conosce le discussioni su che cos’è famiglia, matrimonio, paternità e maternità. Tante proposte dei pensatori che si credono geniali tendono alla rivoluzione nel campo famigliare, a una rivoluzione grottesca di cui si potrebbe ridere, si non sarebbe una cosa seriamente pericolosa. Anche la Chiesa, come sapete molto bene, tratta l’argomento della famiglia con serietà, perché sa bene che riguarda alla domanda sulla natura dell’uomo. La festa della Santa Famiglia, che celebriamo durante l’ottava del Natale, ci offre una grande luce, anche se l’insegnamento sulla famiglia umana che qui troviamo è davvero semplicissimo. Dare un’occhiata su bambino Gesù, Maria e Giuseppe ci svela il segreto di ogni famiglia: amore fra uomo e donna, la loro unione duratura e profonda.

Non a caso l’Angelo Gabriele fu mandato da Dio a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide. Dio aveva bisogno di tutti e due, di Maria e di Giuseppe, e anche del loro amore. Il fatto che Maria si trovò incinta prima che andassero a vivere insieme non significa che Dio è entrato nella loro vita nell’ultimo momento per impedire piena unione matrimoniale, ma al contrario, anche se il suo Figlio doveva nascere da una vergine, Dio aspettava sponsali di Maria e Giuseppe. Colui che da pietre può suscitare figli ad Abramo (Mt 3,9), che può aprire il seno sterile o verginale, aspettando sposalizio di Maria e Giuseppe mostro chiaramente che l’amore fra l’uomo e la donna rende natura umana simile al Creatore, la rende creatrice, feconda. L’intrico del problema della famiglia umana è proprio qui, la soluzione dell’enigma famigliare, la fonte delle difficoltà e della prosperità si trova nell’unione fra marito e moglie.

Fratelli e sorelle, nella famiglia umana sono molte relazioni. Abbiamo una madre e un padre, fratelli e sorelle, nonni, zii, nipotini, cugini, generi, nuore, cognate e suoceri… e tutti questi nomi nascondano una relazione particolare, non sempre facile, mai scelta da noi, ma sempre di maggior importanza per la nostra vita. In quest’intrico delle relazioni una è eccezionale e impareggiabile essendo fondamento di tutto: mio marito, mia moglie. Niente è più importante nella vita umana di essere marito o moglie. Essere madre, padre, figlio, suocera o nonno significa molto meno e non è così importante. Nessuno nella vita di una donna vale più del suo marito, e nella vita di un uomo nessuno vale più della sua moglie. Mi sembra che queste persone si deve amare come Dio, di tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. E dalla radice di quest’amore cresce l’amore del prossimo: soprattutto l’amore del bambino a cui niente è così prezioso come l’amore dei suoi genitori. Si, fratelli e sorelle, la salute e la felicità di ogni famiglia umana sta nella salute e nella felicità dell’amore coniugale.

Il brano del Vangelo che parla dello smarrimento di Gesù a Gerusalemme ci mostra molto bello l’unione fra Giuseppe e Maria. La situazione, nella quale l’accusa verso il coniuge nasce molto facilmente, non è riuscita di seminare discordia fra loro. Vediamo loro uniti nel dolore: cercano Gesù insieme, insieme tornano a Gerusalemme e insieme infine lo trovano nel tempio. E quando Maria dice a Gesù: “perché ci hai fatto questo, ti cercavamo angosciati”, parla davvero di due persone, che sono diventate una carne sola. Non sono più due, ma una sola carne (Mc 10,8). Maria, la vergine santa, ha davvero vissuto la gioia di essere amata dal suo marito fino alla follia e Giuseppe aveva la moglie che lo amava più di tutti. Forse per questo Gesù così facilmente si trovò nel tempio del Padre in mezzo ai maestri della Legge. Da bambino risiedeva nella famiglia dove l’amore del Padre risplendeva nell’amore dei genitori e la saggezza della Legge si manifestava nelle cose quotidiane. Così facilmente lasciò anche la casa del suo Padre, scese con Maria e Giuseppe a Nàzareth e stava loro sottomesso. Come se non vedesse la differenza fra amore di Dio e l’amore dei suoi genitori. Si, il matrimonio rende l’uomo simile a Dio.

Fratelli e sorelle, permettetemi di finire omelia con le parole più personale. Io sono prete e celibatario, perciò anche se direi che so, che la vita coniugale non è facile, non sarei convincente. I mariti e le moglie conoscono molto meglio tutte le difficoltà della loro vita che i sacerdoti. Mi sembra quindi che non posso condividere la vostra fatica di dare senza misura la vita al coniuge. Ma voglio, e questo posso, condividere la mia speranza che ogni matrimonio può far entrare i sposi nella pienezza dell’amore di Dio e in questo modo ne essere la rivelazione per tutti. E perché non ci sono in mondo tante cose più belle di marito e moglie che si amano, che vanno d’accordo e uno vive per l’altro, questa speranza che ogni matrimonio può essere santo si cambia in grande desiderio, e non soltanto mio, che ci siano tantissimi santi sposi e sante spose. Preghiamo quindi oggi Dio, insieme a Maria e Giuseppe per tutti i sposi, che dia loro la pienezza dell’amore, renda in questo modo sante le loro famiglie e tutta la famiglia umana diviene più simile al suo Creatore e Padre. Amen. 

 

Natale 2009 - Messa Vespertina - fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

     Ricordate bene le parole di San Paolo che dicono che “il giorno del Signore verrà come un ladro di notte”, che colpirà d’improvviso, “come le doglie una donna incinta”. Nessuno dovrebbe quindi essere sorpreso che siamo arrivati a Natale. Due ore fa era Avvento e tutti aspettavamo il Signore, ma adesso è già Natale e celebriamo la sua presenza tra noi. Quando è venuto, e come? Chi lo sa…? Davvero, il Signore viene come un ladro di notte.

     Lui fa sempre così. Venendo non fa rumore, non si lascia vedere, né trovare facilmente. Scopriamo che è arrivato non sentendolo bussare alla porta, ma trovandolo già presente fra noi. Alla sua vista ci viene da chiedere: “ma come hai fatto entrare?”.

     Forse per questo la Chiesa apre la celebrazione del Natale ricordandoci Giuseppe. È ovvio che il giorno del Signore è arrivato per lui come un ladro di notte e l’ha colpito dolorosamente. Quest’uomo giusto si sarebbe aspettato tutto tranne che trovare la sua sposa incinta… per opera dello Spirito Santo, naturalmente, ma non si può dimenticare che lo Spirito è impercettibile come il vento. Anche sentendone la voce, cioè vedendo la sua santissima, purissima Sposa portare in seno un bambino non suo, Giuseppe non poteva sapere da dove questo Spirito venisse né dove andasse. Si è trovato di colpo in pieno giorno del Signore, faccia a faccia con l’opera dello Spirito di Dio, e ne è rimasto sconvolto come trovando un ladro in casa. Le icone ortodosse prolungano questo stupore di Giuseppe, che accompagnava la sua scoperta del concepimento di Cristo, mostrandolo anche il giorno di Natale assorto in meditazioni. Maria contempla suo Figlio vedendo già il mistero pasquale, gli angeli annunciano la venuta del Salvatore al mondo intero, i pastori e i re magi si affrettano a Betlemme e Giuseppe medita il mistero che sovrasta tutto: “ma com’è possibile… ecco la vergine ha concepito e ha dato alla luce un figlio… come mai… Emanuele… Dio con noi…”

     Fratelli e sorelle, anche se celebriamo il Natale pieni di stupore, che la presenza del Signore fra noi e in noi non ci stupisca troppo, perché sappiamo bene che Lui viene a porte chiuse. Se la Vergine è divenuta Madre, se Giuseppe senza conoscere la sua Sposa è divenuto padre del figlio di lei e gli ha dato il nome, anche noi, peccatori, possiamo diventare concittadini dei santi e familiari di Dio. Gloria a Dio e sulla terra pace agli uomini, che egli ama. Amen.

 

Natale 2009 - Messa del giorno - fr. David FMJ

 

     Il predicatore, oggi, non ha un compito facile. Si chiede con un po’ d’inquietudine che cosa occorre dire all’assemblea. Perché quest’imbarazzo? Perché la solennità di Natale è, in un certo senso, vittima del suo successo. È la festa religiosa più popolare. Ma questa popolarità ha aspetti diversi alcuni dei quali fanno schermo al mistero che celebriamo. Ovviamente, c’è il lato positivo di questo successo: è la fede del popolo cristiano che si esprime, e quest’unanimità è stata sempre considerata una delle espressioni dell’autorità soprannaturale della Chiesa.

   Ma ci sono anche aspetti che suscitano la vigilanza del predicatore. È ovvio che il successo popolare della festa di Natale comprende aspetti commerciali. Ci sono anche aspetti sentimentali: il Natale è, in un certo senso la festa della famiglia, anche se di solito è prevista un'altra festa, quella appunto della Santa Famiglia. Non si può dire che gli aspetti commerciali e sentimentali siano negativi. Se le chiese sono piene di gente il giorno di Natale, è in parte perché i negozi, le decorazioni stradali, il folclore, le tradizioni familiari ricordano a tutti che questo giorno è santo. Ma questi aspetti commerciali, folcloristici e sentimentali si allontanano dalla loro origine e tendono a divenire autonomi rispetto al mistero celebrato. Sempre più spesso le pubblicità commerciali e i biglietti natalizi ci augurano "buone feste" senza riferimento alla natività di Gesù. Le tradizioni folcloristiche e familiari danno a volte l’impressione che si dimentichi la trascendenza del mistero.

     Ovviamente, il predicatore non vuole, a nome di un arido perfezionismo, sottovalutare i canti, i presepi, i pranzi, i festeggiamenti familiari. Tuttavia è chiaro che si tratta qui di aspetti secondari. In un’epoca in cui la fede cristiana non è più così ovvia, e anzi a volte in minoranza in alcuni paesi di cultura cattolica, mi sembra che bisogna risolutamente mettere di nuovo in risalto l’essenziale, se vogliamo evitare che la festa di Natale non sia soffocata dagli aspetti secondari del suo successo popolare.

     Qualche anno fa, in un liceo francese, un alunno ha pubblicamente interpellato un prete famosissimo chiedendogli: "perché voi, preti, mescolate la religione con il Natale?". In alcune scuole elementari italiane, si propone una festa sostitutiva, la festa dell’inverno.

     Se vogliamo che il Natale abbia ancora senso per le generazioni future, è necessario lasciare un po’ da parte il folclore per bere di nuovo alla sorgente viva e forte della fede, per bere di nuovo alla sorgente viva e forte della trascendenza. Il vangelo che abbiamo ascoltato ci introduce direttamente alla trascendenza del mistero: il Verbo si è fatto carne, il mondo è stato fatto per mezzo di lui, era presso Dio ed era Dio, ed è venuto ad abitare in mezzo a noi.

     Fratelli e sorelle, tali affermazioni devono provocare in noi un timore santo. Dio è venuto là dove non era aspettato. Certo, i profeti hanno annunciato che Dio avrebbe stupito tutta la creazione. Sono i testimoni di un’attesa immensa, presente ieri e ancora viva oggi nel cuore di tutta l’umanità. Ma quest’attesa è in parte cieca fino al momento della fede in Cristo. Che Dio sia divenuto uno di noi senza smettere di essere Dio, che il Verbo sia disceso senza lasciare il seno del Padre, che la terra abbia prodotto il Cristo con l’azione dello Spirito Santo, che Dio sia Trinità e che abbia deciso di abbracciare la storia umana, questo non era previsto dall’uomo, questo non si conosceva.

     Ecco perché san Paolo dichiara, nella lettera ai Colossesi: "il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato, è il Cristo in voi, speranza della gloria".

     Fratelli e sorelle, Dio non ha voluto essere il Dio dell’ordine perché ci ama. Questo dovrebbe essere il posto di Dio, il cielo. Eppure è venuto quaggiù. Il posto di Dio è la sovranità assoluta, la gloria, l’immortalità. Ma Dio si è fatto uno di noi e ha conosciuto l’umiltà della nostra condizione mortale. È venuto fin qui. E possiamo toccare le nostre ossa, i nostri muscoli, possiamo sentire il cuore batterci nel petto, possiamo essere sollevati dalla gioia o schiacciati dall’angoscia, e dirci tutte le volte che Dio non è più estraneo a tutto questo. È venuto fino a noi, a guardarci intensamente con lo sguardo di Gesù Cristo.

    E dobbiamo, fratelli e sorelle, dobbiamo scegliere se piegare o no il ginocchio davanti a un Dio così vicino, così poco filosofico, così tra virgolette "poco corretto", un Dio che non è saggiamente rimasto nel suo cielo. In Gesù Cristo, Dio è qua che si presenta dinanzi a noi. Dobbiamo scegliere di adorare, fratelli e sorelle, sapendo bene che, ormai, non saremo più tranquilli, che non saremo più soltanto le creature di un Dio lontano, ma che dovremo d’ora in poi vivere con lui, vivere come lui, vivere di lui. Questa è una gioia immensa, anzi, è l’unica vera gioia perché è l’unica capace di vincere la morte, è una gioia forte e viva, che non vuole soltanto commuovere i nostri cuori ma trasformarli.

 

 Natale 2009 - Messa dell'Aurora - fr. Marek FMJ

 

     Se un grande impressionista francese, Claude Monet ha dipinto più volte la stessa veduta della cattedrale di Notre Dame a Parigi, perché a suo parere, la luce del sole cambia l’incomparabile bellezza dell’edificio secondo l’ora del giorno, è ancor più chiaro che la Chiesa voglia celebrare e contemplare il mistero del Natale a ore diverse. Il divino lattante nelle braccia della Madre è bello in modo diverso la sera, a mezzanotte, all’alba e in pieno giorno. A quest’ora possiamo scoprire la bellezza di Cristo, eterno sole che non conosce tramonto, nello stesso momento in cui il nostro vecchio sole sorge, sapendo bene che è venuta la sua ora. Questo bambino, infatti, agnello di Dio, eclisserà il sole, lo sostituirà e renderà inutile, o meglio: gli permetterà di terminare il suo corso, di godersi, alla fine, il riposo e di entrare con tutto il creato nel Sabato di Dio, nel riposo eterno. Anche noi, contemplando Cristo, nato stanotte, coi primi raggi del sole, possiamo scoprire quest’aspetto del Natale, l’invito al riposo rivolto da Dio all’uomo.

     l mattino è un momento molto significativo della giornata. È come una nuova creazione del mondo e dell’uomo che abbandona la notte della morte e dell’inesistenza per entrare nella luce e nella vita. E tutti sappiamo che è un momento molto difficile per l’uomo. Svegliarsi e alzarsi, qualche volta esige da noi una forza eroica, soprattutto quando la notte è stata breve come quella di oggi. Ovviamente le difficoltà mattutine hanno un significato naturale, perché sono semplicemente il risultato della stanchezza, ma mi sembra che ci sia in esse anche un senso più profondo. L’uomo conosce bene il peso della vita ed è faticoso ricominciarla dopo il dolce sonno.

     Ma il mattino di Natale è speciale, perché come il sole vede per la prima volta il Sole vero e la luce vera, così l’uomo vede per la prima volta la vita. Sì, questo bambino, adagiato nella mangiatoia, è la nostra vita. Pensavamo di conoscerla bene, tanto bene da esserne appesantiti, forse anche da detestarla. Ma non è così, la nostra vita è appena cominciata, non ha che qualche ora. Dio ha mirabilmente creato Adamo di nuovo, l’ha rigenerato e rinnovato. La nostra vita vecchia e così pesante sta per passare alla storia. Quest’agnello che eclissa il sole, toglie anche il peccato del mondo, mette fine alla penitenza di Eva e fa entrare Adamo nel riposo di Dio.

     Fratelli e sorelle, è davvero buono e giusto vivere stamani un risveglio diverso vedendo Cristo, nostra vita nuova, perché questo cambia tutto. Custodiamo dunque bene tutte queste cose e meditiamole nel cuore, per aver sempre davanti agli occhi l’immagine del bambino Gesù. Sicuramente la sua dolcezza e bellezza ci permetteranno un giorno di svegliarci e alzarci senza difficoltà e con gioia. Gloria a Dio e pace agli uomini che egli ama. Amen.

 

Domenica 20 dicembre 2009 - IV Domenica di Avvento - fr. Massimo-Maria FMJ

 

Continuando il nostro cammino di Avvento verso il grande mistero del Natale che oramai è alle porte, riceviamo il testo del Vangelo di Luca.

    Maria nel suo mettersi in viaggio di fretta, custodendo con meraviglia il sublime e tremendo segreto dell’annuncio appena ricevuto dall’angelo, diviene così nostra compagna di viaggio in modo tutto particolare.

  Ma anche la cugina Elisabetta con la sua docilità allo Spirito Santo, attraverso le  parole che rivolge alla Madre del suo e nostro Signore, sostiene e rallegra i nostri passi di questo ultimo tratto dell’Avvento.

   Benedizione e beatitudine sono le parole di Elisabetta per Maria, sulle montagne di Ain-karim.

Nella sua Benedizione che Elisabetta, in continuità con tutto l’Antico Testamento, pronuncia per la Madre ed il Figlio: “ Benedetta sei tu tra le donne e benedetto il frutto del tuo seno”, possiamo senza dubbio cogliere una parola di grande speranza e di intensa luce. E’ vero che la disobbedienza dell’uomo aveva oscurato il progetto di Dio e sciupato violentemente l’opera buona, anzi molto buona, delle sue mani forti e potenti. Tuttavia la benedizione di Dio non si è arrestata neppure davanti al dramma del peccato. Dio ha continuato ostinatamente a benedire, a pronunciare una parola di benedizione sull’umanità, a fare con l’uomo una storia di benedizione. Così è benedetto Abramo nella sua discendenza, sono benedetti i patriarchi e i profeti, sono benedette le Madri e le eroine della storia della salvezza. E benedetta è ora Maria che porta il segno più alto e certo della divina benedizione la vita del Figlio di Dio, colui che è la Vita dell’uomo, di ogni uomo.

   Maria oggi accompagnandoci al Natale, attraverso le parole della cugina, si presenta come testimone credibile che Dio non cessa di benedire, noi, la storia, la nostra storia. Dio, fratelli e sorelle, ancora oggi fa una storia di benedizione. Non solo nel cammino verso il Natale non dobbiamo mai dimenticare questo, ma costantemente, nel cammino di questa  vita verso il Regno, non dobbiamo assolutamente scordarlo. Dio non cessa di benedire, Dio non si arresta dal fare una storia di benedizione con l’umanità.

 

   Parola di benedizione quella di Elisabetta, ma ancora parola di beatitudine: “ Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.

   Fratelli e sorelle in Maria la benedizione di Dio, il dono di Dio, la Parola da Dio pronunciata hanno trovato la risposta più adeguata: la fede. “ Ha creduto” Semplicemente, docilmente, solamente si è consegnata alla Parola ricevuta. Ed ecco che oggi in questa fede incondizionata di Maria, nel suo credere audace e determinato, lei ci accompagna al Natale offrendoci come esempio il su “ SI “.

   Dio ha potuto continuare a benedire, Dio è entrato nella storia, rendendola storia santa, storia benedetta, grazie al sì della fede di Maria. Se il testo del Vangelo di Luca è pervaso da una gioia sottile e profonda, segno inconfondibile dell’opera di Dio “ Maria corre, Elisabetta benedice, Giovanni esulta nel grembo della madre”, è perché una creatura ha detto sì, Maria ha creduto, la Vergine Madre si è fidata, di più si è affidata.

   Ecco quindi che se la benedizione che Elisabetta rivolge a Maria è per noi oggi parola di speranza, la fede di Maria è per noi oggi indicazione chiara di che cosa Dio si attende da noi.

   Maria oggi si fa compagna di cammino verso il Natale ricordandoci che il dono di Dio và accolto con fede, con disponibilità, con grande apertura del cuore, dicendo generosamente e gioiosamente un Sì.

   Fratelli e sorelle ad ognuno di noi è chiesto  di individuare, nel silenzio del cuore, qual è il sì che in questo Natale il Signore attende. Qual è il sì che nella fede a noi il Signore chiede per Natale. A quale Parola – meglio –è chiesto di credere per gustare la beatitudine della fede.

   Un sì che certo non si improvvisa, ma si prepara in una abitudine costante all’ascolto, alla preghiera, all’umiltà, l decentramento da sé stessi. Proprio come ha fatto Maria.

   Un sì che non si improvvisa, un credere che passa attraverso la prova. Un sì  necessario perché la benedizione di Dio divenga efficace nella storia nostra della Chiesa, dell’umanità di oggi. Un sì necessario perché la gioia di Dio semplice e profonda continui a rallegrarci il cuore, e a riportare speranza e pace nel cuore di tanti nostri fratelli.

 

   O Maria Benedetta tra le donne e Beata perché hai creduto,

ottienici dal Tuo Figlio che viene,

la tua stessa audacia nel credere,

la generosità del tuo sì,

perché questo Natale

sia ancora per noi e per tutti

Benedizione.

Amen

 

 giovedi 17 dicembre 2009 -  III° settimana d'Avvento - fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

Sicuramente gli Ebrei ai quali Matteo ha rivolto il suo Vangelo, leggevano la genealogia di Gesù in modo diverso da noi. Ciò che per noi può essere un elenco di nomi di poca importanza è, infatti, la prova che Gesù, chiamato per cattiveria “rabbi di Nazareth” o semplicemente “il Nazareno”, era figlio di Davide. I suoi avversari mettevano l’accento sul luogo dove abitava con i genitori, sapendo bene che tutti erano convinti che niente di buono potesse venire da Nazareth (Gv 1,46). Matteo mostra dunque i padri di Gesù per mettere in luce la sua, per tanti poco attendibile, appartenenza alla famiglia regale: Gesù è figlio del re Davide.

Per noi, credo, queste divagazioni su chi generò chi non sono così appassionanti, ma questo non significa che la lettura della genealogia di Gesù non ci serva a niente. Al contrario, questa lunga lista di nomi può insegnarci tante cose. Oggi ne scegliamo una: ogni persona umana, anche la più insignificante e invisibile, è meravigliosamente necessaria al progetto di Dio.

Se ci immaginiamo l’umanità come un grande albero e l’individuo come una foglia fra tante altre, è difficile credere che ogni persona sia importante. Ma la genealogia lega i nomi in una catena, non in un albero. È dunque chiaro che la mancanza di un anello rende la catena inutile, la spezza e la distrugge. È davvero impressionante leggere questi quarantadue nomi degli antenati del Salvatore, nomi che, infatti, non ci dicono quasi niente della persona, nomi che sono totalmente dimenticati e senza significato per la storia del mondo, sapendo che Dio vuole che queste persone, casuali per tutti, per Lui siano necessarie per dare la vita al Figlio di Dio. Da loro, infatti, esce Gesù, Dio fatto uomo.

È difficile capire come sia possibile, possiamo quindi soltanto contemplare e ammirare, che questa Sapienza, della quale la Chiesa canta che esce dalla bocca dell’Altissimo, esca anche dai lombi di Abramo, appaia nel mondo come un anello della successione di generazioni umane, nasca da una donna. Il mondo, in modo particolare la catena degli antenati di Gesù, e ancor più meravigliosamente la Vergine Maria, sono la bocca dell’Altissimo. Qui, e mi sembra soltanto qui, è il valore infinito dell’uomo, piccola e debole creatura scelta per essere l’immagine del suo Creatore, per divenire uno con Lui.

 Fratelli e sorelle, il semplice elenco dei nomi che alla grande storia del mondo non dicono niente ci svela anche il nostro mistero: ciascuno di noi è accidentale, potrebbe non esistere, morirà senza che il mondo se ne renda conto, però è voluto da Dio e per questo è necessario. Accettiamo dunque umilmente il progetto di Dio e diventiamo ciò che siamo: un anello che trova il senso della sua esistenza semplicemente facendo parte della catena, unendosi agli altri nell’amore per esprimere la Sapienza di Dio, per far parlare la bocca dell’Altissimo, per fare risuonare nel mondo la Parola di Dio, per rendere creato l’amore increato ed eterno.

 

Domenica 13 dicembre 2009 - III Domenica di Avvento - fr. Alessio-Maria - FAJ Pistoia

         C’è una caratteristica che accompagna il cristiano e lo distingue dal mondo odierno dominato dalla solitudine e dall’egoismo: la gioia! La Gioia[1]è prima di tutto sapersi chiamati alla vita, essere interpellati da qualcuno che con voce soave parla al tuo/nostro cuore, quel cuore che non aspetta altro l’amore veniente e provocante; sì fratelli e sorelle il cristiano è il chiamato, qualcuno prima di lui, accanto a lui, dentro di lui mormora “vieni a me”, è per questo che Sofonia grida: “ non temere, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore tuo Dio è un Salvatore potente!”.

         Il Cristiano è l’uomo della vita nuova, vive nel mondo ma non è del mondo, ma sa che nel mondo è sorretto, abitato dal suo go’el, il suo salvatore e redentore . Noi/tu conti/amo talmente tanto per Dio a tal punto che Egli si è fato il nostro go’el, il nostro/tuo ricattatore eliminando da noi la condanna della morte aprendo le porte della regali della vita.

         La liturgia orientale riprende attraverso atti simbolici il procedere dell’uomo verso Dio e di Dio verso l’uomo attraverso le porte regali dell’Anastasis; qui il sacerdote ad imago Cristi esce ed entra dal luogo ad imago coeli, luogo teofanico, simbolo del tempio celeste, esce per portare i doni della divina liturgia, entra per il popolo per offrire il santo Sacrificio. L’immagine del sacerdote che esce ed entra dall’Anastasis è una “simbolica”,  una catechesi visiva di quello che noi celebriamo in modo accentuato nel tempo di avvento, Cristo è uscito dal tempio celeste per farsi uomo, ritornato al Padre esce oggi in spirito e si fa carne nell’Eucarestia, ritornerà alla fine dei tempi quando, a dirla con l’apostolo Pietro, gli elementi celesti si incendieranno. Ma tra la prima e l’ultima venuta c’è una venuta intermedia, quella tutta particolare  e misteriosa di Cristo nell’Eucarestia e nei fratelli. Viene a noi nell’Eucarestia, nella sua presenza reale che si può dire presenza nella potenza dell’umiltà, e nei fratelli e sorelle che ci camminano accanto, presenza anche’essa nella potenza della debolezza umana.  Eucarestia e fratelli, Cristo e chiesa, capo e membra, costituiscono un unico grande mistero conoscibile solo attraverso l’intuizione dell’Amore  provocato in noi dallo Spirito Santo. Non c’è vera attesa di Cristo se non c’è attesa/nzione per i fratelli, non c’è vera adorazione eucaristica  se non c’è apertura, comprensione per i fratelli e le sorelle che ci stanno accanto. Il Signore viene, fratelli e sorelle, e nasce nel nostro cuore se noi lo lasciamo entrare  nella sua duplice e reale presenza nell’Eucarestia e nei fratelli.

        Adesso il vangelo di questa domenica entra in scena provocandoci ancora di più, ha il compito di rimettere in discussione quelle false sicurezze che ci siamo creati  per rimuoverle e andare incontro a Cristo che viene  e per dirla con Solovio’v avere con lui un sacro scambio. C’è una domanda in questo vangelo, una domanda sulla quale San Luca desidera  farci porre attenzione, una domanda che risuona tre volte tanto è importante : che cosa dobbiamo fare? 

        Noi cristiani d’oggi in questo tempo d’avvento che corre incontro al Signore veniente cosa dobbiamo fare? Noi fratelli e sorelle di Gerusalemme, cosa dobbiamo fare?  E’ una domanda lecita, obbligata, che smuove la polvere di una vita ripetitiva  che toglie la patina e la coltre delle illusioni dai nostri occhi. Che cosa dobbiamo fare? C’è lo dice Giovanni:

a) chi ha due tuniche ne dia…

b) non esigete niente di più…

c) non maltrattate ….

       Si potrebbe parafrasare sempre con una parola del vangelo, amate il prossimo come voi stessi! E per noi religiosi? Dobbiamo chiedere di amare le persone accanto a noi! Non basta portare un abito religioso, seguire più o meno una regola o partecipare a molte liturgie se nel profondo del mio essere non accolgo mio fratello/sorella come parte di me stesso/a  senza il quale la mia vita non sarebbe la stessa.  Ecco cosa dobbiamo fare in questo avvento, in ogni avvento della vita (tutti i giorni) amare Cristo presente nei fratelli e nell’Eucarestia.

        Diceva Voltaire esaminando la vita religiosa del suo tempo: Entrano in convento e  non si conoscano, vivano come se fossero tra di loro estranei, muoiono e nessuno sa piangersi a vicenda, nessuno gioisce delle gioie degli altri e poi mi dicono che devo credere!

       Voltaire pone una  critica serrata al cristianesimo, è il mondo laicista; anche attraverso questo Cristo parla, parla in ogni uomo credente o meno  e ci richiama ad essere perfetti nell’amore. Facciamo un sano proposito quello di dare spazio nella mia vita al mio fratello, e sarà un vero Natale; così Cristo Signore ci darà ciò di cui abbiamo bisogno, ci battezzerà in Spirito Santo e Fuoco.

Sia lodato Gesù Cristo.                                       

 

[1] Gioia è con la G maiuscola perché ovviamente è quella che viene da Dio.

 

 venerdì 11 dicembre 2009 - II° settimana di Avvento - fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

Nella preparazione all’incontro col Signore la Chiesa ci ricorda oggi l’importanza dell’obbedienza dell’uomo alla sapienza di Dio, perché senza la disponibilità all’abbandono delle nostre idee non potremmo accogliere ciò che Dio ha preparato fin dalla fondazione del mondo. Il pericolo che nel giorno della venuta del Signore gireremo sui tacchi e rifiuteremo il gioco proposto da Dio è reale, perciò dobbiamo metterci bene nel cuore che anche noi siamo ‘questa generazione’ della quale parla Gesù, fanciulli imbronciati e musoni.

Se siamo peccatori – e questo è evidente – siamo ribelli a Dio. La nostra ribellione non sempre si manifesta mostrando i pugni al cielo. Di solito è molto più sottile e pacata, consiste nel rifiutare la volontà di Dio. Dio è creatore del cielo e della terra, nella sua onnipotente provvidenza governa l’universo. Se qualcosa di ciò che è, di ciò che succede non mi piace, non è la prova chiarissima della mia ribellione? La caparbietà con la quale resistiamo alla volontà di Dio si manifesta ogni volta che nel nostro cuore, invece del ringraziamento al Creatore, nasce un pensiero, una parola di lamento amaro o di scontentezza.

Agli Ebrei non piaceva Giovanni, perché non mangiava e non beveva, a loro parere il profeta non avrebbe dovuto essere così austero. Non piaceva neanche il Figlio dell’uomo perché mangiava e beveva. Le loro giustificazioni, cioè i motivi della loro ribellione sembravano giustissime: il primo è indemoniato, il secondo invece un mangione, un beone, un amico di pubblicani e peccatori. Ma è ovvio che questa spiegazione è sbagliata e nessuno le presta fede. In più, cercare il motivo della rivolta contro Dio non ha senso e tutti lo sappiamo molto bene. Perché non è la rivolta che ha inizio dentro di noi, ma siamo noi ad avere inizio da lei, siamo nati in essa, nel peccato mi ha concepito mia madre (Sal 51,7). Pur essendo il motivo di tante nostre azioni, la ribellione contro Dio ci sembra dunque totalmente irrazionale ma prepotente, esattamente come l’infantile rifiuto del gioco: non voglio, non voglio e basta.

Il paragone che Gesù utilizza per descrivere la sua – e la nostra – generazione mostra l’uomo come un bambino imbronciato, perciò sembra mettere in ridicolo in qualche modo la nostra rivolta… Ma la frase conclusiva che parla della sapienza, della giustizia, dell’opera e del suo compimento non ci lascia credere che la cosa sia poco seria. La rivolta, anche se ai nostri occhi è piccolissima, ci priva di tutte queste cose: l’opera della sapienza e della giustizia non si può compiere in noi. Lo scopo della vita cristiana è dunque questo: sottomettersi perfettamente alla volontà di Dio, accettare con infinita fiducia tutto ciò che Lui ha preparato.

Fratelli e sorelle, aspettando la venuta del Signore, dobbiamo prepararci a giocare secondo le sue regole: suona il flauto, balliamo; canta un lamento, battiamoci il petto; verrà  come un bambino, cerchiamo di diventare bambini anche noi, attraverserà la morte per entrare nella vita, seguiamolo, anche se avremmo voglia di ‘giocare’ in un altro modo… L’obbedienza a Dio ci salva. Amen.

 

Domenica 6 dicembre 2009 - II Domenica d'Avvento - fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

Passo dopo passo la liturgia della Chiesa ci fa entrare nel terribile e gioioso mistero della venuta del Signore. I sacramenti che celebriamo e le parole che ci sono annunciate creano nella nostra vita una vita nuova, introducono nel nostro mondo quotidiano un mondo nuovo. È vero che siamo in dicembre, finalmente è bel tempo, è cominciato l’inverno, il mondo ha i suoi grandi e piccoli problemi e ognuno di noi sta vivendo un momento preciso della sua storia. Ma siamo anche – o soprattutto – nella seconda domenica di Avvento. Nella corona dell’Avvento sono accese già due candele e Giovanni, figlio di Zaccaria, sta predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Se celebriamo la liturgia della Chiesa, la predicazione del Battista non è per noi soltanto un evento del passato, ma questa storia ritorna a noi meravigliosamente e diviene davvero il presente. È ora che la parola di Dio viene su Giovanni, è ora che lui percorre tutta la regione del Giordano e grida nel deserto annunciando che la venuta del Signore è vicina. E poiché nella nostra ricerca del Signore non si può saltare nessun passo, oggi con tutta la Chiesa corriamo incontro al Precursore.

Non sentiamo ancora le sue parole, la voce di uno che grida nel deserto tace, non è ancora venuto il tempo di meditare il suo insegnamento. Oggi lo vediamo soltanto, contempliamo la sua figura. Non vogliamo quindi sapere che cosa ha da dirci, che cosa vuole da noi, perché è venuto, ma semplicemente chi è Giovanni il Battista.

San Luca non ci descrive Giovanni nel modo pittoresco di Matteo e Marco. Non ci mostra un asceta che porta un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi, che mangia soltanto cavallette e miele selvatico. Ma parlando del Battista, va immediatamente all’essenziale dicendo che la parola di Dio venne su Giovanni nel deserto. E davvero stupendo che la discesa della Parola su Giovanni, che ci può sembrare qualche cosa molto personale, interna e segreta, nel racconto di Luca è un evento storico. Tiberio Cesare ha ottenuto il potere su l’Impero Romano, Ponzio Pilato il governo della Giudea, Anna e Caifa il sacerdozio, Giovanni, invece, ha ricevuto la Parola di Dio. Il Battista, il Precursore del Verbo incarnato, è dunque formato e definito da quest’incontro con la Parola e diviene nei nostri occhi soprattutto frutto della discesa su di lui della Parola di Dio. E proprio per questo Giovanni è divenuto la voce e il predicatore del battesimo, perché la parola di Dio lo ha posseduto. La parola, manifestandosi, crea sempre la voce: parla, comunica, grida. Giovanni il Battista non è che la voce.

Fratelli e sorelle, non c’è vocazione più alta e più nobile di questa. Per l’uomo, essere la voce che diffonde la Parola di Dio significa realizzare pienamente la sua natura. Siamo, infatti, creati per esprimere Dio davanti a tutto il creato, e non possiamo raggiungere il nostro scopo, la nostra pienezza finché Dio non sia divenuto la nostra Parola e noi la sua voce. Incontrando oggi Giovanni il Battista, contempliamo quindi l’uomo completo e davvero santo che nella Chiesa occupa il secondo posto dopo l’Immacolata Vergine Maria e che dal Salvatore fu chiamato il più grande fra i nati da donna. Quest’incontro, incontro con la voce della Parola diviene per noi una chiamata, anche se la voce ancora tace e il Battista non dice una parola. Si può dire che vediamo la voce, la voce vivente, l’uomo santo che sta davanti a noi e la sua presenza ci chiama al battesimo di conversione.

Davvero l’incontro con Giovanni il Battista è per noi battesimo, immersione nella verità, nella volontà del Signore che ha creato l’uomo come portatore di Dio: figlio del Padre, voce della Parola, tempio dello Spirito. Contemplando il Precursore, l’uomo perfetto, la voce della Parola, noi ci vediamo come allo specchio e non è possibile che il nostro cuore non sia mosso, spinto alla conversione. Anche noi, infatti, siamo uomini come lui. Essere la voce, la manifestazione della Parola è anche la nostra vocazione. Ecco come Giovanni il Battista, nato dall’accoglienza della Parola di Dio che venne su di lui, prepara le vie del Signore, abbassa le colline, spiana le vie impervie e annuncia il giorno sognato in cui ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!

Fratelli e sorelle, il nostro cammino di Avvento oggi ci fa incontrare il Precursore del Signore non soltanto per la nostra personale santificazione, ma anche per la salvezza del mondo. Cristo che è la Parola di Dio non viene nel mondo senza una voce e un Elia precede sempre il giorno del Signore. Se desideriamo che il mondo intero trovi la salvezza nell’ascolto e nell’obbedienza alla Parola di Dio, stiamo pronti a diventare anche noi, a nostra volta, i precursori e le voci che battezzeranno il mondo immergendolo nel mistero dell’unione fra Dio e l’uomo. Basta accogliere la Parola di Dio, come Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto. Facendolo, possiamo essere persuasi che colui che ha iniziato in noi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù. Amen.

 

mercoledi 2 dicembre 2009 - I settimana d'Avvento - fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

Gesù è venuto sulla terra per dare testimonianza alla verità e non per nutrire le folle col pane. Leggere il miracolo della moltiplicazione dei pani, come gesto di altruismo e di generosità da parte di Cristo è sicuramente troppo poco, anche se nessuno è così generoso come nostro Signore. Tutta la vita di Gesù è testimonianza alla verità, è una parabola che ci parla di Dio e dell’uomo, però, i miracoli che compie sono i segni per eccellenza, mostrano la verità con un’evidenza impressionante.

È significativo che Gesù moltiplichi i pani, quando la folla è in festa per le guarigioni appena compiute. I muti parlano, gli zoppi camminano, i ciechi vedono e tutti lodano il Dio d’Israele. L’opera della salvezza sembra compiuta, Dio ha visitato il suo popolo. Ma Gesù sente compassione per questa folla che fa festa, come quella volta in cui l’aveva vista stanca e sfinita come pecore senza pastore (Mt 9,36): ‘ormai da tre giorni stanno con me e non hanno da mangiare’. Soltanto Gesù si accorge del problema, tutti i presenti sono sazi per via delle guarigioni.

La preoccupazione di Gesù riguardo al cibo non solo tradisce la sensibilità di nostro Signore e la sua attenzione ai bisogni umani, ma dà anche testimonianza alla verità. All’uomo non basta ciò che desidera: la guarigione del corpo e dell’anima, una vita giusta e santa, la pace e il benessere per tutti… Solo Dio basta all’uomo, Dio che supera tutti i desideri umani. Per questo Gesù sente compassione per la folla guarita e felice, che sembra non mancare di nulla. Gesù sa, che Dio è il cibo che crea l’uomo dall’interno e che senza di Lui l’uomo viene meno, sta morendo, anche se così lentamente e impercettibilmente da sembrare vivo e sano. Dio è il pane dell’uomo, la sua forza interiore, intima… La sua vita! La venuta di Cristo per darci Dio, è la ragione per cui moltiplica i pani, sazia tutti, poi sale sulla barca e se ne va: ora la sua opera è compiuta. La folla ha ricevuto il cibo.

Fratelli e sorelle, preparandoci alla venuta di Cristo dobbiamo cercare di capire sempre meglio chi è che viene e qual è il motivo della sua venuta. È giusto invocare la sua presenza con fervore, perché abbiamo tante necessità che soltanto lui può soddisfare, ma vedendo Cristo benedire e spezzare il pane, ricordiamoci che la nostra necessità più importante, anzi l’unica che conta, è la fame di Dio. Cristo Gesù viene per saziarci. Maranatha! Amen.

 

Domenica 29 novembre 2009 - I Domenica d'Avvento - fr. David FMJ

Lc. 21, 25-28.34-36

La preparazione al Natale inizia oggi. È il giorno della partenza, della messa in moto, quindi delle raccomandazioni e degli avvertimenti. "Vegliate in ogni momento pregando", ci dice il Vangelo. Ecco una parola d’ordine molto solenne che possiamo prendere come indicazione per coltivare in noi quei giusti sentimenti che devono abitare i cuori cristiani nel tempo di Natale. E come succede spesso in questi casi, l’avvertimento ci prende un po’ di sorpresa. Eccoci costretti a fare uno sforzo per vedere le cose in modo diverso da quello abituale. Ripetiamolo ancora una volta. Si apre oggi il tempo liturgico che ci allena all’attesa del bambino Gesù. Ma eccolo inaugurato con degli imperativi che evocano più delle misure di urgenza e di salvataggio che i preparativi di una festa: "Vegliate in ogni momento pregando perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo". Questi sono gli ordini che riceviamo, e il loro carattere solenne ci vuole impedire di plasmarci un cuore troppo tenero in vista del Natale. Non si tratterà, quel giorno, di meravigliarsi solo sentimentalmente davanti al bambino nel presepio. Se fosse soltanto così, sarebbe troppo facile e sdolcinato. Oggi, la liturgia ci fa sentire con chiarezza che c’è urgenza, pericolo, e che dobbiamo prepararci per un evento decisivo che non risparmierà nessuno, assolutamente nessuno.

Allora, che assetto vogliamo dare alla nostra anima per prepararci a questa festa di Natale? Il Vangelo ci ha risposto. Dobbiamo vegliare e pregare. Cosa vuol dire ? Chiediamolo ancora al Vangelo. Ci ha parlato del secondo avvento di Cristo, quando verrà a giudicare i vivi e i morti. Quanto a noi, ci prepariamo a celebrare il suo primo avvento, quando è venuto nella carne per salvarci. La liturgia sovrappone, potremmo dire, i due avventi che, pure, sono diversi. La Natività di Cristo inaugura la pienezza dei tempi, il suo ritorno glorioso, invece, ci farà entrare nella fine della storia. Ma i due avventi hanno anche dei punti in comune. L’uno e l’altro infatti ci invitano alla vigilanza attenta. La

Natività di Cristo, infatti, è sfuggita ai più. Pochissime persone se ne sono accorte. Fu un evento molto discreto, poco conosciuto, nascosto. Il Vangelo di oggi ci mette in guardia contro questo disinteresse. Il ritorno glorioso di Cristo rischia di coglierci all’improvviso, di sorprenderci, di trovarci impreparati. Vegliare, questo significa non lasciarsi distrarre e vivere in una ricettività resa viva dall’attesa. La fede ci rende sensibili alla novità di Dio.

C’è forse ancora un punto comune da rilevare, ma meno evidente. Ed è questo. La natività di Cristo è stata l’avvento di colui che la Scrittura chiama il più bello tra i figli dell’uomo. Non si tratta, ovviamente, di una valutazione soltanto estetica. Si tratta di contemplare in Gesù colui che realizza al tempo stesso e perfettamente la vocazione umana e il volto del Padre, cioè l’esistenza divina. È la bellezza più grande che ci sia, perchè non c’è niente di più bello di Dio e della sua perfetta immagine e somiglianza: l’uomo Gesù Cristo. Il secondo avvento di Cristo sarà la manifestazione gloriosa di questa bellezza. Perché allora il Vangelo ci annuncia oggi delle catastrofi cosmiche e un giudizio preceduto da grandi sconvolgimenti? La bellezza della notte di Natale era pacifica e mite. Perché allora la bellezza della manifestazione gloriosa di Cristo dovrebbe essere diversa? Rischiamo un’ipotesi. Forse potrà essere oggettivamente pacifica e calma. Ma in più si manifesterà universalmente come verità assoluta. Ora, la bellezza che non abbiamo saputo riconoscere, accanto alla quale siamo passati senza vederla, il giorno in cui si impone per cio che è, fa esplodere la nostra insipienza, la nostra bassezza, il nostro errore e polverizza le nostre falsità. È soggettivamente che lo sconvolgimento si verifica. Preparare Natale, è probabilmente essere il più attento possibile alla bellezza di Cristo già presente nella nostra vita, e cogliere questa bellezza, gustarla, offrirla a Dio. Occorre per questo vigilanza, sforzo e umiltà. La preghiera qui appare indispensabile. Ci fa resistere, rimanere in piedi, con calma e mitezza, davanti alla folgore di Cristo la cui bellezza ci ha già sedotti.

 

Domenica 15 novembre 2009 - XXXIII Domenica T.O. - Fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

Questo difficile brano del Vangelo che abbiamo appena ascoltato fa parte del grande discorso di Gesù trasmesso da tutti gli Evangelisti sinottici, cioè da Matteo, Marco e Luca, che nella nomenclatura esegetica è chiamato ‘discorso escatologico’. Questo bel nome viene dal greco in cui ‘ta eschata’ significa le  realtà ultime, perfette, finali. Gesù non ci parla quindi delle cose in cui viviamo oggi, ma di cose nuove, che non esistono ancora. Per questo è così difficile ascoltare e capire le sue parole.

Aggiungendo ancora una parola greca prima di andare al testo, possiamo dire che il discorso escatologico è nello stesso tempo apocalittico. ‘Apocalipto’ significa infatti scoprire, svelare, smascherare. Le parole e le visioni apocalittiche cercano di introdurre chi le ascolta nelle realtà sconosciute e nascoste. E tali sicuramente sono queste realtà ultime di cui Gesù ci parla oggi. Il Cristo e la Chiesa ci propongono oggi qualcosa di abbastanza difficile: ascoltare parole escatologiche ed apocalittiche.

Non si tratta oggi dunque di accogliere semplicemente la Parola di Dio che tocca i nostri problemi quotidiani, che rischiara i nostri affari abituali e che ci dà la conoscenza e la forza per vivere la nostra vita. Oggi non è tanto la Parola che viene verso di noi, ma siamo noi invitati a raggiungerla. La Parola ci attira e ci incoraggia ad entrare nelle sue profondità, nelle cose ultime, in ciò che Dio ha preparato per l’ultimo giorno.

Per accogliere bene queste parole dobbiamo abbandonare il nostro naturale desiderio di chiarezza intellettuale. Tutte le parole che sentiamo normalmente entrano nei nostri orecchi, trovano il loro posto nella nostra mente e ci permettono di capire, in un certo modo di possedere, di abbracciare la realtà a cui sono legate e che portano in se. Ascoltando queste parole di Gesù non si può capire nulla, perche ciò di cui parlano non è stato ancora creato, non esiste ancora. Ma non si può dire che queste parole siano vuote, al contrario: non ci sono parole più  ricche di significato, perché indicano le cose ultime, future, per noi non ancora realizzate, ma perfette, assolute.

Se il discorso escatologico è per noi oscuro e incomprensibile è tale, perché ci rivela le cose davvero future. Non parlano del futuro che sarà il semplice e naturale risultato del nostro presente, non parlano degli eventi della storia che si verificheranno un giorno – fra un anno, oppure fra seicento anni. Parlano di ciò che sarà dopo la storia. E non soltanto dopo la nostra storia, quando per esempio l’Europa non sarà più il centro del mondo, oppure quando il sole – come prevedono gli scienziati – esploderà e brucerà la terra… Non di questo parla il discorso escatologico, ma delle realtà davvero ultime, cioè di ciò che sarà quando Dio terminerà, adempirà, concluderà l’opera della creazione. Quando tutto sarà compiuto.

Che cosa allora succederà in quel giorno?

Il sole si oscurerà e la luna non darà più la sua luce, perché sono stati creati per separare il giorno e la notte, per essere segni per le feste, per i giorni e gli anni e per illuminare la terra. Se Gesù dice che passeranno, quando Dio adempirà la creazione non ci saranno più né giorni, né notti. Non ci saranno più feste, perché sarà la festa: le eterne nozze dell’Agnello. Lui, l’Agnello, illuminerà tutti e non avrà più bisogno del sole. La fine della notte sarà anche la fine delle stelle che cadranno dal cielo. Ma il più bello è che le potenze del cielo saranno sconvolte. Le potenze, gli Angeli prepotenti che tengono chiuse le porte del cielo, che difendono la dimora dell’Altissimo sconvolti e pieni di stupore udranno il grido: ‘aprite le porte, si alzino le soglie antiche!’ Si, il mondo che conosciamo passerà. Non ci sarà più il cielo con Dio e la terra per gli uomini. Dio sarà tutto in tutti!

Ma quando? Quando succederà tutto questo? Quando verrà quel giorno bello a cui aneliamo? Nessuno lo sa. Ma non perché Dio non vuole rivelarlo e custodisce gelosamente il segreto per se. La domanda ‘quando’ è legittima, perché si tratta della creazione che esiste nel tempo e ha diritto di domandare ‘quando’. Ma l’unica risposta a questa domanda può essere: nessuno lo sa, perché quest’ultimo giorno non è più veramente giorno, quest’ora non è più veramente ora: la realtà ultima per il creato è la pienezza del tempo, lo inserisce nell’eternità, perché unisce la creazione al suo Creatore. Si può dire, mi sembra, che il mondo e noi con lui entrerà nell’eternità con questa domanda: ‘quando?’ sulla bocca. e l’eternità stessa, Dio stesso sarà la risposta.

Fratelli e sorelle, c’è ancora una cosa molto importante nel discorso escatologico di Cristo: per Gesù il giorno ultimo è molto vicino, è quasi ora, adesso. Quando il Signore diceva che in quel giorno vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria, annunciava ovviamente il compimento della profezia di Daniele, che diceva che negli ultimi tempi il Figlio dell’uomo salirà a Dio per ricevere da Lui il potere eterno su tutte le nazioni. Ma dicendo che si potrà vederlo, Cristo indicava sicuramente il momento della sua pasqua, cioè della sua salita al Padre; indicava la sua morte, quando tutti avevano volto lo sguardo a colui che avevano trafitto. Dicendo che manderà gli angeli per radunare i suoi eletti, parlava ovviamente della sua elevazione sulla croce per mezzo della quale ha attirato tutti a se. La morte di Cristo è dunque la fine del mondo: tutto è compiuto. La morte di Cristo, che gli dà la vita, è la venuta del Figlio dell’uomo, la venuta al Padre, ma anche a noi, perché in quel giorno siamo divenuti suoi e Gesù è venuto a noi come nostro re. Per questo parlando agli ebrei del giorno ultimo, Gesù ha detto che non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Lo stesso dice oggi a noi, perché la croce e la morte di Cristo non appartengono soltanto alla storia, ma anche all’eternità. Ne consegue che ora celebriamo e viviamo, in quest’Eucaristia la pasqua del Signore, la fine del mondo, la venuta del mondo nuovo. Tocchiamo l’eternità! Noi, mortali, entriamo nella comunione con Dio… È la fine del mondo!

Fratelli e sorelle, impariamo dunque dalla pianta di fico: il suo ramo diviene tenero, spuntano le foglie; abbiamo già ascoltato la Parola di Dio, il pane e il vino sono già qui e saranno fra poco portate al altare. Dio è vicino, è alle porte. Il discorso escatologico ed apocalittico si adempirà. Celebriamo la pasqua del Signore. Amen.

 

Sabato 14 novembre 2009 - XXXII settimana T.O. - fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

Gesù Cristo conosce e ci fa conoscere non soltanto Dio, ma anche l’uomo. È venuto per rivelarci il volto di Dio parlandoci del Padre misericordioso, ma anche per svelarci il mistero del nostro cuore. E ciò che sembra essere ancor più straordinario è che per Gesù Dio e l’uomo sono sempre uniti, distinti ma uniti. In un certo senso Dio è sempre il Dio dell’uomo e l’uomo è l’uomo di Dio. Nella parabola che meditiamo oggi quest’unione fra Dio è l’uomo sotto lo sguardo di Cristo si manifesta nel modo particolare.

Vi incontriamo il Dio dell’uomo: giudice disonesto, sordo e insensibile alle richieste e alle suppliche umane. Non raramente tale è il nostro Dio. C’è anche nella parabola l’uomo di Dio: una piccola creatura, fastidiosa, importuna, che viene al infinito a chiedere qualcosa, sicura – non si sa da dove le venga questa sicurezza – di meritare aiuto e protezione. L’incontro di queste due personalità risulta stupendo: il giudice apre il suo cuore alla vedova e la vedova smette di essere di peso e di fastidio per lui. Cristo infatti non soltanto guarda Dio e l’uomo sempre con un unico sguardo, ma li vede nella storia che si svolge fra loro, nella storia della salvezza. Conosce e ci fa conoscere le difficoltà della relazione fra Dio e l’uomo dopo il peccato, ma conosce anche e ci fa conoscere l’opera della salvezza: il giudice non è così iniquo come si pensa, la vedova non è per lui così importuna. Per questo dopo la parabola Cristo spiega, che Dio – mostrato prima come giudice dal cuore duro - non ci fa aspettare a lungo, e non parla più della vedova importuna e fastidiosa, ma degli eletti di Dio. Invitandoci ad ascoltare ciò che dice il giudice, Gesù ci invita alla contemplazione del mistero della salvezza e alla speranza che Dio non ci farà attendere troppo. Cristo suscita in noi una fede sicura e perseverante, una fede che non smette mai di pregare, di gridare giorno e notte davanti alla porta chiusa del cielo: abbi pietà di me, Signore! aprimi! fammi giustizia! salvami!

Fratelli e sorelle, anche se la parabola del giudice iniquo e della vedova importuna sembra un po’ leggera e buffa, tratta di una realtà molto seria. Un giorno l’autore di questa parabola, Gesù Cristo, diverrà, lui stesso, come la vedova davanti alla porta chiusa della casa del giudice, e Dio, il suo unico protettore sembrerà sordo alle sue suppliche. Gesù crocifisso infatti ha realizzato ciò di cui ha parlato nella parabola. Non ha smesso di pregare, non si è stancato. Mentre stava morendo bussava alla porta di Dio e chiedeva aiuto! Per un po’ Dio non volle aiutarlo, ma dopo tre giorni gli fece giustizia. Non lo ha fatto aspettare a lungo, soltanto tre giorni nella tomba.

Conserviamo dunque anche noi la fede e speriamo – anche contro la speranza – che il giudice iniquo sia buono e misericordioso. Perseveriamo nell’umile supplica per la salvezza, noi, vedove importune e al tempo stesso eletti di Dio. Dio ci ha già salvato in Cristo. Amen.

 

Domenica 8 novembre 2009 - XXXII Domenica del T.O. - fr. Massimo-Maria FMJ 

   Se nella Scrittura c’è come un emblema che rappresenta la povertà, questo è costituito dalle vedove. La vedova infatti nel mondo ebraico era colei che avendo perso il marito, aveva perso così ogni possibilità di essere rappresentata, considerata, calcolata. Era privo di ogni possibile appoggio, sicurezza, difesa, diritto. Era posta non solo in uno stato di indigenza, di povertà affettiva, ma anche materiale, tanto che non era difficile trovare delle vedove che per vivere mendicavano.

   Oggi nella liturgia domenicale incontriamo proprio due vedove. Una nel Primo libro dei Re che incontra e dialoga con il profeta Elia, e l’altra nel testo evangelico di Marco che pensando di passare inosservata si era recata nel Tampio di Gerusalemme per fare la sua offerta, ma che in realtà è vista e conosciuta in profondità da Gesù.

   Elia, nella sua fuga dall’ira della Regina Getsabele giunge alla città di Zarepta di Sidone e proprio alla porta della città si imbatte in una vedova intenta a cogliere legna. Sarebbe stata l’ultima persona alla quale chiedere aiuto e dalla quale attendere soccorso, eppure il profeta sa bene che Dio si serve dei piccoli e dei poveri e di loro particolarmente si prende cura. La povera vedova si fida della parola dell’uomo di Dio, nella sua indigenza non si chiude, ma condivide ciò che le era rimasto per la vita sua e del figlio.

   Nella sua audace fiducia e impressionante generosità sperimenta la potenza di Dio sempre pronto ad aprire la sua mano e a saziare la fame di ogni vivente.

   Questa vedova, di cui non si conosce il nome, quasi per sottolineare ancor più la sua abissale povertà, è grande, perché capace di abbandono confidente e condivisione sorprendente tale da essere per noi oggi Parola forte per il nostro cammino dietro al Signore Gesù, Lui che proprio nel Vangelo la citerà come esempio di fede e disponibilità.

   La seconda vedova verso cui la liturgia ci fa volgere lo sguardo la scorgiamo nel Tempio di Gerusalemme. Nel Tempio vi era la cosiddetta stanza del Tesoro, sempre affollata attorno alle tredici trombe, raccoglitori di monete cioè. Soprattutto i ricchi la frequentavano, in lunghe vesti che con gesti teatrali lasciavano cadere le loro rumorose offerte.

   Gesù era lì ci dice il testo per mettere in guardia la folla da quel fare ipocrita dei ricchi e per fare notare ai suoi discepoli, e a noi oggi, questa vedova appunto, che con umiliazione, volendo passare inosservata, getta nel tesoro due monetine.

    “ Ella ha messo nel tesoro tutto quanto aveva per vivere” Meglio – tutta la sua vita.

Gesù sottolinea così che questa donna ha dato tutto! Ha riversato in Dio tutto. Povera, senza alcuna umana garanzia, senza più nessuna sicurezza, senza alcun appoggio. L’unica cosa che gli restava – due spiccioli – la offre.

   Ha sul serio posto in Dio, solo in Lui la sua fiducia.

   Fratelli e sorelle, come non sentire risuonare nel nostro cuore, avendo l’impressione di comprenderle meglio vedendole realizzate in questa donna, le parole del Signore: “ Non affannatevi per ciò che mangerete o berrete, cercate prima di tutto il Regno di Dio ed il resto vi sarà dato in aggiunta ” ? Come non sentire riecheggiare la sapienza del Salmista: “ Nel Signore Dio ho posto il mio rifugio”?

   Negli anni ottanta i Vescovi italiani, nel loro programma pastorale, più volte hanno ripetuto che i poveri ci evangelizzano. Oggi noi facciamo nella liturgia questa esperienza, siamo evangelizzati appunto da due vedove.

   Entrambi ci proclamano l’urgenza della condivisione generosa per essere fedeli al Signore, ci ribadiscono la non negoziabilità per il cedente dell’abbandono totale e pieno di fiducia in Dio!

   Su chi poggia la nostra vita? Di chi in verità noi ci fidiamo? Io mi fido davvero di Dio? Condivido con gli altri il superfluo, o ciò che costituisce la mia vera ricchezza,  la mia vita?

   Prendere sul serio il Vangelo oggi vuol dire non eludere questi interrogativi.

   Fratelli e sorelle è facile fidarsi di Dio, affidarsi a Lui quando il mare della vita è calmo, il vento soffia in favore e i conti tornano tutti abbondantemente.

   E’ possibile fidarsi del Signore, dargli fiducia quando si tratta di dargli qualcosa di tanto in tanto, un po’ di tempo, qualche servizio, e magari anche qualche rinunzia. Ma la fiducia totale, liberante, pacificante ed anche diciamolo crocifiggente comporta dirgli Amen, quando si tratta di dare tutto, di scegliere assolutamente la logica del Vangelo sempre, ad ogni costo e senza sconti!

   E’ follia per il mondo, ma sapienza per il Vangelo. Questa fede profonda, questo abbandono confidente in Dio è la pace e la forza del discepolo di Gesù.

   Fratelli e sorelle oggi attraverso queste due povere vedove Gesù Signore ci invita a fare sul serio con Lui, a prendere sul serio il Vangelo, la fede cristiana. In un certo senso non basta credere che Dio esiste, ma è urgente vivere sapendo che agisce, che si prende cura di noi e da qui sgorga la pace che si testimonia in una disponibilità a condividere non solo un po’ di quanto siamo ed abbiamo, ma tutto.

    A chi vive così il Signore non solo promette il Regno futuro, ma dona di sperimentare la sua misteriosa pace che nasce da abbandono confidente, dall’aver fatto proprie le parole del Salmo: “ Il mio bene è stare vicino a Dio, nel Signore Dio ho posto il mio rifugio”.

 Amen

 

 Domenica 1 novembre 2009 - Ognissanti - fr. David FMJ

 

     La prima lettura di questa solennità è tratta dal libro dell’Apocalisse. Questa lettura ci fa vedere la moltitudine immensa degli eletti, cioè i santi. È molto importante considerare il carattere liturgico del testo dell’Apocalisse. È una liturgia quella che ci viene descritta: vesti bianche, palme in mano, acclamazioni, adorazione davanti al trono dell’Agnello. E questo testo è stato scritto in vista di una lettura liturgica, per sottolineare l’unità profonda che esiste tra la posizione dei santi e la nostra, nella Chiesa. La schiera dei santi celebra, in cielo, la gloria, la sapienza, l’onore, la potenza, la forza del nostro Dio e Signore Gesù Cristo. La folla dei santi sta davanti al Trono dell’Agnello. Anche noi, celebriamo sulla terra la gloria, la sapienza, l’onore, la potenza, la forza del nostro Dio e Signore Gesù Cristo. Stiamo davanti all’altare dell’Agnello che ci dà la salvezza con il suo corpo e il suo sangue. Il libro dell’Apocalisse non ci descrive un Olimpo misterioso, un mondo popolato di esseri eccezionali, di semidei, bensì ci descrive il compimento della nostra assemblea liturgica, il compimento dell’assemblea che formiamo già, fin d’ora. La realtà ultima, fratelli e sorelle, è il Cristo. C’è questo mondo, e c’è l’aldilà di questo mondo. Ma ancora più in profondità, c’è il Cristo, che riempie tutto. È presente nell’assemblea che formiamo nello Spirito Santo. È presente nel sacramento dell’eucaristia realizzata dallo Spirito Santo. È presente nell’assemblea dei santi che vive nello Spirito Santo. Loro e noi, formiamo il Cristo totale. Lo stesso Spirito ci raduna, ci fa vivere. Quelli in pienezza, apertamente. Noi in modo incompleto, nascosto.

     Santi, cioè separati, questa è la nostra vocazione fin d’ora : siamo scelti da Cristo, amati da lui. Il nostro sforzo di separazione dal peccato deve procedere da quest’amore di Cristo. La nostra vocazione comune alla santità non è di essere perfetti, irreprensibili. È di essere accoglienti verso quest’amore di Cristo che ci sceglie senza nostri meriti, e che ci chiama ad amare incondizionatamente, cioè senza calcolare i diritti degli altri al nostro amore. Un uomo confidava una volta ad un prete: “Padre, ho talmente voluto avere le mani pure che sono vuote”. Fratelli e sorelle, la santità non è una corsa a ostacoli da superare senza errori e cadute. La santità è la vera vita, quella che batte nel cuore di Cristo, scorre nel suo sangue, viene dal Padre e si comunica nello Spirito Santo.

Fratelli e sorelle, i santi non sono lontani da noi. Sono come noi, esseri umani come noi. Erano deboli e peccatori e ora sono salvi. E anche noi, siamo salvi, partecipiamo al banchetto eucaristico. Siamo noi quelli che la liturgia chiama i santi. Le cose sante ai santi, proclama la liturgia bizantina, volendo significare che l’eucaristia, legata al battesimo, ci costituisce eletti da Dio per la salvezza del mondo. Noi siamo i santi. Non ancora come quelli del cielo, poiché non vediamo Dio faccia a faccia, e questo ci dimostra che abbiamo ancora un lungo cammino da fare. Ma siamo santi nel senso che siamo scelti da Gesù Cristo. Diciamolo in un altro modo: Gesù Cristo ha consentito che siamo per lo meno un po’ toccati dalla sua bellezza, dalla sua luce. Non dobbiamo abituarci alla nostra mediocrità. In altri termini: dobbiamo avere sempre la forza, l’audacia, di vedere la luce e la bellezza di Cristo. Questo non è possibile senza un certo coraggio fatto di perseveranza, di onestà con noi stessi, di un atto di fede nell’elezione da parte di Cristo, di volontà di mantenerci fedeli a quest’amore divino che perdona e rialza.

 

 giovedì 29 ottobre 2009 - XXX settimana T.O. - fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

     L’uomo che vive senza Parola di Dio è davvero povero e cieco, perché cosa si può vedere senza luce? La profondità di questa cecità è davvero impressionante. È in un certo modo infinita, perché per essere vinta esige l’infinità della Parola di Dio. Per questo la presenza della Parola significa sempre per l’uomo – ogni uomo – l’illuminazione, cioè la sgradevole perdita delle sue illusioni. Il vangelo che meditiamo oggi ce ne dà tre esempi.

     Il re Erode riteneva di aver potere su Cristo Dio. Gli sembrava di avere in mano la vita di Gesù e per questo osava minacciarlo di morte. Anche i farisei credevano nel potere di Erode, e per questo si sono avvicinati a Gesù per avvertirlo. Ma Gesù ha chiamato “volpe” questo re che lo minacciava di morte, cioè ingannatore, truffatore, bugiardo, perché Erode non aveva nessun potere su di Lui. In questo modo Cristo fa sparire questa illusione del potere e rivela la verità della Parola di Dio. Non parla apertamente del Padre, ma l’allusione ai suoi compiti indica Colui che l’ha mandato. È necessario che la volontà del Padre si compia, dal momento che tutto e tutti sono nelle sue mani.

     Gerusalemme, città santa, credeva – forse perché aveva udito queste parole dalla bocca del profeta – che da lei “sarebbe uscita la parola del Signore” (Is 2,3). I suoi capi si consideravano custodi della legge di Dio. Città cieca, uomini ciechi! Non hanno capito che la Parola di Dio esce dalla sua bocca e che Lui stesso la custodisce e la rende immortale. Davanti a questa cecità Gesù rivela la verità ricordando i fatti: Gerusalemme uccide i profeti, lapida quelli che le sono stati mandati. La Parola di Dio invece, pur uccisa, la santifica ed esce da lei verso il mondo, perché tale è la volontà di Dio che manda la sua Parola vivente.

     La terza illusione umana che Gesù, Parola di Dio e luce degli uomini, fa sparire è probabilmente la più comune e oscura, e ha messo radici nel profondo del nostro cuore. Ci sembra infatti che Dio sia assente, che ci abbia abbandonato e dimenticato. Noi invece desideriamo Dio e vogliamo trovarci in Lui, ma Lui ha nascosto il suo volto. Però, la Parola di Dio, Dio stesso parla per bocca di Gesù agli uomini: “quante volte ho voluto raccogliervi, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!”. Ecco la verità. L’assenza e il silenzio di Dio sono nostra illusione, Dio invece molte volte e in diversi modi ha provato a unirci a Lui, ma senza risultato, forse anche senza che noi ce ne siamo accorti. Illusori sono spesso anche i nostri più santi desideri. Abbiamo una certa facilità a dire che vogliamo essere con Dio, vogliamo amarlo e obbedirlo, e per questo ciò che Gesù ha detto agli abitanti di Gerusalemme: “non avete voluto essere raccolti sotto le mie ali”, ci fa pensare.

     Fratelli e sorelle, se la vita umana senza Parola di Dio è una serie di illusioni, la vita cristiana – che è il frutto della venuta della Parola, della sua incarnazione – è una conversione continua. A poco a poco Dio ci libera dalle tenebre e ci fa uscire da noi stessi. Un giorno ci darà il suo volto da contemplare. Mi sembra che possiamo già ringraziarlo per questo. Amen.

 

 giovedì 22 ottobre 2009 - XXIX settimana T.O. - fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

     “Il Divisore” è il nome del diavolo, perché dividere, separare e distruggere l’unità è opera sua. Ma Gesù, nella pericope evangelica che meditiamo oggi, parla della divisione che è causata da Lui. Sappiamo peraltro che il principe del mondo, diavolo e divisore, non ha nessun potere su Cristo, non c’è niente di suo in Lui. Dobbiamo quindi domandarci che cos’è questa divisione voluta fra gli uomini da Dio stesso, che non ha niente in comune con quella voluta dal loro nemico.

     Può sembrare che dicendo queste parole Gesù avesse in mente la divisione provocata dalla fede in Lui. Sapeva infatti che ci sarebbero stati uomini che avrebbero creduto in Lui, ma anche altri che lo avrebbero rifiutato. Ma non si può dire che questa divisione – che esiste anche oggi – sia portata da Cristo. Il suo autore è il diavolo, nemico dell’uomo e della sua salvezza. È lui che divide l’umanità nascondendo davanti a tanti il volto di Cristo e non permettendo loro di nascere alla fede, e suscitando in tanti altri orgoglio e senso di superiorità a causa della loro fede. Dobbiamo dunque cercare di capire in un altro modo questa divisione fatta dal Salvatore in seno all’umanità.

     Dio ha creato tutti gli uomini uniti. Anche se ama ciascuno con amore personale ed ha con ogni uomo una relazione individuale, ha creato non soltanto gli individui, ma anche l’umanità intera. Si può dire con le parole della Bibbia, che Dio non ha creato soltanto le pecore, ma ha plasmato il gregge. Quest’unione profonda dell’intera umanità  stabilita da Dio stesso non può essere eliminata da nessuno. È più forte, più profonda di quello che sospettiamo. Neanche il peccato l’ha distrutta, e sulla base di quest’unità fondamentale del genere umano, “a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato – come ci insegna san Paolo – la morte”. In un solo uomo “tutti hanno peccato” (Rom 5,12). Il divisore non ha distrutto il progetto creatore di Dio fino in fondo, non ha del tutto disperso il gregge, vi ha messo la discordia, ma non ne ha distrutto l’unità. Per questo pur avendo rapito una pecora sola, si è impossessato di tutto il gregge. L’unità del genere umano – vorrei dire purtroppo, ma non si può perché è opera di Dio – è più forte del peccato e per questo ogni uomo che viene nel mondo, che nasce in questo gregge che è l’umanità, è fin da principio peccatore, non conosce Dio, non sa amare.

     Mi sembra dunque che Gesù Cristo sia venuto a portare sulla terra la distruzione di quest’unione fondamentale dell’umanità. La spada portata da Lui, della quale parla san Matteo, ha tagliato questo legame fra gli uomini che li teneva stretti insieme nella logica del peccato. Il primo separato da tutti, diviso da tutta l’umanità è Cristo stesso: il solo santo, il solo senza peccato, figlio di Adamo come tutti noi, ma al tempo stesso nuovo Adamo, il primo nuovo uomo, quindi solo, unico. Nessuno poteva seguirlo sulla croce, bere al suo calice, tutti Lo avevano abbandonato. Il Cristo sulla croce è solo come Adamo nel Paradiso. Si può dunque dire, che il Crocifisso ha diviso l’umanità e sarà per sempre il divisore: Lui, uno di noi, non è come noi, Lui è come Dio, ama, è amore.

Ma divenuto il nuovo Adamo, Gesù ha gettato – come aveva promesso – fuoco sulla terra. Ha fatto apparire nel mondo donne e uomini che pur essendo nel gregge dell’umanità peccatrice, ne sono – o forse meglio dire diventano – divisi, separati, tagliati fuori. Sono nati dal primo Adamo, ma attirati da Cristo diventano sempre di più figli e figlie del nuovo Adamo. Dio sta formando dal fianco di Cristo l’umanità nuova, separandola da quella prima.

     Mi sembra che tutti conosciamo almeno un po’ il frutto di questa divisione. Vediamo che a poco a poco cresce in noi una certa indipendenza dagli altri, molto esigente e difficile, libertà che ci permette infine di amare. Sentiamo, anche se ci manca il coraggio di accogliere questa verità, che non dobbiamo più aspettare gli altri e guardarci indietro per vedere se anche loro fanno gli stessi sforzi per essere buoni e giusti. Non dobbiamo più preoccuparci se risponderanno al nostro amore nello stesso modo. Non c’è più questa unità del gregge umano, che ci teneva in questa logica di ferro: occhio per occhio, bene per bene, per male – male. Ora siamo liberi come è libero il Crocifisso: non importa più che cosa fa e com’è l’altro, possiamo amare i nostri nemici, benedire coloro che ci maledicono.

     Forse questa è la divisione portata da Cristo. Che dunque questa spada ci tagli completamente dal mondo, perché siamo infine con Cristo in Dio per mezzo dell’amore. E che questo fuoco di cui parlava Gesù consumi noi e l’umanità intera. Amen.

 

 Domenica 18 ottobre 2009 - XXIX Domenica T.O. - fr. David FMJ

Is. 53, 10-11 ; Ps. 32 ; He. 4, 14-16 ; Mc. 10, 35-45

      Giacomo e Giovanni chiedono di sedere accanto a Gesù, nella manifestazione della sua gloria, ma Gesù risponde loro che non sanno quello che chiedono. Distanza. È una parola che si può scegliere per riassumere questo malinteso. Distanza tra quello che i discepoli chiedono e quello che Gesù vuole dare loro. E anche distanza dei discepoli rispetto a se stessi. Infatti Giacomo e Giovanni non sanno quello che chiedono e non sanno nemmeno quello che ottengono. Vogliono sedere, regnare, governare, e Gesù promette loro una partecipazione alla sua Passione, al suo calice, alla sua esaltazione in forma di abbassamento. Le parole di Giacomo e di Giovanni colpiscono nel segno, ma a loro insaputa.

     Che cosa significa questa distanza? Significa il fallimento delle valutazioni fatte dai discepoli. Giacomo e Giovanni esprimono una grande ambizione. Desiderano il pieno sviluppo di tutte le loro potenzialità. Ma si sbagliano considerando in maniera troppo terrena la loro realizzazione personale. È il fallimento del loro criterio di successo. Giacomo e Giovanni hanno ottenuto qualcosa, poiché Gesù promette loro il suo calice. Ma questa promessa è molto diversa da ciò che loro credevano di aver chiesto. È il fallimento del loro criterio di comprensione dell’azione di Dio nella loro vita. I discepoli legano il massimo prestigio nel fatto di sedere alla destra e alla sinistra di Gesù. Ma questi posti sono riservati ai due malfattori che verranno crocifissi con Gesù. È il fallimento della loro concezione della grandezza. Il Figlio dell’uomo non è come coloro che regnano da maestri perché è venuto per servire e non per farsi servire. È il fallimento della percezione che i discepoli hanno di Gesù e della sua missione. È un succedersi di errori di apprezzamento che Gesù corregge metodicamente, con una precisione spietata. In ciascuno di questi errori di valutazione, c’è qualcosa della richiesta iniziale che viene mantenuto. Gesù prende alla sprovvista, sorprende, stupisce, ma non rigetta del tutto le sollecitazioni che gli sono rivolte. Questo significa che nei nostri desideri umani, troppo umani, c’è qualcosa di profetico, ed è il desiderio stesso. È per questo che possiamo riconoscere Gesù. Sentiamo che è colui verso il quale possono convergere le nostre richieste. E se le nostre richieste spesso non fanno centro, se sono spesso inadeguate al progetto di Dio, questo non è grave finché rivolgiamo il nostro desiderio, i nostri appetiti, le nostre ambizioni verso Cristo. Sarà lui che purificherà le nostre preghiere. Non sappiamo chiedere nel modo giusto, ci dice san Paolo nella lettera ai Romani. Ma non importa, finché riconosciamo che Gesù è colui che solo può colmare le nostre attese. Gesù cambia tutti i nostri criteri di valutazione. Ma questo non significa che ci porti fuori strada. Non è venuto a traviarci ma a salvarci.

     Fratelli e sorelle, sicuramente anche noi sperimentiamo quest’esperienza paradossale di distanza e di vicinanza di Cristo, perché anche noi dobbiamo imparare a lasciare che Dio sia Dio come lui intende essere. Per esempio, quando alziamo verso il cielo uno sguardo di rimprovero chiedendo: ”se Dio esiste, perché tutto questo male, perché tutta questa pena, perché questo mondo è così”, possiamo essere sicuri che anche noi, non sappiamo ciò che chiediamo. Dio, infatti, non ci ha lasciati senza risposta. Non è rimasto senza fare niente. Ma la sua risposta e la sua azione sono estremamente lontani da ciò che, umanamente, aspettiamo. Gesù crocifisso e risorto. Ecco la risposta. Ed è una vittoria. Ma una vittoria che non è di questo mondo. Questa distanza tra le nostre attese e il modo con cui Dio le colma non è l’unica. Ne ha come conseguenza un’altra, quella di noi stessi a noi stessi. Come Giacomo e Giovanni, non capiamo sempre quello che ci è consentito. Come Giacomo e Giovanni, non siamo in grado di leggere la nostra vita come si legge un libro. La chiave della nostra esistenza non è dentro di noi. Non la possediamo. Gesù è il compimento della nostra esistenza, e questo vuol dire che, il nostro compimento, in parte, ci sfugge. Succede che, nelle nostre esistenze, ci sia un sapore di fallimento, d’assurdità, di spreco che, in Gesù, diviene compimento. Non si può essere padroni del mistero divino. Non si può nemmeno esserlo della propria vita. Ma c’è una bellezza infinita nel fatto di dover abbandonare ogni giorno di più le nostre ambizioni di possesso. Ciò che è bello è scoprire che non possiamo trovare pienezza se non nell’offerta di noi stessi al mistero infinito di Dio. Siamo dipendenti, dipendenti da Dio però. Siamo poveri, non soltanto perché siamo peccatori, ma anche perché tendiamo verso quella pienezza divina di cui Gesù Cristo è l’unico mediatore.

 

venerdì 16 ottobre 2009 - XXVIII settimana T.O. - fr. Marek FMJ

 

     Fratelli e sorelle, “Valete più di molti passeri!”. Forse questa frase non è il centro del Vangelo, ma senza dubbio è uno degli insegnamenti di Cristo più importanti. Anche se queste parole sono semplice e familiare, toccano però qualcosa di realmente serio, perché ci sono state dette per liberarci dal timore della morte.

     Prima di tutto dobbiamo notare che Gesù si rivolge ai suoi discepoli con le parole: “amici miei”, ciò significa che vuole far loro conoscere tutto ciò che ha udito dal Padre suo (Gn 15,15) e dar loro parte con se (Gn 13,8). Lui che è la vita vera e il sole che non conosce tramonto, vuole toccare il nostro cuore per allontanare da noi la paura di quelli che uccidono il corpo e dopo questo non possono fare più nulla. Questa frase è per noi la rivelazione di cose totalmente nuove. Per noi “essere ucciso” e “perdere la vita” sono la stessa cosa, perché il nostro sguardo non va oltre il confine della morte. Non conosciamo nient’altro, non c’è per noi “dopo questo”. Per Gesù invece “la vita vale più del cibo e il corpo più del vestito” (Lc 12,23). La vita umana è Dio stesso, il Verbo che dal principio è presso Dio (Gn 1,4). “La morte” e “la vita” non hanno per noi e per lui lo stesso significato.

     Gesù è consapevole di quanto i nostri pensieri siano lontani dai suoi. Domandando se non si vendono forse cinque passeri per due soldi, fa suo il nostro modo di pensare e guarda il mondo con i nostri occhi, fa sua la nostra conoscenza del mondo e si fa nostro fratello. Ma poi aggiunge le parole che ci rivelano i misteri e le cose nascoste ai nostri occhi: “nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio”. Con queste parole Gesù Cristo, Figlio di Dio apre i nostri occhi e illumina i nostri cuori, condivide con noi la sua conoscenza del mondo e ci fa suoi fratelli. In questo modo vediamo come Cristo che i passeri nelle mani dei venditori non sono dimenticati da Dio, e grazie a questa luce anche noi siamo figli di Dio.

     Mi sembra che questo insegnamento sui passeri rivela la natura stessa della salvezza: Gesù non è venuto per riparare il mondo distrutto dal peccato, per raccogliere la zizzania seminata nel campo di grano. Dopo la venuta di Cristo, come prima, i poveri passeri si vendono per due soldi, cinque passeri per due soldi! Ma Gesù è venuto per rivelare Dio, per manifestare la sua presenza in mezzo a questo mondo. Si può dire che non ha strappato i passeri dalle mani dei venditori, però, li ha messo nelle mani di Dio.

     Non abbiate dunque paura: valete più di molti passeri! Dopo la venuta di Cristo, come prima, la nostra vita è fragile e la passiamo all’ombra della morte. Ma il Cristo ha ampliato il nostro sguardo: malgrado la nostra povera condizione, non siamo dimenticati davanti a Dio. Non c’è dunque, fratelli e sorelle, altra liberazione dalla paura della morte che quella derivante dalla fede che per Dio valiamo più di molti passeri. Amen.

 

Domenica 11 ottobre 2009 - XXVIII Domenica T.O.- fr.Marek FMJ

 

            Fratelli e sorelle,

            La lettera agli Ebrei ci ha appena ricordato che la Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio. Questo paragone della Parola con la spada a doppio taglio è molto importante, perché la Parola è davvero così: la sua luce rischiara una cosa, ma nello stesso tempo ne mette in ombra un’altra. La sua luce ci forza a camminare sempre nelle tenebre. In altre parole, si può dire che la Parola di Dio è per noi luce tenebrosa oppure tenebre luminose, un po’ come durante l’Esodo dall’Egitto era per gli Ebrei la nube della presenza di Dio, che – come leggiamo -, era tenebrosa di giorno e illuminava la notte (Es 14,20).

            In quello stesso modo, la certezza dell’efficacia della Parola di Dio, che troviamo nella Lettera agli Ebrei getta un’ombra sul racconto evangelico che meditiamo oggi, e che ci presenta l’inefficacia delle parole di Cristo. La Parola viva, che è più tagliente di una spada a doppio taglio, comanda: “Va’, vendi tutto, dallo ai poveri, vieni e seguimi!”; l’uomo però se ne andò. La Parola di Dio non è riuscita a staccarlo, a tagliarlo dalle sue ricchezze. Che luce tenebrosa! Si può ovviamente far ricadere la responsabilità dell’inefficacia della Parola sulla libertà umana, ma non mi sembra che questa sia la soluzione. La nostra libertà è creata dalla Parola, non può dunque limitarne e condizionarne l’efficacia. Se la Parola è veramente efficace, dobbiamo ammettere che invitando quest’uomo ricco a vendere tutto non voleva ripetere la vocazione del pubblicano Matteo, ma voleva creare qualcosa di ben diverso. Mi sembra che la Parola intendesse creare quella tristezza profonda che ha reso scuro in volto quest’uomo ricco. Ed è davvero riuscita a farlo. Si vede dal seguito del racconto evangelico che la sua tristezza era veramente impressionante. Tutti tacevano, erano sconcertati e stupiti. La Parola di Dio, viva, efficace e più tagliente di una spada, ha creato in questo povero ricco una tristezza così profonda che si riversava sugli altri. Tristi, scoraggiati, disperati, dicevano tra di loro: “e chi può essere salvato?”

            Fratelli e sorelle, questa tristezza creata dalla Parola di Dio nel cuore dell’uomo ricco è santa. Desiderarla sarebbe imprudente e orgoglioso, ma è chiaro che anche noi dobbiamo essere pronti ad accoglierla nel nostro cuore, quando Gesù vorrà suscitarla. Questa tristezza è infatti segno dell’affanno del cuore e nel Regno di Dio si può entrare soltanto con il cuore affranto.

            L’uomo ricco si presenta davanti al Signore come tutti noi. Anche noi corriamo incontro a Gesù, ci gettiamo in ginocchio davanti a Lui, per imparare dal Maestro buono che cosa dobbiamo fare per avere in eredità la vita eterna. Questo comportamento ci sembra giusto e santo, ci sembra la manifestazione del nostro desiderio di santità. Però, è del tutto sbagliato. E’ Gesù che ci corre incontro, è Lui che si mette in ginocchio davanti a noi pèer lavarci i piedi. Non siamo noi a giudicare chi è buono e chi è cattivo, ma sarà Gesù a farlo. Noi non solo non possiamo meritare la vita eterna, ma nemmeno averla, possederla, perché la vita eterna è Dio stesso. E’ Lui che ci ha, che ci possiede: “del Signore è la terra e quanto contiene; il mondo con i suoi abitanti” (Sal 24). Che orgoglio terribile, dunque, si nasconde a volte nel desiderio di possedere la vita eterna!

            Ma fortunatamente il nostro comportamento sbagliato non è un ostacolo per Cristo, come non lo è il comportamento del ricco. Gesù non si aspetta che siamo pronti ad accogliere la sua grazia, perché non lo saremo mai. Ma dove abbonda il peccato, sovrabbonda la grazia del Signore. Vedendo dunque l’uomo ricco prigioniero della sua perfezione e convinto di non aver mai peccato, Gesù fissa su di lui il suo sguardo misericordioso, lo ama e frantuma il suo cuore. Mette quest’uomo ricco e affamato di perfezione, davanti a quella perfezione che supera le capacità umane. Com’è povero questo ricco mentre vede il suo desiderio sbriciolarsi e spezzarsi. Se ne andò, ma sono quasi sicuro che nel cielo conosceremo i grandi frutti di questa umiliazione.

            Anche per noi le parole che il ricco ha ascoltato sono una bella lezione di umiltà e devono rattristarci almeno un po’. Gesù ha detto che, per avere un tesoro in cieli, non dobbiamo possedere nulla sulla terra. E noi invece abbiamo molti beni! Anche se usiamo i beni del mondo, come se non li usassimo pienamente e anche se li compriamo, come se non li possedessimo, abbiamo ancora tante cose. Il nostro linguaggio ci tradisce: ha trent’anni, ho molti amici, ho tante cose da fare; ho ragione, ho diritto. Abbiamo anche fame, freddo e sonno. Pare che non ci sia niente che non possiamo possedere. E Gesù vuole che vendiamo tutto questo per salvarci?  Tutto – e se mi permettete di scherzare un po’ con la lingua di Dante – , direi che dobbiamo vendere e lasciare tuttissimo. Allora, abbiamo davvero tutte le ragioni per essere tristi: chi può essere salvato?

            “Figli, quanto è difficile entrare nel Regno di Dio!” Dicendo queste parole, Gesù non pensava soltanto al nostro ricco, ma sicuramente anche al proprio cammino verso la vita eterna, alla povertà infinita che Lo aspettava sulla croce. “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio!” La povertà totale del Crocifisso, la sua spogliazione che gli apre le porte della vita eterna, è opera di Dio. Nello stesso modo il nostro cammino verso il cielo deve essere opera della Grazia. Tutto è grazia!

            Fratelli e sorelle, la nostra salvezza è grazia, dono puro. Esige da noi soltanto l’umile accettazione della volontà della volontà di Dio, e questo significa per noi la povertà totale. La Parola di Dio rattristerà e spezzerà i nostri cuori, come si frantuma il vaso di argilla, fino al momento in cui con tutto il nostro cuore diremo “Amen. Vieni Signore Gesù”. In quel giorno la nostra gioia sarà piena e perfetta, perché la nostra debolezza e la misericordia del Signore si incontreranno, la tristezza e la gioia si baceranno. Amen.

 

mercoledì 7 ottobre 2009 - Beata Vergine del Rosario - fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

     La memoria liturgica odierna, che celebra la Beata Vergine del Rosario, inizialmente si chiamava Santa Maria della Vittoria in ricordo della vittoria di Lepanto nel 1571, che arrestò la grande espansione dell’impero ottomano. San Pio quinto attribuì la distruzione di due terzi della flotta turca, che minacciava Italia e Spagna, alla preghiera che il popolo cristiano aveva rivolto alla Vergine con la recita del rosario. Oggi ci vergogniamo forse un po’ dei nostri antenati nella fede, che avevano l’audacia di coinvolgere la Regina della Pace nelle loro guerre, perché ci sembra che lo sviluppo della cultura del dialogo è una buona ragione per essere fieri di noi stessi. La nostra condanna della guerra e la nostra consapevolezza che Dio non la vuole mai sono ovviamente giuste, ma forse in rapporto ai cristiani dell’epoca di Lepanto siamo più poveri nella fede viva, che dà il vero spazio a Dio in questo mondo.

     Abbiamo a poco a poco conosciuto tante leggi che governano il mondo, che ormai non è più così misterioso per noi. Tecnica e socio tecnica ci spiegano i meccanismi della natura, dell’uomo come individuo e della società intera. Dio è come il grande architetto di tutto questo, lo lodiamo ed ammiriamo, però la sua presenza non ci è necessaria, così come non lo è la presenza dell’architetto, che ha costruito la casa in cui viviamo. La realtà ci sembra già determinata e sottomessa alle sue leggi. Cerchiamo di conoscerle per controllarle, e quando non ci riusciamo, osiamo sperare che verrà Dio a bloccarle, facendo qualche miracolo per noi.

     I cristiani dell’epoca di Lepanto grazie alla loro fede nella Vergine, che partorisce il suo Creatore, erano giunti a conclusioni estreme: la realtà è libera, sempre nuova, perché Dio nella sua libertà infinita la crea all’infinito. Se ha potuto creare la sua nascita dalla donna, può creare tutto. Per questo san Pier Damiani disse che Dio avrebbe potuto evitare non soltanto la caduta di Gerusalemme per mano dei Romani ma addirittura avrebbe potuto fare in modo che l’evento storico già avvenuto non si fosse mai realizzato. Per questo la gente pregava meditando nel Rosario i misteri di Cristo e di Maria, convinta che fosse l’unione con Dio a cambiare il mondo e non la conoscenza della tattica militare. E se un domenicano polacco – come ho sentito dire – prega ora il Signore per il Concilio di Efeso del V secolo, ci sono sempre cristiani che credono che Dio non abbia lasciato il mondo, ma sia sempre qui, e che il mondo esista nell’eternità di Dio e non in se stesso, fuori di Lui.

     Fratelli e sorelle, l’invito di Cristo alla preghiera per il pane quotidiano è per la Chiesa il perpetuo ricordo della presenza di Dio nostro Padre in questo mondo. Tutto riceviamo dalla sua mano, niente è nostro, né la vita, né il mondo. Con Maria meditiamo dunque tutto ciò che succede nella nostra vita per trovare Dio ed entrare in unione con Lui. Dalla nostra preghiera dipende la salvezza del mondo. Amen.

 

Domenica 4 ottobre 2009 - XXVII Domenica T.O. - fr. Massimo-Maria FMJ 

 

    Potremmo pensare che la pagina evangelica di questa domenica riguardi esclusivamente coloro che tra i discepoli di Gesù vivono nel matrimonio. In realtà, questa Parola che oggi risuona in tutta la Chiesa, riguarda, interpella, coinvolge  tutta la Chiesa.

Questa Parola è luce, è nutrimento e dono per tutta la Chiesa, per tutti coloro che formano il popolo santo di Dio.

   Certo è vero che Gesù parla, nel nostro testo, della relazione matrimoniale, della relazione uomo-donna, tuttavia in queste sue parole possiamo scoprirvi un prezioso insegnamento per quella che è la vocazione radicale e profonda di ogni credente, di più di ogni uomo: la vocazione ad amare.

   Con non poca sorpresa scopriamo che se c’è un campo in cui il Signore ci appare rigoroso e persino esigente, è proprio il campo dell’amore.

   Questo può sembrarci strano infatti, paradossalmente, se c’è un ambito in cui l’uomo si scopre particolarmente fragile è proprio nell’amare. Non è forse vero che quando nasce un’amicizia, un affetto, l’amore, il cuore dell’uomo teme l’illusione, ha paura d’impegnarsi, sa che rischia di collezionare ancora una delusione, presagisce delle difficoltà?

   Questo è vero per gli affetti, per le relazioni amicali o parentali ma certo particolarmente per le relazioni matrimoniali. E’ stato così sempre, in tutti i tempi ed anche al tempo do Gesù, I discepoli infatti, pongono sull’argomento domande al Signore sperando segretamente magari che il loro giovane Maestro, chissà – diremmo oggi più aperto -, donasse al proposito una risposta o delle indicazioni più indulgenti, più comprensive.

   Al contrario Gesù è di una chiarezza estrema, risultando addirittura più esigente di quanto lo sia stato Mosè che – dichiara Gesù – ha dato la norma del ripudio a causa della durezza del cuore. Anzi il Signore aggiunge una ragione contro cui ogni reticenza, obiezione, possibilità di scorciatoie sono inesorabilmente infrante: “ L’uomo non separi ciò che Dio ha unito”.

   Lo sottolineiamo: ” Ciò che Dio ha congiunto”. Questo dice chiaramente che quando l’uomo e la donna nel caso del matrimonio, si sono impegnati nell’amore non l’hanno fatto da soli, Si sono impegnati in Dio. Chi infatti si impegna nell’amore lo fa in Dio sempre e non lo può fare che in Dio poiché Dio è amore.

   Fratelli e sorelle chi crede in Dio, chi conosce qualcosa di lui ha almeno presentito un poco del suo amore sa che in qualsiasi amore umano: matrimoniale, amicale, parentale, vi è qualcosa di Dio. E quando si è conosciuto Dio, quando si è sperimentato un poco del suo amore gratuito quando si incontra questo tema si sa bene che si incontra Dio e che per questo non si può amare per gioco, solo per un certo tempo e senza impegnarsi in tutte le esigenze e rigorosità dell’amore. Amare allora significa amare sempre, per sempre e malgrado tutto, qualunque torto si possa subire, qualunque amara delusione o profonda ferita si possa ricevere. L’amore è da Dio, tocca Dio, impegna Dio, sempre chiama in causa Dio.

    Amare così, per sempre, senza sconti e senza riserve come è possibile? La realtà sotto gli occhi di tutti non ci prova l’esatto contrario? Matrimoni in frantumi, amicizie ferite, legami parentali superficiali e fragili e spesso interrotti sono l’esperienza di tanti.

   Dobbiamo riascoltare la precisazione di Gesù“ Ciò che Dio ha congiunto”. Gesù dice questo a proposito del matrimonio, ma più profondamente a proposito dell’amore. Questa Parola del Signore ci permette allora di cogliere a proposito dell’amore una luce particolare e di importanza notevole.

  Entrando nel mistero dell’amore come credenti entriamo nel gioco di Dio, nella sua stessa vita e il garante è Lui che per primo ogni giorno ci offre il suo amore gratuito che legittima e rende possibile amare. E’ Lui, se glielo permettiamo, che rende possibile a noi amare come ama Lui. Come? Ci chiediamo un po’ attoniti e increduli

   Dio fa tutto questo iniziandoci poco per volta alle consuetudini del suo amore. Poiché è proprio dell’amore essere puro dono e perdono, Lui per primo non tiene conto dei nostri sbagli, ma li affonda nel suo amore; non è in collera per le nostre dimenticanze e superficialità; non tiene conto dei torti, non si vendica mai dei colpi bassi, ama sempre e di più cioè perdona. Perdonare infatti è essere davvero più forti nell’amore addirittura il perdono permette all’amore di crescere ed approfondirsi.

   Saper perdonare significa accettare l’altro nei suoi difetti amarlo nella realtà di quello che è e non di quello vorremmo egli fosse. Tutto ciò Dio fa con noi sempre, costantemente e per primo.

    Fratelli e sorelle cimentarsi nell’amore equivale a cimentarsi con Dio. E questo lo abbiamo capito non riguarda solo il matrimonio, ma ogni vocazione. Più in una vita ci sarà Dio più ci sarà amore e amore vero.

   Se poi abbiamo l’impressione o facciamo l’esperienza che amando così non ci tornino i conti non dimentichiamo che i conti non devono tornare poiché non sono tornati nemmeno a Gesù. Piuttosto non stanchiamoci mai di amare e perdonare perché così dimoriamo in Dio e con Lui collaboriamo all’avvento del suo Regno.

Amen

 

mercoledì 30 settembre 2009 - San Girolamo - XXVI settimana T.O. - fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

     Mi sembra, che la memoria di San Girolamo, il grande intellettuale e monaco del quarto secolo innamorato della Bibbia, ci permette oggi di lasciare un po’ da parte le letture bibliche che la liturgia ci propone di meditare, e di fermarci sull’insegnamento di Girolamo a proposito della natura stessa della sacra Scrittura. San Girolamo ha scritto tantissime pagine sulla Bibbia, ma prendiamo soltanto una sua frase, probabilmente la più conosciuta: “ignorare le Scritture è ignorare Gesù Cristo”.

     È significativo, che queste parole aprono il suo commento al profeta Isaia, cioè a un libro dell’Antico Testamento. Può sembrare, che per conoscere Cristo basti conoscere i testi, che parlano della sua vita, del suo insegnamento e dei suoi miracoli, della sua morte e della sua risurrezione e che ci si possa accontentare della conoscenza dei più importanti passaggi del Nuovo Testamento, che spiegano il mistero di Gesù Cristo... Tuttavia San Girolamo era convinto che l’ignoranza delle Scritture – qualunque brano biblico – è sempre ignoranza di Gesù Cristo. Perché tutta la Scrittura, ogni frase e ogni parola della Bibbia, parla di Lui. Origene e dopo di lui Sant’Agostino confermano, che nella Bibbia niente è senza significato, ogni parola – anche gli articoli – ci rivelano il Cristo.

     Il primo dei quattro torrenti che irrigavano l’Eden si chiamava Pison (Gn 2,11). Rachele, figlia di Làbano, era una pastorella (Gn 29,9). L’arca di legno di acacia fatta da Besalèl aveva due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezzo di larghezza, un cubito e mezzo di altezza (Es 37,1). Miriam, sorella di Mosè, morì a Kades. Salomone costruì una flotta a Esion-Ghèber e il cane correva dietro a Tobia mentre tornava da suo padre. Se San Girolamo credeva che ignoranza di una di queste frase è ignoranza di Cristo, chi è dunque Cristo?

     Fratelli e sorelle, il Cristo è il nostro tutto. Esiste dal principio e tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste (Gn 1,3). Il suo volto si vede in tutto, altrimenti vuol dire che non si vede ancora pienamente. Da questo si può sapere che uno conosce il Cristo, che ammira e ama tutto ciò che esiste vedendo anche nelle cose più banali il loro Creatore, così come uno dei protagonisti di Chesterton, un monaco, che imprigionato in una cella vuota, nella quale non si trovava assolutamente niente, eccetto un palo piantato nel muro, lo contemplava con gli occhi spalancati e luminosi e pieno di un’ammirazione pura e infantile, ripeteva: il palo sporge. La conoscenza del Cristo ci dà questa splendida riconciliazione con tutto il creato, che per molti può sembrare pazzia.

     É per questo, che la Bibbia è la rivelazione del Cristo in ogni sua frase e nel suo complesso, perché in modo meraviglioso contiene in se ed unisce tutto ciò, che esiste: la storia e la sapienza, le preghiere degli uomini e le risposte di Dio, le cose sante e quelle peccaminose, quelle elevate – Dio è amore – e quelle banali – il vino allieta il cuore dell’uomo. La Bibbia esprime nelle parole umane l’opera divina della creazione e della salvezza del mondo. Come tutte le cose, che esistono, sono per noi un solo universo, che ci rivela il Creatore, così tutte le sacre Scritture sono un solo Libro, che ci svela la Parola di Dio, il Cristo. Ignorare le Scritture, ignorare una frase della Bibbia è dunque ignorare il Cristo.

     Fratelli e sorelle, per concludere mi permetto di aggiungere all’insegnamento di San Girolamo le parole che un ebreo polacco ha ascoltato nella sua giovinezza dal nonno: “leggerai la Bibbia ogni giorno, la abiterai, la amerai più dei tuoi genitori e più di me”. Questo vale anche per i cristiani. Amen.

 

Domenica 27 settembre 2009 -XXVI Domenica TO  B – fr. David FMJ

Nm 11, 25-29 ; Sal 18 ; Gv 5, 1-6 ; Mc 9, 38…48

 

     Chi è per noi ? Chi è contro di noi ? È questa domanda spiacevole che l’apostolo Giovanni fa al Signore Gesù. Domanda spiacevole perché esclusiva in quanto definisce un dentro e un fuori. Siamo ormai abituati a pensare che questo tipo di domanda è fonte di conflitti. E i fatti, la storia, le nostre esperienze personali confermano spesso quest’analisi. Definire un gruppo umano, un’appartenenza, questo è, almeno potenzialmente, escludere, e escludere è esercitare una forma di costrizione, anzi di violenza. Si tratta qui di una prospettiva che non ci piace. Eppure, dobbiamo riconoscere, fratelli e sorelle, che il Signore Gesù utilizza questo tipo di discorso. Ha fatto ricorso a delle immagini che si riferiscono all’essere buttato fuori, all’essere escluso per sempre da una comunità che egli riconosce sua. Non dobbiamo censurare il Signore Gesù, fratelli e sorelle. E per poter ascoltare le parole terribili del Maestro nel Vangelo di oggi, è senza dubbio utile chiederci perché il discorso esclusivo ci piace così poco.

     C’è in primo luogo una ragione basilare. Non riguarda Dio, ma piuttosto noi stessi. Il discorso esclusivo non ci piace perché abbiamo paura di noi stessi. E abbiamo ragione di avere paura di noi stessi. Le lezioni della storia ci insegnano che abbiamo la facoltà terribilmente distruttiva di escludere certe categorie di persone in modo tale che queste non vengono più considerate come esseri umani. La radice delle stragi di cui l’umanità è capace, anche dove la cultura cristiana esercita un’influenza, è nella menzogna che nega la dignità umana dell’altro. Questa lezione della storia, la impariamo anche, purtroppo, considerando la nostra storia personale e facendo il nostro esame di coscienza. Chi, tra noi, può dire che non gli è mai accaduto di escludere dalla sua considerazione l’esistenza di qualche persona? Le cattiverie tra i bambini nell’ambiente scolastico, le menzogne e i conflitti familiari, le rivalità coniugali, le ambizioni e la gelosia nelle comunità, tutto ciò è pieno di queste eliminazioni mentali a causa delle quali qualcuno non conta più, è messo fuori gioco, è escluso dal diritto di esistere pienamente accanto a noi, gli è impedito di fare sentire la sua voce. Non c’è nessuna giustificazione possibile a questi comportamenti. Il Signore Gesù stesso è stato la vittima più grande dei nostri decreti di esclusione. Lui, l’unico innocente di tutta la storia (assieme alla Vergine Maria), ha eliminato con la sua carne il muro dell’odio, come afferma la lettera agli Efesini. Pecchiamo ogni volta che ricostruiamo questo muro.

     Tuttavia, è possibile evitare ogni esclusione, qualunque essa sia? Questa domanda può risuonare come una provocazione dopo ciò che abbiamo detto. Eppure, c’è da chiedersi se il rifiuto contemporaneo di ogni discorso esclusivo non nasconda, a volte, un disagio, o una insufficienza. C’è forse un segno di cattiva salute psicologica nel non ammettere che la Chiesa determini un dentro e un fuori. Questo significa che perdiamo la capacità di assumere con chiarezza e con decisione un’identità ben precisa. La paura di definire se stessi è una paura di esistere in pienezza, con il rischio che questo comporta, cioè il rischio di non essere d’accordo, di non essere capiti, di dover prendere la responsabilità di non ammettere tutto, di essere obbligati a distinguersi. Ma un disagio più profondo è in azione. Abbiamo paura di deciderci. Molto spesso evitiamo di essere veramente qualcuno per vivere in un’ambiguità in cui tutto rimane possibile perché riteniamo lontano da noi tutto ciò che potrebbe esigere troppo da noi. Ora, il Cristo esige che ci decidiamo per lui. Lo esige non soltanto dal punto di vista morale, ma con la sua esistenza tutta spesa per noi. Il Cristo viene verso di noi con una chiamata, un’alleanza, un dono. Il Cristo non è una presenza neutra, ma ci ama e l’amore chiede una risposta, una decisione.

     Fratelli e sorelle, possiamo guardare la comunione eucaristica come il luogo in cui Dio stesso viene in nostro aiuto per darci la capacità di decidere di credere, di vivere e di amare. Facciamo inevitabilmente l’esperienza che le nostre decisioni, anche le più importanti, rischino di non scendere nel più profondo di noi. Non possiamo mai essere sicuri di non avere qualcosa di noi che non sia dissimulato, tenuto fuori dalle nostre decisioni, dalla nostra identità. L’atto sacramentale della comunione ci raggiunge nel profondo. È il corpo stesso che è impegnato, con la dinamica fondamentale ed elementare della fame. Abbiamo fame di Cristo, della libertà che ci porta, della chiarezza che ci comunica. Egli ci dia di appartenergli in verità. Saremo allora realmente esseri di comunione. Non negando le differenze, non rifiutando di avere un’identità definita, ma proponendo a quelli che vivono accanto a noi un cammino da percorrere insieme, un cammino che è il Cristo stesso.

 

sabato 26 settembre 2009 - XXV settimana T.O. - fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

     La Parola di Dio, come la pioggia e la neve, non ritorna a Lui senza aver operato ciò che desidera e senza aver compiuto ciò per cui l’ha mandata (Is 55,11). Per questo il Cristo, che è la Parola fatta uomo, non si arresta su nessuna delle sue opere, ma tende sempre verso l’opera perfetta, quella desiderata da Dio. Non si contenta delle guarigioni, né della moltiplicazione del pane. Non è soddisfatto, non gli basta scacciare i dèmoni, né di far ritrovare la pace ai peccatori. Sa, che è venuto per creare qualcosa di ancora più grande, per compiere l’opera, che sarà al di sopra di tutte le opere compiute fino allora. Sapendo questo la Parola di Dio ci rende oggi partecipi del suo cammino, vietandoci di trovare la gioia nelle cose, che pur essendo belle e meravigliose non sono che l’annuncio e l’assaggio dell’opera veramente grande.

     Tutti sappiamo, che si tratta dalla croce del Signore: è lei, il fatto mai raccontato a noi e che mai avevamo udito (Is 52,15). È l’opera nuova della Parola di Dio, sconosciuta e non-esistente fino ad allora. Qoèlet il sapiente, cha ha conosciuto tutte le opere di Dio, diceva, che non c’è niente di nuovo sotto il sole. Credeva, peraltro giustamente, che Dio sostiene ininterrottamente l’esistenza del mondo con la sua Parola, che ripete l’atto creatore all’infinito. “Quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà: non c’è niente di nuovo sotto il sole” (Qu 1,9). Così, quando la Parola di Dio creava la croce, “il sole si era eclissato, oscurato (Lc 23,45)”, perché sotto il sole niente di nuovo può succedere. Ma quando tutto è compiuto, il sole ritorna al suo posto. Brilla sopra il mondo arricchito da quest’opera nuova, per essere come prima il custode della sua stabilità: quel che è stato – la croce – sarà e quel che si è fatto si rifarà”. Con la croce la Parola di Dio ha aperto la porta del cielo, che non sarà mai chiusa e farà nascere alla vita di Dio la folla immensa dei santi e delle sante.

     Fratelli e sorelle, vedendo e ammirando tutte le cose che la Parola di Dio sta facendo in noi, in tutti e in tutto, mettiamoci bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini, per non dimenticare mai che la croce è l’opera che la Parola vuole compiere in noi. Anche se ora la meraviglia della croce resta per noi così misteriosa che non ne cogliamo il senso, la Parola di Dio non ritorna a Lui senza aver operato ciò che desidera e senza aver compiuto ciò per cui l’ha mandata. A poco a poco, con la sua tenerezza infinita Dio creerà la nostra croce, come ha creato la croce di Gesù e di Cosma e Damiano, il cui martirio la Chiesa ricorda oggi, perché desidera ardentemente introdurci nella pienezza della vita. Aspettiamo con gioia e nella pace quel giorno. Amen.

Domenica 29 settembre 2009 - XXV Domenica T.O. - Mc. 9, 30-37 - fr. Marek FMJ

Fratelli e sorelle,

     Sono sicuro che ciascuno di noi ha sentito parlare oppure ha letto qualche cosa scritta da qualcuno che annunciava al mondo intero “la verità sulla Chiesa e sul Cristo Gesù” dicendo, che il Gesù “vero e storico” è totalmente diverso da quel Gesù, nel quale la Chiesa crede. Tali uomini, un tempo chiamati ‘eretici’ e ora ‘pensatori controversi’, fondano le loro tesi sul fatto, che c’erano due dottrine insegnate da Gesù – l’una, accessibile a tutti, chiara e predicata davanti alle folle, e l’altra soltanto per i più vicini, gli eletti, gli iniziati. Naturalmente questa seconda è più preziosa e importante, ma – come credono questi cosiddetti ‘pensatori controversi’ – la Chiesa l’ha abbandonata, nascosta e ha fatto di tutto per distruggerla. Le fantasie sul contenuto di questa dottrina segreta di Gesù sono ovviamente infinite e si vendono molto bene, ma parlarne durante l’omelia sarebbe una perdita di tempo. Però l’esistenza dell’insegnamento di Gesù destinato soltanto agli orecchi degli iniziati è un fatto. E poiché di questa dottrina segreta di Cristo ci parla oggi il Vangelo, fermiamoci un po’ a meditarla.

     Gesù attraversava la Galilea rimanendo nascosto. La causa di questo comportamento era l’insegnamento che voleva trasmettere soltanto ai suoi discepoli, ciò che sarebbe stato impossibile, se la gente avesse saputo che Gesù era presente nel paese. Marco ci parla dunque di questa dottrina nascosta, che disturba anche oggi la mente di tanti. Quale ne è il contenuto? Di che cosa parlava Gesù soltanto in segreto? “Diceva loro: il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”. La dottrina riservata agli eletti è dunque la sapienza della croce. Mi sembra che non sia questo che speravano di scoprire i nostri ‘pensatori controversi’, ma questa è la verità. Essi possono esserne un po’ delusi, ma per coloro che cercano la verità con cuore aperto e sincero, le parole di Marco Evangelista sono fonte di grande saggezza. Ci insegnano infatti, che il cuore, il nucleo, l’essenziale della dottrina del Salvatore – cioè la cosa più difficile da capire – è la sapienza della croce.

     Gesù la trasmetteva nel segreto non perché non voleva che gli altri la conoscessero, ma perché è la natura di quest’insegnamento che lo richiede. La croce non è sapienza di questo mondo, non si può dunque impararla per mezzo di discorsi umani. È significativo, che anche i discepoli istruiti nel segreto dal Verbo incarnato in persona non potessero – come leggiamo nel Vangelo di oggi – capire le sue parole. Il fatto, che Gesù insegnava ai suoi discepoli in disparte, serve a mostrare chiaramente, che per rivelarci il cuore del messaggio evangelico, che è la sapienza della croce, è necessario che la Parola di Dio entri nell’intimo del nostro cuore. È per questo che Gesù parlava della sua Passione nel segreto. E quando i discepoli non capiscono, tocca con la sua domanda i loro cuori per far risuonare la Parola di Dio ancora più profondamente in loro.

     Chiese loro, quando erano in casa: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”. Ma essi tacevano. Questo silenzio era il segno della presenza della Voce di Dio in loro, di quella Voce che spiegava come è stupido cercare di essere più grandi degli altri. In questo silenzio delle bocche dei Dodici, che era segno dell’ascolto della Parola nell’intimo del cuore, Gesù ripete il suo insegnamento sul Figlio del uomo, che si consegna nelle mani degli uomini, dicendo, che il primo fra gli uomini sarà l’ultimo di tutti e il servitore di tutti. E quando vede che le parole non bastano ancora per spiegare la sapienza della croce, sedutosi sulla terra mette davanti à se un bambino, lo abbraccia e seduto così, con un bambino fra le braccia, continua il suo insegnamento. Mi sembra che quest’immagine del Maestro, che sedendo in terra tiene nelle sue braccia un bambino, sia una delle più belle spiegazioni del mistero della croce. Forse i discepoli si sono ricordati quest’immagine, quando guardando il Cristo abbracciare il mondo intero – che è il suo bambino, la sua creatura – con le braccia stese sulla croce. Perché la croce non è morte, ma accoglienza della vita.

     Il bambino, fratelli e sorelle, è in un certo senso la rivelazione della vita stessa. Non parla, non ha coscienza, non sa far niente, e prima di nascere è invisibile. Alcuni dubitano se sia già un uomo, e tutti sanno che non è ancora adulto, non è l’uomo completo ed autonomo. Per questo si può vedere nel bambino così facilmente la vita stessa, perché questa non è ancora velata dai suoi frutti, non si nasconde ancora sotto un corpo forte, l’intelligenza, le parole, la capacità d’agire. Guardando il bambino, si vede la vita, così come guardando la croce. Il bambino, così come il Figlio dell’uomo è consegnato nelle mani degli uomini, perché tale è la natura della vita stessa: darsi, offrirsi, immolarsi. Però proprio come essere piccolo bambino, dipendente totalmente dagli altri, non sembra essere il più grande desiderio del cuore umano, così la croce ci fa un po’ paura. Ma Gesù è il Maestro buono, che sa introdurci nel mistero della croce. Fa questo, rivelandoci con parole segrete che raggiungono intimo del nostro cuore, che la croce è la vita, la vita stessa, la vita eterna e per gli uomini è la porta verso la risurrezione.

     Fratelli e sorelle, ecco la dottrina segreta di Gesù Cristo destinata soltanto agli eletti, ma che tutti sono invitati ad accogliere. Celebriamo dunque con gioia e con cuore aperto i santi misteri della nostra fede, per ricevere la salvezza offerta a tutti dal Cristo crocifisso e risorto. Amen.

 

 Domenica 13 settembre 2009 – XXIV Domenica del T.O. – fr.Massimo-Maria FMJ

 

            Spesso, i Vangeli ci dicono che lungo la strada Gesù dialoga con i suoi discepoli. L’episodio che il Vangelo oggi ci riporta, della conversazione vicino ai villaggi di Cesarea di Filippo, sempre ci sorprende, anche se la conosciamo bene.

            Ci sorprende perché la domanda del Signore: “voi chi dite che io sia?” non è solo per i discepoli, ma costantemente rivolta a ciascuno di noi, lungo il cammino delle fede, lungo il cammino della vita dietro a Gesù, il Signore.

            A questo interrogatorio, quel giorno nei pressi di Cesarea di Filippo, Pietro dona una risposta ineccepibile: “tu sei il Cristo!” Per Pietro Gesù è il Messia, l’Inviato di Dio. Lui, come gli altri discepoli, non aveva esitato a lasciare moglie e casa, barca e reti per seguire quel giovane Maestro passato un giorno ungo le rive del lago di Tiberiade; ora, lui, Pietro, con la sua risposta breve e precisa potrebbe potersi vantare di sapere bene chi è Gesù. Eppure a Pietro c’è qualcosa di importante che sfugge, manca ancora qualcosa. Il significato che lui dà a questa parola “Messia” non è la stessa che gli attribuisce Gesù. Lo comprendiamo bene dal seguito del racconto.

            Dopo la solenne e precisa professione di fede di Pietro, Gesù misteriosamente inizia a parlare di passione, di offerta della vita, di croce, di morte.

            Pietro, che certo aveva pensato al Messia glorioso, potente, che avrebbe incarnato i criteri di un  messianismo politico, potremmo dire facile e mondano, ora tentenna!

            Ma ancor, Pietro che nutriva ormai un umano affetto per Gesù, il suo Maestro, il suo Rabbi, non può accettare una tale idea! Ed ecco che si lancia nella disavventura di dare consigli a Gesù, lo rimprovera “questo non accadrà mai!”

            La reazione di Gesù è immediata e decisa: “va dietro a me Satana” il tuo pensiero è umano, non è conforme a quello di Dio. E poi Gesù approfitta per chiarire a tutti le idee, per essere sicuro che chi andava dietro a lui avesse proprio capito, avesse chiare le regole del gioco, proclama “Se qualcuno vuole venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.” La vita la si salva perdendola per Lui e per il Vangelo!

            Fratelli e sorelle, la domanda di Gesù ci raggiunge costantemente nella nostra vita. Anche noi, come Pietro, spesso siamo in grado, per questa grazia dello Spirito, di dare una risposta giusta, ma sovente, come Pietro, dietro alle nostre risposte c’ una logica umana continuiamo a pensare secondo gli uomini e non secondo Dio.

            Da ciò ne deriva che anziché metterci a seguire Gesù, pretenderemmo che Lui segua noi e quando Lui passa per una strada che ci sorprende, che è poi quella dell’amore e della donazione, non solo tentiamo di addomesticare il Vangelo, ma crediamo opportuno, se non proprio rimproverare Gesù, almeno presentargli le nostre rimostranze: “Signore, così non va! Così, Gesù, è troppo!

            Quante volte pensiamo che poiché Gesù è il Figlio di Dio, è Messia, è Salvatore e noi abbiamo accettato di andargli dietro, dovrebbe almeno avere un occhio di riguardo, dovrebbe non metterci in situazioni difficili, dovrebbe riservarci un trattamento speciale, dovrebbe diventare una sorta di assicurazione a vita contro la sofferenza, la malattia e tanto altro ancora! Ma Gesù è Messia certo, ma ciò non significa ciò che noi vorremmo. Non dimentichiamolo mai, Gesù è un Messia crocifisso, umiliato, che ha scelto di passare per una via diversa da quella del mondo, che ha scelto una logica che ci sorprende, che ha optato  per dei criteri che sono tanto diversi dai nostri. Sono logica, criteri vie dell’amore di Dio, non del mondo!

            Gesù Messia crocifisso ha scelto la via dell’Amore che passa per la strada della donazione gratuita di se stesso, incrocia il sentiero dell’offerta della vita perché  essa sola rivela il volto del Padre, conduce alla vita raggiunge alla gloria.

            “Voi chi dite che io sia?” ci ripete oggi Gesù!

            Il Vangelo ci rivela che non dobbiamo mai dare per scontato di conoscere fino in fondo la risposta, ma dobbiamo restare profondamente attenti al nostro posto di discepoli, restare dietro, camminare dietro di Lui, vincendo la tentazione di voler superarlo passandogli avanti. Camminando dietro a Gesù generosamente e con audacia provocherà l’imparare a pensare secondo Dio e non secondo gli uomini, divenendo capaci così di dare davvero la vita per Gesù e il Vangelo, amando nei fatti e nella verità, donando la vita, portando la croce dietro Lui, per conoscere la vita vera, per conoscere l’Amore del Padre, per giungere alla gloria che è preparata per i figli del Regno. 

 

 
 

giovedì 10 settembre 2009 – XXIII settimana T.O. – Lc 6, 27-39 - fr.Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

     Ascoltare, meditare e scrutare le sacre Scritture è un’azione santa e molto utile per l’uomo, perché le Scritture contengono la Parola di Dio e la Parola di Dio è fondamento del mondo, cioè la sua vita e il suo principio. Per gli uomini poi – a causa della loro somiglianza con Dio e della loro capacità di capire il Verbo – la Parola diviene luce e maestra di vita. Meditando le Scritture incontriamo dunque la Parola di Dio, nostro Creatore e nostro principio, e scopriamo con stupore, che non siamo noi che accogliamo la Parola di Dio, ma piuttosto che è la Parola che ci accoglie. Atanasio di Alessandria non esitava a dire: “Dio è Colui che è, gli uomini invece si costituiscono nel Verbo, nella Parola di Dio”. La nostra vita non è dunque opera nostra, ma opera del Verbo. L’insegnamento di Cristo che meditiamo oggi ne è la prova chiarissima.

     Gesù ha detto: “amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano”. Se volessimo accogliere queste parole come un comandamento, un ordine da eseguire, cercheremmo l’impossibile. Sarebbe sforzo vano, perché non riusciremmo mai a sfuggire tutte le obiezioni del nostro cuore e del nostro intelletto contro questo comandamento. Non riusciremmo mai a convincerci che l’amore dei nemici è la via verso la pace interiore, la gioia profonda e una vita felice. Non troveremmo mai in noi la forza necessaria ad accogliere questa parola e metterla in atto. Fortunatamente questo comandamento non è parola umana da accogliere, ma è Parola di Dio che ci accoglie e crea. “Amate i vostri nemici” non è per prima cosa un’esigenza morale, ma è la rivelazione del Verbo di Dio, che è Dio, ed essendo principio di tutto è anche la nostra vita.

     L’Altissimo – come Gesù ha detto – è benevolo verso tutti, verso gli ingrati e verso i malvagi. Nel Vangelo di Matteo il Cristo spiega questa benevolenza del Padre celeste con esempi molto concreti: “egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45). Tale è il principio del creato, tale è il Verbo di Dio, tale è la sua Parola e la sua logica, che è quello che i Greci chiamavano con una parola sola Logos: condividere, dare, offrirsi, immolarsi. Noi chiamiamo questo semplicemente amore, possiamo dunque dire che il sole, la pioggia e il mondo intero nascono costantemente, in ogni momento dall’amore di Dio, e per questo portano dentro di se la somiglianza con Lui. Il sole e la pioggia imitano il loro Creatore, esistono secondo il Logos di Dio e come Lui si offrono a tutti. In tutto il creato si può vedere questo riflesso dell’amore di Dio, ma è soltanto l’uomo che si è smarrito. Novantanove pecore – cioè il creato – restano nell’ovile, una sola pecora, l’uomo si è allontanato (Mt 18,12). L’uomo è caduto fuori della Parola e mentre Dio e il suo mondo esistono per dare la vita, l’uomo fa di tutto per salvarsela (Mc 8,35), vive per se stesso.

     Beati dunque i nostri orecchi che sentono queste parole di Cristo: amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, perchè sono segno della venuta del Verbo, della Presenza della Parola di Dio che è nostro pastore e ci cercava dai secoli. Ora sta trovando la sua pecora perduta e pieno di gioia se la carica sulle spalle (Lc 15,5). Dandoci il comandamento di amare i nemici, la Parola di Dio non esige da noi niente, ma ci accoglie e ci unisce a se stessa.

Fratelli e sorelle, anche se amare i nemici ci fa paura, rallegriamoci se Gesù ci chiama oggi ad essere misericordiosi come il nostro Creatore, perché questa chiamata è segno della venuta della salvezza. La Parola ci accoglie e ci crea di nuovo introducendoci nella vita stessa dell’Altissimo. Che nessuno abbia paura di amare i nemici! Che nessuno, sbagliando, si preoccupi che amare così sia al di sopra delle sue forze! L’amore dei nemici al quale la Parola di Dio ci chiama è la sua opera in noi. E dal momento che nessuno può resistere alla voce di Dio (Gdt 16,14) – come dice la Scrittura – ascoltiamo questo comandamento nella pace e con gioia e permettiamo umilmente, che il Verbo di Dio ci prenda sulle sue spalle e ci introduca nella vita stessa di Dio. Amen.

 

 martedì 8 settembre 2009 - XIII settimana T.O. - fr. Nicolas-Marie FEG

 

Lc 6,20-26

[20]Alzati gli occhi verso i suoi discepoli, Gesù diceva: "Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio. [21]Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi che ora piangete, perché riderete. [22]Beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v'insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell'uomo. [23]Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nei cieli. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i profeti. [24]Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. [25]Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame. Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete. [26]Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti.

 

Gesù ha scelto gli apostoli

E con loro scende dal monte, come Mosè,

per portare al popolo la nuova Legge.

Il popolo non poteva salire fino a Dio,

sarà Lui a scendere,

su un luogo pianeggiante,

umile e povero, come tutta la rivelazione di Dio in Gesù:

il fuoco, il terremoto e il vento impetuoso

si fanno brezza soave, come nel primo giorno nel giardino,

l’aquila (Es 19,4; Dt 32,11) si fa chioccia

che raccoglie la sua covata sotto le ali (cfr. 13,34).

Gesù solleva gli occhi verso i suoi discepoli:

ha preso l’ultimo posto,

sta in mezzo a noi come colui che serve,

e vuole incontrare ogni uomo,

far entrare ciascuno nella beatitudine.

Leva gli occhi, ci conduce a Dio

“Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio”

“Poveri sono quelli che hanno il poco necessario

con molta fatica”

Poveri sono quelli che sono nel bisogno,

che lottano per la vita!

Nella Bibbia la povertà era vista come uno scandalo e una maledizione.

Solo più tardi fu vista come condizione

Che porta a confidare umilmente in Dio.

Abbiamo bisogno di scoprire la nostra povertà,

di accoglierla, e di rallegrarcene:

siamo bisognosi di Dio!

Vogliamo vivere in povertà

Usando dei bene di questo mondo con sobrietà,

attraverso una vita semplice che sa gioire del poco necessario,

perché ha trovato l’unico necessario,

perché ha trovato l’unico necessario,

“la sola cosa di cui c’è bisogno “(cfr. 10,42)

e che nessuno ci potrà mai togliere:

Gesù, Regno di Dio venuto in mezzo a noi,

“unico tesoro e la sola speranza “della nostra vita,

come la liturgia delle professioni monastiche ieri ci ha ricordato in modo forte.

Il Regno di Dio ci viene aperto.

Un Regno nuovo che è “di Dio”,

e dunque non dell’uomo.

Ci conduce a un capovolgimento dei nostri valori!

E’ luce di Dio, sua misericordia, sua giustizia, sua pace,

di cui abbiamo bisogno di diventare mendicanti.

Per questo Gesù intona anche una lamentazione:

“Guai a voi, ahimé per voi, ricchi, perché già avete la vostra consolazione”.

Più che una condanna,

è un lamento di compianto,

perché tutti sono figli amati dal Padre.

Ahimé per voi che avete sicurezza e fiducia solo in questi beni,

che sono doni di Dio, ma che passano!

“Ognuno di noi è combattuto tra l’avere, il potere e l’apparire,da una parte,

e la chiamata del Signore alla povertà”

che è vera ricchezza perché ci apre al Regno.

 

Signore Gesù,

tu ti sei fatto ultimo,

tu sei il povero

che ha voluto ricevere tutto dal Padre.

Donaci di desiderare di seguirti

In una vita di povertà e di semplicità,

che sa renderti grazie per tutti i tuoi doni,

che gioisce nella tua presenza,

una vita nascosta nel tuo Amore,

cielo sulla nostra terra,

nostra gioia, nostra gioia piena!

 

(per espressa volontà del Fr. Nicolas, segnaliamo che alcune idee sono ispirate all’opera di  Silvano Fausti,  Una comunità legge il Vangelo di Luca, Bologna, 2001)

 

Domenica 6 settembre 2009 - XXIII Domenica T.O. Mc. 7, 31-37 - p. Pierre-Marie FMJ

 

Ben ascoltare per ben parlare

Il Vangelo di questa domenica ci insegna due verità interessanti:

la prima per dirci che Dio ci tocca con la sua mano,

e in questo modo ci salva.

La seconda per ricordarci che ci apre il cuore attraverso il suo insegnamento

e in questo modo rischiara le nostre vite.

 

L’uomo è innanzitutto qualcuno che Dio ha toccato con la sua mano.

E’ una immagine certamente, ma quanto eloquente!

La Bibbia ce lo insegna:

il Creatore ci ha innanzitutto modellato, plasmato dalla terra.

Noi siamo l’argilla e Lui il vasaio.

Questo primo contatto creatore è già tutto carico di senso.

 

Per salvarci sappiamo che Dio non ha agito differentemente.

Non l’ha fatto a distanza e senza intermediario.

Lui è venuto, è disceso verso di noi, si è fatto nostro prossimo.

Ci ha avvicinato, incontrato, parlato, toccato con la sua mano.

 

Molto di più, per significarci la nostra salvezza,

non ha cercato innanzitutto di raggiungere le nostre anime; ha toccato i nostri corpi.

Lo vediamo dappertutto nel Vangelo:

 

Egli tocca gli occhi dei ciechi, le orecchie dei sordi

prende la mano dei malati, della figlia di Giairo sul suo letto di morte.

Si lascia avvicinare dalla peccatrice, dalla Cananea, dalla folla che lo schiaccia.

Così, quando, ci dice il Vangelo di questa domenica,

gli presentano un sordo muto

pregandolo di imporgli la mano,

Gesù lo prende subito con Lui per mettergli le dita nelle orecchie

e toccargli la lingua con la sua saliva.

 

Fratelli e sorelle, il realismo di questa scena è ricco di luce e di senso:

L’Incarnazione di Dio tra noi non è un mito.

Il Verbo si è fatto carne. Il Totalmente Altro si è fatto simile a noi.

L’ Altissimo è venuto a dimorare tra noi.

Egli ci salva attraverso il suo corpo e persino nel nostro corpo.

Con la sua mano il Signore mi ha risollevato, canta la liturgia,

mi ha salvato perché mi ama!

 

Teniamo dunque la nostra mano nella sua,

la sua mano di Creatore,

la sua mano di Salvatore che ci ha riscattato,

la sua mano di accompagnatore che ci guida nel cammino.

Io dono la mia vita per le mie pecore…nessuno le rapirà dalla mia mano.

 

Solo il giorno in cui potremo dire che Dio ci ha toccato,

che ci ha ferito il cuore, come dice il profeta Amos,

noi sentiremo veramente quanto Dio ci ha amato in verità.

Allora la nostra fede, non è più cerebrale, volontarista, abitudinaria:

si vive nella forza e nella gioia di un cuore a cuore

con Dio che si è fatto uomo per fare di noi dei figli di Dio!

Il Vangelo di oggi ci insegna ancora che l’uomo è un essere

A cui il Signore vuole aprirgli le labbra ed il cuore.

Il proprio dell’uomo in effetti è che Egli possiede la parola.

Ma il tutto non è parlare. Ancor bisogna ben parlare.

Essere ben rischiarati, ben orientati, ben istruiti.

Ecco perché è scritto che noi siamo tutti istruiti da Dio.

Allora il Cristo è venuto proclamando: Effatà! Apriti!

Questo è stato detto a ciascuno di noi il giorno del nostro Battesimo.

Quel giorno il Signore ci ha trasmesso in un certo modo la sua parola.

La Sua Parola che è verità, luce e vita.

 

E’ lui il Verbo che ci insegna il senso della nostra vita,

poiché Egli è l’Autore di ogni vita;

ciò che c’è al di là della nostra morte, poiché Egli è il vincitore della morte;

come vivere nell’amore e nella pace,

poiché è l’Amore Incarnato e il Principe della Pace.

 

Effatà! Apriti! Non su un mondo di dubbio, di tenebra, di inquietudine,

ma di fiducia, di certezza e di pace.

Questa voce venuta dal cielo ci invita ad ascoltarlo e a seguirlo.

Ci invita addirittura a parlare in suo nome.

Una volta che il Signore ci ha aperto l’orecchio in effetti

Lui ci dona una lingua di discepolo.

Non siamo più incapaci di sentire né di parlare

E dandoci di ben sentire ci dona anche di ben parlare.

Ecco l’altro insegnamento del Vangelo di questo giorno.

 

Noi possiamo allora diventare artigiani di pace, poiché abita nei nostri cuori.

Camminare nella luce, poiché brilla nelle nostre anime.

Diventare seminatori di gioia, poiché Gesù ci ha donato la sua in dono.

Noi possiamo amare in atti e in verità

Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me.

Noi non siamo più né sordi né muti.

 

Fa', o Signore, che sia per ascoltare le meraviglie della tua legge d’amore

e per annunciare al mondo le tue parole di vita eterna.

 

Venerdì 4 settembre 2009 – XXII settimana T.O. – Lc 5, 33-29 – fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

     In Cristo e per Cristo, le cose vecchie sono passate e ne sono nate di nuove. Infatti, per i cristiani tutto è nuovo. Dio è come nuovo, perché in Cristo ha scoperto il suo volto sconosciuto fino ad ora, il volto del Padre misericordioso. Il mondo è nuovo, perché liberato in Cristo dall’ombra della morte canta la lode del Padre. E l’uomo è nuovo, perché non è più polvere, ma immortale figlio di Dio. È molto bella questa novità portata dal Cristo, la creazione nuova è veramente splendida! Perciò è ancora più difficile da comprendere, perché non è facile accoglierla. Non soltanto i non credenti incontrano difficoltà, ma anche i discepoli di Cristo Lo seguono non senza fatica e sforzo. Il Cristo ci spiega oggi questo mistero, dicendo che paradossalmente quest’odioso mondo vecchio, questa valle di lacrime, ci piace. È per noi, infatti, come vino vecchio, è gradevole e ameno.

     Naturalmente non si tratta qui del peccato. Non c’è affetto fra l’uomo e il male, perché Dio, con la sua parola creatrice, ha posto inimicizia fra la stirpe del serpente e quella della donna (Gn 3,15). Chiunque commette il peccato ne è il schiavo, e non amico (Gv 8,34). Non troviamo dunque nel male niente di gradevole, benché il peccato faccia parte del nostro mondo. Il mondo vecchio ci piace non a causa del peccato, ma malgrado il peccato.

     Il mondo vecchio ci piace, perché è nostro e non abbiamo altro. Anche se non è perfetto, è il nostro unico bene e l’abbiamo ricevuto da Dio. Per questo non si può essere condannati, se il mondo ci piace. Mi sembra, che anche Gesù ha dato questa immagine del buon vino vecchio per insegnarci, che il nostro legame col mondo è naturale, e non deve, ma può divenire ostacolo all’accoglienza del mondo nuovo.

     È significativo che Gesù parli del bere il vino vecchio che scoraggia e frena il desiderio di vino nuovo, nel contesto del digiuno e delle lunghe preghiere dei discepoli di Giovanni e dei farisei. È per loro che il mondo vecchio è divenuto vino gradevole, perché hanno creduto di scoprire la speranza di cambiarlo.

     Soprattutto i farisei credevano fermamente che con l’osservanza della Legge si potesse purificare il cuore umano dal peccato e restaurare il mondo giusto. Anche oggi tanta gente crede che si possa salvare il mondo vecchio, liberarlo dalla fame, dall’ingiustizia e dalla sofferenza: basta soltanto un po’ di buona volontà. La fonte di questa speranza è santa, perché è il comandamento del Creatore: dominate sulla terra. Ma quest’ordine non può essere eseguito dagli uomini separati da Dio, dai peccatori che siamo tutti noi. Per questo, l’uomo innamorato di questo mondo e convinto che può restaurarne la bellezza è semplicemente ubriaco, ha bevuto troppo vino vecchio. Mi sembra che tutti siamo un po’ così, e per questo è molto difficile accogliere il mondo nuovo.

     Il Cristo ci propone la novità totale: la terra nuova e il cielo nuovo, il comandamento nuovo e la nuova alleanza, il corpo nuovo e il nuovo modo di esistere. Tutto questo è per ora sconosciuto e possiamo averne un po’ paura, ma è per questo che ci è stato dato lo Spirito Santo, il vino nuovo, il vino delle nozze dell’Agnello uscito dal fianco dello Sposo, che ubriaca non meno del vino vecchio. Non mettiamo dunque ostacoli al nostro Sposo, che venga, che ci prenda e ci conduca alla nuova Gerusalemme. Amen.

 

martedì 1 settembre 2009 – XXII settimana T.O. Lc. 4, 31-37 - fr. Marek FMJ

 

      Il combattimento spirituale è una realtà quotidiana nella vita dei cristiani. È dunque provvidenziale che il Vangelo ci dia l’insegnamento su questo soggetto oggi, che cominciamo il nuovo anno di preghiera e di lavoro. La guarigione di un indemoniato ci rivela la natura della nostra lotta contro il Male e lo strumento della nostra vittoria.

      Soprattutto la nostra battaglia non è contro la carne e il sangue, ma contro gli spiriti del male (Ef 6,12). Il nostro nemico è infatti invisibile, è per noi come il vento: non possiamo vederlo, ma ne sentiamo soltanto la voce. L’uomo nella sinagoga cominciò a gridare forte, ma di solito questa voce del nemico è più sottile. Molto spesso è come il sussurro di una brezza leggera (1 Re 19,12), si mescola alle voci degli spiriti buoni e cerca di imitare la voce dello Spirito Santo. Per questo il campo di battaglia con il demonio è dunque il nostro cuore dove nascono dal soffio dello spirito diverse voci, i pensieri del cuore. Da loro cresce tutta la nostra vita: le parole della bocca, le decisioni della volontà ed i nostri atti.

      Guardiamo dunque un po’ che pensiero lo spirito impuro ha suscitato in quest’uomo di cui ci parla oggi il Vangelo, affinché possiamo più facilmente riconoscerne la voce, quando apparirà nel nostro cuore.

      “Basta” è la prima parola del demonio. Sembra essere innocente, infatti è come la spada che taglia il cuore di quest’uomo dall’insegnamento di Cristo. Il primo sforzo del demonio tende sempre ad interrompere l’ascolto della Parola di Dio. Senza di Lei l’uomo vive nelle tenebre profonde, è come pula che il vento, lo spirito disperde... Se il cuore umano accoglie questo “basta!” detto alla Parola di Dio, fa entrare nel suo cuore un’infinità di parole del nemico e non trova l’arma per difendersi.

      “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno?”. Il demonio chiama il Cristo con il nome umano, diminuendo il sua significato, e suggerisce che le sue azioni e parole hanno come scopo il suo proprio profitto. Dopo questo, accusa il Cristo: “Sei venuto a rovinarci?” e finisce per prendere il suo posto: “Io so chi tu sei!”. Tutte queste parole sono menzogna così profonda, che diventa molto difficile farla sparire. Come spiegare al cuore umano senza Parola di Dio, che Gesù di Nazaret è Figlio di Dio, venuto non per prenderci qualche cosa, ma per darci la vita? Come spiegare che è Lui che ci conosce, che sa chi siamo, e che ci permette di divenire santi? Senza Parola di Dio ogni parola umana è inutile e la discussione vana. Per questo la risposta del Signore alle parole del demonio è breve: “Taci!”. E il demonio uscì da lui, senza fargli alcun male.

      Fratelli e sorelle, questo “taci!” è strumento della nostra vittoria nel combattimento spirituale. Per vincere basta custodire il silenzio profondo nel nostro cuore per ascoltare con perseveranza la Parola di Dio. È Lei la nostra vita, è lo Spirito di Dio, da cui nasce la nostra santità. Preghiamo dunque il nostro Signore che ci conceda una vita serena e tranquilla, affinché possiamo ascoltare nel silenzio del cuore la sua Parola e vincere il Male. Amen.

 
martedì 28 luglio 2009 - XVII settimana T.O. - fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

     Il Regno dei cieli è per noi un mondo nuovo, un nuovo modo di esistere in cui vogliamo entrare e verso il quale siamo pellegrini. È già inaugurato in Cristo, per noi però resta oggetto di attesa e di speranza. È già venuto in Cristo, ma noi ogni giorno, anche tre volte al giorno, preghiamo supplicando che venga. E poiché il Regno dei cieli ci è promesso, quando ascoltiamo le parabole del Regno sappiamo che parlano della nostra patria e ci rivelano il nostro avvenire.

     La parabola della zizzania dice, che “il Regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo” e alla domanda degli Apostoli Gesù spiega, che quest’uomo è Lui stesso, il Cristo, il Figlio dell’uomo. Il principio del Regno e la sua origine è dunque il Figlio di Dio, il Verbo creatore, la Sorgente della vita, che ha seminato il suo seme in quel nulla che esisteva prima della creazione del mondo. Da questo seme è nato tutto: la luce e le tenebre, le acque e la terra. Ma soprattutto il suo seme sono – secondo la spiegazione del Cristo stesso – i figli del Regno, cioè i suoi figli, figli di Dio – gli uomini. L’uomo invece porta in se stesso l’immagine del Verbo come il bimbo porta in se l’immagine di suo padre. L’uomo cresce dal Figlio di Dio, come il grano cresce dal buon seme.

     Ma la parabola della zizzania parla anche di un nemico del padrone di casa. Non spiega da dove viene né perché vuole far del male, ma dice semplicemente, che “seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò”. Conosciamo abbastanza bene questo nemico, che non è capace di creare nulla, ma cerca di sviare tutto e di cambiare il campo di grano in una coltivazione di zizzania. Fa che l’uomo non sia più il Figlio del Regno, ma divenga il Figlio del Maligno.

     È significativo che nella parabola di Gesù la frontiera fra il bene e il male divide  alcuni uomini dagli altri: questi sono i figli del Regno, quelli del Maligno, mentre noi la collochiamo probabilmente in mezzo al nostro cuore. Noi non sappiamo, chi siamo. Anche il grande Socrate non sapendo giudicarsi si domandava: sono simile agli dei, oppure a Tifone, il mostro orribile? Ma per Cristo tutto è chiaro, perché lui vede il nostro cuore e sa da dove vengono i nostri pensieri ed i nostri atti.     

     Anche adesso il Verbo di Dio ci scruta e sa se in questo momento siamo i suoi Figli o no. Se viviamo della sua Parola, se la volontà di Dio è nostro cibo, se tutto ciò, che siamo adesso, cresce e sgorga dal Verbo di Dio, siamo davvero i figli di Dio. Ma se viviamo secondo la carne – come dice san Paolo – e non secondo lo Spirito, se non mangiamo il Corpo del Figlio dell’uomo, se non ne beviamo il Sangue, non abbiamo la vita in noi. Chi commette il peccato, chi non pratica la giustizia, chi non ama il fratello – ha scritto nella sua lettera san Giovanni – viene dal diavolo. L’uomo invece non è fonte né di santità, né di peccato, ma ne è il frutto. La sua esistenza cresce da Dio e dal suo Verbo ed allora è figlio del Regno, oppure non cresce da Lui, ma viene dal diavolo. Quest’uomo infatti è morto, come la zizzania legata dai mietitori per essere bruciata.

     Fratelli e sorelle, il fatto che viviamo come il grano dal seme di Cristo, significa che soltanto Cristo può giudicare l’uomo, perché soltanto Lui sa chi viene da Lui. Ma significa anche che l’uomo diviene figlio del Regno in un attimo, quando trova l’unione con Cristo. Mi sembra, che tutti viviamo per il brevissimo momento in cui potremo vivere questa unione profonda con Cristo, che Gli permetterà di dire una sola parola, e noi saremo salvati. Aspettiamo dunque con gioia e speranza la venuta della pienezza del Regno nella nostra vita. Amen.

 

Domenica 26 luglio 2009 – XVII domenica T.O. – fr. Massimo-Maria FMJ

 

            Il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci da parte di Gesù, così come lo riporta l’evangelista San Giovanni, potremo dire che lo conosciamo bene.

            Lo scenario è noto, semplice, abituale, familiare. Una sponda del lago di Tiberiade, i discepoli, la folla.

            Una folla che, affascinata da Gesù, ancora una volta gli corre dietro, lo segue come stordita, o piuttosto  sedotta, dai suoi segni e dalle sue parole. Lo segue sulla montagna, lo cerca sull’altra riva del lago, gli va dietro anche se la sera sta per arrivare ed il luogo è inospitale e persino deserto.

            Gesù, sottolinea l’Evangelista, sapendo cosa stava per fare, pone ai suoi una domanda certo provocatoria: “Dove potremo comprare il pane perché tutta questa folla possa sfamarsi?”.

            Gesù con sorpresa dei discepoli e magari anche nostra, dopo questo interrogativo non è attratto dai duecento denari che Filippo parrebbe possedere, ma dai pochi pani d’orzo e i due pesci che un ragazzo può offrire.

            “Fateli sedere!” comanda Gesù. Rende grazie e sfama la folla con pani e pesci in abbondanza.

            Un segno grande e toccante della potenza di quel giovane Rabbi che la folla aveva seguito, un segno esaltante e inquietante di quel Gesù che tanti aveva già guarito e in cui molti iniziavano già a riporre ogni fiducia e speranza.

            Gesù ha compiuto ancora un segno!

            Un segno è sempre qualcosa che rimanda ad un significato più grande, più profondo, più importante. La Parola oggi, appunto, ci chiama ad andare oltre il segno e a cogliere tutta l’ampiezza e profondità del significato. Fermarsi al segno equivarrebbe cadere nello stesso equivoco della gente che voleva prendere Gesù per farlo re, un re capace di risolvere con troppa facilità l’esigenza del pane materiale.

            Gesù non si presta ad un tale equivoco. Lo ha affermato, senza possibilità di fraintendimento, l’evangelista, annotando “…ma Gesù si ritirò di nuovo sul monte Lui solo”.

            Come dunque cogliere quel significato più profondo e vero che veicola il segno dei pani e pesci moltiplicati?

            Fratelli e sorelle che camminiamo dietro a Gesù, il Signore, questa pagina custodisce una Parola che vogliamo oggi lasciare deporre dallo Spirito nel nostro cuore, perché essa si radichi, germogli e porti davvero molto frutto.

            C’è, nel nostro testo una espressione, una Parola che può talvolta essere colta in un senso troppo letterale, e su cui forse passiamo oltre piuttosto in fretta, una Parola di Gesù che è un comando che noi rischiamo di interpretare in senso riduttivo, privandoci così di tutta la luce e la forza in essa contenute.

            Scrive l’Evangelista: quando furono saziati Gesù disse ai discepoli: “Raccogliete i pezzi avanzati perché nulla vada perduto”.

            Perché nulla vada perduto!

            Da una parte certo l’avanzo del pane di cui Gesù si preoccupa dice che il dono di Dio è abbondante, il dono di Dio non è mai centellinato, deborda, colma in pienezza, non gioca al risparmio. Il dono di Dio è sempre abbondante segno di un amore infinito, inesauribile, diremmo esagerato.

            Se già in questa riflessione che la parola ci propone c’è una profonda consolazione, nell’ulteriore approfondimento che la Parola ci impone, è racchiusa una luce splendente ed una forza inattesa.

            Perché nulla vada perduto! In questa parola è riassunta la logica di Gesù, è condensata l’essenza del cuore di Dio. Nulla vada perduto!

            Perché nulla vada perduto il Padre ha inviato il Figlio! Perché nulla vada perduto il Figlio ha raggiunto l’uomo nel cuore della sua umanità! Perché nulla vada perduto Lui, Gesù si è perduto nella morte per offrire la vita! Perché nulla vada perduto ha moltiplicato i pani e i pesci quel giorno sulle rive del lago di Tiberiade, preannunciando il pane del suo corpo offerto nell’Eucarestia per la salvezza del mondo! Ecco il vero significato del segno sorprendente che Gesù ha compiuto a Tiberiade: affermare che il Padre vuole che nulla vada perduto, mai, assolutamente!

            Fratelli e sorelle, quanto fa bene al nostro cuore sapere che Dio vuole che nulla vada perduto, che il vero pane da non perdere è il suo dono e primo fra tutti la nostra stessa vita.

            Su ciascuno, sulla storia che avanza, sull’intera umanità che spesso si agita inquieta e procede in modo talvolta confuso e smarrito, Dio, Padre di Gesù, ripete attraverso il Suo Diletto Figlio: “Che nulla vada perduto”.

            Fratelli e sorelle, quanto riscalda il cuore, infonde fiducia all’animo e rafforza il nostro passo che talvolta può essere stanco, radicarci in questa Parola: “che nulla vada perduto!” Mai, assolutamente mai, sempre in ogni situazione, circostanza o vicenda il Padre vuole che nulla vada perduto!

            Qualsiasi situazione persino paradossale e incomprensibile che la vicenda umana può riservarci, qualunque dono abbiamo ricevuto, o promessa il Signore ci ha confidato, stiamone certi, su tutto riposa potente e solida la Sua Parola “che nulla vada perduto!”

            Il pane eucaristico che spezziamo e di cui ci cibiamo ancora oggi è segno grande e bello, prova certa e palpabile che Dio vuole che tutti e tutto abbia la vita in abbondanza, che niente, nessuno, nulla mai vada perduto. Da questo allora la nostra vita è rallegrata, illuminata, custodita sempre e comunque nella pace.

            Amen

 

giovedi 23 luglio 2009 - XVI settimana T.O. - Santa Brigida - fr. Marek FMJ

Fratelli e sorelle,

     La grande domanda filosofica: “Da dove siamo venuti, dove stiamo andando, chi siamo?” ha un significato così concreto, che non si può lasciarla soltanto per i filosofi. Dalla risposta a questa domanda dipendono le cose più quotidiane della nostra vita. “Chi sono” decide per esempio dell’ora della sveglia. Se sono monaco, mi sveglio prima delle sei, se sono studente in vacanza non mi sveglio prima delle dieci. E perché non abbiamo che la vita quotidiana, la risposta alla domanda: chi siamo? è vitale. Niente di strano che porgiamo l’orecchio attentamente alla parola di Cristo, che ci spiega chi siamo.

     “Voi siete il sale della terra”. Quando Dio creò il cielo e la terra, vide che era cosa buona. Ma alla fine Dio creò l’uomo, lo creò a sua immagine, e vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. Forse è vero che l’uomo in quanto essere creato non è qualcosa di speciale: è soltanto una delle tante creature, piccolissima e un po’ sperduta nell’immensità dell’universo. Si dice che discendiamo dalle scimmie e il nostro genoma è molto simile a quello del topo. Ma se la Scrittura chiama l’uomo il sale della terra, vuole indicare che grazie all’uomo Dio ha preso gusto alla sua creazione. La terra senza l’uomo sarebbe buona, ma non tanto buona quanto lo è con lui. Siamo dunque quella piccolissima parte del mondo che, sola, è capace di dare gusto a tutto e di rendere tutta la creazione bella agli occhi di Dio: esattamente come il sale.

     Ma Gesù ha anche detto: “voi siete la luce del mondo”. Naturalmente questa luce non è del mondo nel senso, che viene dal mondo, che il mondo ne è l’autore. Se il Salmista dice che Dio è pieno di luce, e Giovanni dichiara, che Dio è luce, è dunque chiaro, che la luce viene da Dio ed è sempre sua manifestazione. Siamo luce del mondo perché Dio ha voluto immettere nel mondo la sua immagine e la sua somiglianza. L’uomo proprio perché illuminato dalla luce vera, è stato creato per essere luce del mondo. Per mezzo di lui Dio si rivela a tutta la creazione. L’uomo è per tutti gli esseri creati come Dio, è il suo volto. Per questo dopo aver creato l’uomo, Dio, Re e Dominatore di tutta la terra, disse di lui: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo.

     Siamo dunque il sale della terra per presentare la creazione a Dio e siamo la luce del mondo per rendere Dio presente nella creazione. Nell’uomo fino dal principio si incontrano il Creatore e la creatura, nella pienezza dei tempi invece questa unione raggiunse il suo estremo: Dio si fece carne, cioé creatura, e divenne uomo.

     Fratelli e sorelle, questa verità sulla natura dell’uomo è il tesoro inesauribile della Chiesa. I suoi figli e le sue figlie possono vivere pienamente la vita sulla terra ed impegnarsi con entusiasmo in tutte le sue realtà, ma possono essere totalmente liberi dalla vita che passa per immergersi nelle cose divine. Santa Brigida ne è l’esempio: la mistica del Nord che aveva il dono di straordinarie visioni non si scostava però dai problemi politici e sociali. Voleva piacere soltanto a Dio e Gli consacrò tutta la sua vita, diventando per questo strumento di una costruzione del mondo più giusto e più degno dell’uomo. Dieci anni fa Giovanni Paolo II ha fatto di Brigida la patrona d’Europa, per mostrarci chiaramente che il nostro continente ha sempre bisogno di uomini e donne consapevoli di essere il sale della terra e la luce del mondo, di essere presenza di Dio nella creazione. Preghiamo dunque il nostro Signore, affinché ci doni molti, molti santi. Amen.

 

 Domenica 19 luglio 2009 - XVI Domenica T.O. - fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

     Non ci sono nella Scrittura tante parole di Dio e tanti suoi comandamenti che a cui potremmo rispondere così facilmente come a questa domanda di Gesù: “Riposatevi un po’”. In questo caso il Signore non deve ripetersi, siamo pronti ad ascoltarLo e ad obbedire immediatemente. Se è vero che la parola di Dio coincide sempre con i nostri desideri più profondi, è anche vero che non sempre questo è così evidente come nel caso dell’invito al riposo. Qui, il precetto del Cristo e il bisogno del nostro cuore sembrano essere una cosa sola. Nostro Signore conosce davvero quel che c’è nell’uomo (Gv 2,25), e per questo anche la stanchezza dei suoi discepoli non è un segreto per Lui. La sua mitezza e la sua sensibilità ai bisogni umani si manifestano con semplicità amabile in questa richiesta che fa ai discepoli tornati dalla missione: “Riposatevi un po’”. Grazie a queste parole possiamo capire come è buono il Signore.

     Ma tutto ciò che è accaduto dopo la partenza dei discepoli, ci permette di conoscere nostro Signore ancora meglio. Ecco la gente Lo segue, corre dietro a Lui. Molti accorrono da tutte le città a piedi là, dove Gesù voleva trovare un po’ di riposo, e addirittura Lo precedono. Bella è questa sobrietà del racconto di Marco: “Sceso dalla barca, Gesù vide una grande folla ed ebbe compassione di loro”. Il Signore desidera la solitudine in disparte e invece fa si che una grande assemblea    

Lo segua in quel luogo solitario.

     Cerca la terra deserta e trova il popolo deserto e abbandonato: le pecore senza pastore. Vede la stanchezza dei suoi discepoli e vuole trovarle una soluzione prendendoli in disparte con se, ma si scontra con qualcosa di ancora più grande: la stanchezza della folla. Gesù infatti conosce bene quel che c’è nell’uomo, e anche se molti Lo seguono, perché vogliono vedere le guarigioni, i miracoli e le cose straordinarie, Lui guarda nel profondo del loro cuore e vede la loro stanchezza. I suoi discepoli sono stanchi perché non hanno avuto il tempo di mangiare, la folla, che vede Gesù appena sceso dalla barca, è sfinita, perché le manca la parola capace di saziarla. Dai loro volti e dagli occhi fissi su di Lui, dal respiro affannato e dai sorrisi di contentezza che sono così sottili e veloci, il Signore legge tutta la loro povertà, vede chiaramente la fame del loro cuore: sono come pecore che non hanno pastore, non hanno quindi niente da mangiare. Gesù Cristo è di fronte agli uomini affamati della Parola. E Lui, il Verbo di Dio, la sua Parola vivente ha compassione di loro e si mette a insegnare loro molte cose. Questa sobria constatazione di Marco ci rivela due cose molto importanti.

     Per prima cosa parla di noi. Ci mostra, che anche se le sofferenze dell’umanità sono molte: l’ingiustizia, la guerra, l’odio, le crisi finanziarie, i cambiamenti climatici... e tutte inquietano il cuore del nostro Dio, c’è nel suo cuore un’ansia più forte delle altre: il fatto, che l’uomo sia privo della Parola di Dio. Il nostro Salvatore commosso dalla povertà umana non guarisce per prima cosa i malati, non difende gli oppressi, non compie miracoli, ma dà la Parola, insegna. Vediamo da questo, che il bisogno più grande e più urgente dell’umanità è ascoltare Dio, accogliere la sua Parola.

     In un secondo momento questa frase ci rivela il mistero della stessa Parola di Dio. Non a caso l’Evangelista dice, che Gesù insegnava loro “molte cose”, ma non ce ne trasmette il contenuto, non ne dice neanche una parola. L’insegnamento doveva essere veramente molto lungo, perché leggiamo nel Vangelo, che a Gesù “si avvicinarono i suoi discepoli” ricordandoGli che ormai era tardi.  Ma ciò che Gesù ha detto è per noi totalmente sconosciuto. Tante ore di insegnamento, è così breve la sintesi di Marco: “insegnava molte cose”. Tutti vorremmo sapere che cosa si nasconde sotto questo “molte cose”, ma mantenendo il silenzio su questo argomento, l’Evangelista indica dove si trova la Parola, di cui abbiamo bisogno. La Parola non è nel contenuto dell’insegnamento di Cristo, ma Lui stesso è la Parola. Per i cristiani la Parola è persona, la Saggezza è Figlio, la Sapienza è Gesù. Lui non deve parlare, insegnare, spiegare – basta che ci sia, come in questa pericope evangelica che meditiamo oggi e in cui Lo vediamo commosso dalla miseria umana davanti alla folla che Lo ascolta per lunghe ore. Ecco la Parola, il nostro cibo – Dio in mezzo a noi.

     Fratelli e sorelle, la nostra vera stanchezza viene dalla fame della Parola di Dio. Ma fra poco su questo altare, mentre spezziamo il pane, Cristo, il Verbo di Dio si manifesterà in mezzo a noi. Riposiamoci dunque un po’ contemplando il nostro Signore, saziamoci di Lui. Amen.

 

 giovedi 16 luglio 2009 - XV settimana T.O. - fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

     il nostro Dio ha svelato un po’ il segreto del suo cuore, quando ha ispirato il salmista a comporre il canto che comincia con l’esclamazione: “dal mio cuore sgorga la bella Parola!” (Sal 45, LXX). Questa frase biblica ci mostra l’eterna nascita della Parola di Dio come lo sgorgare gioioso e così splendido che sembra colpire di meraviglia anche Dio stesso. L’amore ha sempre qualche cosa di questa dinamica della vita più intima di Dio: è un dono totale ed immediato, come il zampillare della parola dal cuore. Per questo le parole di Gesù che meditiamo oggi sono una delle più belle manifestazioni del suo amore. Escono dal cuore del Signore, come Lui è uscito dal seno del Padre: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. Tutte le frasi della Bibbia sono belle, tutte le parole del Signore sono più dolci del miele, ma questa frase contiene una dolcezza e una forza straordinarie.

     É soprattutto la rivelazione del nostro Signore. Colui che chiama a se stesso l’umanità intera essendo consapevole della sua oppressione e proponendole il rimedio, deve essere il Verbo che sostiene tutto, lo Spirito che crea tutto senza fine, il Figlio di Dio a immagine del quale siamo stati creati; deve essere Dio stesso. In questo grido “venite”, sentiamo la domanda fatta da Dio ad Adamo: “dove sei?”. Questo “venite” ci ricorda l’ordine dato ad Abramo: “Vattene dalla tua terra, verso la terra che io ti indicherò” (Gn 12,1). Riconosciamo in esso la voce di Mosè e dei profeti: “Ritornate a me con tutto il vostro cuore”. Dio ha ripetuto mille volte la sua domanda: venite a me, e adesso la sua voce viene a noi da un uomo: l’uomo che ci parla, Gesù di Nàzaret, è dunque il nostro Dio.

     Ma questa frase rivela anche noi a noi stessi, svela il segreto della nostra natura. Se il ristoro ci viene soltanto da Dio, dobbiamo necessariamente essere nati da Lui. Come la sorgente alimenta il fiume e come i frutti della terra alimentano il nostro corpo preso dalla terra, Dio stesso è il nostro ristoro, perché “di Lui anche noi siamo stirpe” (Att 17,28). Il fiume, la cui sorgente è arida, non è meno povero e oppresso dell’uomo senza Dio. Siamo infatti la sua immagine, il suo riflesso e il suo volto nella creazione. Senza di Lui, non siamo nulla.

     Questa frase del Cristo ci rivela infine che la salvezza dell’uomo è già compiuta e offerta a noi. “Io vi darò ristoro”, e anche: “troverete ristoro per la vostra vita” non sono soltanto promesse, ma profezie. Tutto questo è già compiuto: il Cristo ha rialzato l’umanità, perché é risorto dai morti. La stanchezza e l’oppressione della nostra natura hanno trovato in Lui la loro fine, perché il Cristo non muore più, ma vive eternamente. In Lui l’uomo ricreato e rinnovato trova la giovinezza eterna.

     Fratelli e sorelle, questa frase, che è zampillata dal cuore del nostro Salvatore, sarà fino al suo ritorno sorgente di speranza, di gioia e di pace per tutti gli uomini.

     Accogliamola nel nostro cuore e custodiamola, perché può nutrirci abbondantemente. Amen.

 

 Domenica 5 luglio 2009 - XIV Domenica T.O. - fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

 

     I padri della Chiesa per spiegare il valore della Sacra Scrittura e per incoraggiare i cristiani a leggerla hanno utilizzato molto spesso l’immagine della noce di cocco. Come il cocco nasconde sotto la durezza del guscio la polpa nutriente e il latte, così nella Scrittura la parola che tocca il cuore e gli dona la vita è nascosta sotto la lettera, che sembra uccidere lo spirito. È dunque difficile leggere i testi sacri, ma se vinceremo le difficoltà, troveremo il cibo per il nostro cuore. Leggendo le Scritture dobbiamo dunque paradossalmente cercare le difficoltà, perché la durezza del guscio è segno della maturità del frutto: dietro la difficoltà si nasconde il cibo.

     Nel Vangelo che la Chiesa ci propone da meditare oggi, almeno una frase crea questo tipo di difficoltà. L’Evangelista Marco ha scritto che Gesù era per gli abitanti di Nàzaret motivo di scandalo. Il fatto stesso, che il Vangelo chiami il Salvatore motivo di scandalo, è difficile da capire, ma la difficoltà diviene ancora più grande, quando ci ricordiamo le parole del Cristo – scritte dallo stesso Marco – che dice: “chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare” (Mc 9, 42). Mi sembra che la frase che mostra il Signore come motivo di scandalo può nutrirci oggi abbondantemente. Meditiamola dunque un po’.

     Prima di tutto dobbiamo chiedere che cosa vuol dire la parola “scandalo”. Nella lingua greca “scandalon” significa trappola. Si tratta dunque della cosa che serve ad afferrare e ad imprigionare qualcuno. Se dunque sappiamo che la vita umana è un viaggio verso Dio, verso il Bene supremo, lo scandalo sarà una realtà – parola o atto – che ferma gli altri in questo viaggio, che lo disturba. Scandalizzare significa non permettere agli altri di arrivare a Dio, disturbarli nel loro ritorno alla casa del Padre. Come si può far questo? Ci sono tanti modi! Qualche volta basta una parola cattiva, oppure la mancanza di una parola d’incoraggiamento. Semplicemente il nostro peccato, il male che facciamo, scandalizza gli altri, perché è per loro l’ostacolo nel loro cammino verso il Bene.

     Ma come ha potuto Gesù, il Santo divenire motivo di scandalo per gli abitanti di Nàzaret? Che cosa ha fatto, perché per causa sua essi si siano fermati nel loro cammino verso il Padre? L’umanità del Signore è divenuta trappola.

     Ascoltando quel sabato il Cristo nella loro sinagoga, gli abitanti di Nàzaret rimasero stupiti. Il suo insegnamento era straordinario, pieno di una sapienza fuori del comune. Nelle sue parole sentivano la forza della Parola di Dio. Anche i prodigi compiuti dalle sue mani testimoniavano che Dio era con Lui. Tutto questo faceva ardere i loro cuori e forse cominciavano a pensare che di lì a poco Gesù avrebbe squarciato i cieli e fatto discendere il fuoco della Presenza di Dio. Come tutti gli uomini, gli abitanti di Nàzaret desideravano vedere Dio... Ma non avvenne nulla di tutto questo. Dio rimaneva nel Cristo completamente nascosto. Il nostro Signore è vero Dio, però lo è nel vero uomo, nel falegname, nel figlio di Maria. E le sue sorelle vivevano a Nàzaret. Ecco dov’è lo scandalo, dov’è la trappola: nell’Incarnazione di Dio. Mentre tutti cercano le cose grandi, corrono verso il cielo, desiderano la forza dall’alto... il nostro Dio ha svuotato se stesso, ha preso carne e si è fatto uomo.

     Non soltanto per gli abitanti di Nàzaret il Dio incarnato era motivo di scandalo. Dobbiamo onestamente riconoscere, che anche per noi il fatto, che il nostro Dio è un semplice uomo, è qualche volta causa di scoraggiamento. Non ci piacerebbe di più che il nostro Dio fosse il più grande, il più forte, il più straordinario? che ci desse la forza contro tutto e tutti? Non Lo preghiamo a volte con tanta insistenza perché ci aiuti a risolvere i nostri problemi, come dimenticando che è morto sulla croce? Si, Gesù può essere anche per noi motivo di scandalo, perché ci propone un cammino verso Dio completamente nuovo. L’ha aperto con la sua carne, con la sua umanità, così che ora ci si può avvicinare a Dio attraverso le cose umane. Gli abitanti di Nàzaret non volevano seguire questa strada, ma non c’è ragione che noi non lo facciamo. Sono sicuro, che la Scrittura ci racconta, che l’Incarnazione di Dio ha scandalizzato i Nàzareni, perché sa, che in questo possiamo scoprire la bellezza del progetto di Dio. Il fatto, che Dio si è fatto uomo può scandalizzare, ma può anche colmarci di meraviglia e di gioia perfetta.

     Fratelli e sorelle, la Chiesa crede veramente nel falegname, spera di ricevere da lui la vita eterna e lo ama più che la vita! Le conseguenze di questa fede sono immense: le cose più normali e banali diventano piene di Dio. Questa fede toglie la maschera dal mondo e permette di vedere Dio in tutto. Cominciamo dunque a scoprire l’eternità nel quotidiano e tutto ci dà l’occasione di essere con Dio.

     Il sacramento che stiamo celebrando rivela in modo particolare questo mistero dell’Incarnazione di Dio: mangiando il pane, gustiamo il nostro Dio. Lui è così semplice, proprio come il pane. Però non gustiamoLo solo mentre celebriamo l’Eucaristia, ma sempre. Dio è la nostra vita, la più quotidiana. Amen.

 

 giovedi 2 luglio 2009 - XIII settimana T.O. - fr. Marek FMJ

Fratelli e sorelle,

     Dal momento che oggi preghiamo particolarmente per le vocazioni, meditiamo la domanda che Gesù ha fatto mentre guariva il paralitico, perché può rivelarci la potenza e la bellezza della Parola, che è la sorgente di ogni vocazione. Gesù ha chiesto: “Che cosa è più facile: dire ‘Ti sono perdonati i peccati’, oppure dire ‘Alzati e cammina’”?

     Sentendo questa domanda, quasi automaticamente cerchiamo la nostra risposta: per me, che cosa è più facile da dire? Ed è chiaro, che non possiamo dire a un paralitico: ‘alzati e cammina’. Questa frase più che difficile, è impossibile da pronunciare. Pronunciata sarebbe vana e non avrebbe senso. Pronunciandola mentiremmo e mentendo in tale modo all’uomo paralitico che aspetta la guarigione, gli faremmo del male. Non è possibile per noi dire ‘alzati e cammina’.

     Ma l’altra frase: ‘Ti sono perdonati i peccati...’, sembra molto più facile da dire. Nessuno può verificare, che cosa succede ai peccati del paralitico, e quindi non ci sarà nessuna conseguenza evidente. Questa frase è per noi molto più sicura, perciò queste parole – anche se false – potrebbero uscire dalla nostra bocca.

     Ma Gesù non vuole sentire la nostra risposta alla sua domanda. Mi sembra, che l’abbia fatto soltanto per svelare i pensieri dei nostri cuori, per mostrarci la nostra relazione con la Parola, o piuttosto per ricordarci, che l’abbiamo abbandonata e perduta. Cercando la risposta alla domanda di Gesù, vediamo chiaramente, che ‘dire’ è divenuto per noi quotidiano e così banale, che siamo capaci di parlare senza preoccuparci della verità, e addirittura osiamo mentire. L’uomo in un certo senso sa parlare senza la Parola, senza il Verbo di Dio, senza la Verità! La domanda di Gesù ci introduce dunque nel nostro cuore svuotato della Parola, perché ci rendiamo conto della forza immensa del Verbo eterno, che dal principio è presso Dio, che è Dio, e che si è fatto uomo.

     Dopo aver pronunciato la frase, che potrebbe pronunciare ogni uomo arrogante e troppo sicuro di se, il Signore ha detto la frase, che nessuno oserebbe dire a un paralitico: ‘alzati!’. In quel momento, i presenti hanno sentito la stessa Parola, pronunciata prima della creazione del mondo: ‘Sia la luce!’. Allora la luce fu, ora il paralitico si alza.

     Fratelli e sorelle, anche se la Parola in un certo senso appartiene al quotidiano – perché ogni giorno mantiene in vita il mondo – la cosa non è banale. La Parola crea. Creare è la sua natura, perché la Parola, il Verbo è anche la Volontà di Dio. Questo valore infinito della Parola, la sua natura creatrice fa si, che la domanda di Gesù trovi il suo nuovo significato: che cosa è più facile da dire, cioè da creare – la guarigione del paralitico, oppure il perdono dei suoi peccati? Non abbiamo alcun dubbio: per guarirlo la Parola doveva creare la sua Incarnazione, ma per perdonargli i peccati doveva creare la sua morte in croce. Ecco il lavoro della Parola, la sua opera più grande e più difficile: il perdono, cioè la salvezza dei peccatori.

     Fratelli e sorelle, se dunque preghiamo oggi per le vocazioni, chiediamo soprattutto Dio di rivelare agli uomini il mistero della salvezza. Supplichiamo, che la sua Parola – la Parola, che ha creato il mondo, che si è incarnata e rivelata pienamente sulla croce – entri nei cuori degli uomini e delle donne per farli strumenti di salvezza. Sarebbe più facile per Dio darci una persona che guarisce il mondo, piuttosto che formare l’uomo che medita la Parola nel silenzio e alla Parola si unisce nel mistero della morte, per divenire come Lei sorgente di Vita. Ma niente è impossibile per il nostro Dio, e se ha detto alla luce: ‘sii’ ed al paralitico: ‘alzati’, può dire al cuore umano: ‘apriti alla Parola, meditaLa e conosci la mia misericordia’. Preghiamo dunque Dio per le vocazioni, perché la sua Parola abiti i nostri cuori. Amen.

 

Domenica 28 giugno 2009 - XIII Domenica del Tempo Ordinario  - fr. Massimo-Maria FMJ

    “ Dio non gode per la rovina dei viventi, Egli ha creato tutto per l’esistenza”. Questa splendida e luminosa perla che abbiamo ascoltato dal libro della Sapienza vogliamo che ci aiuti ad accogliere la Parola Evangelica di Marco, particolarmente ricca in questa domenica.

   Il racconto di due miracoli che si intrecciano misteriosamente, e apparentemente in modo casuale, in realtà gridano all’unisono un messaggio vitale per il nostro cammino dietro a Gesù Signore, messaggio che con gratitudine vogliamo raccogliere.

   Il primo miracolo riguarda la guarigione di una donna malata da dodici anni, colei che conosciamo come l’emorroissa e il secondo miracolo invece è la resurrezione della figlia di Giairo capo della sinagoga di Cafarnao. Proprio nella cornice di questa cittadina del lago di Tiberiade Gesù compie i due segni.

   La donna emorroissa, da ben dodici anni affetta da frequenti emorragie, quel giorno a Cafarnao deve aver avuto certo la sensazione che quella era l’occasione della sua vita, assolutamente da non perdere. Forse aveva sentito  parlare del potere di guarigione del giovane Rabbì di Nazareh; forse aveva sentito il racconto di uno dei suoi numerosi miracoli o magari addirittura un miracolato gli aveva raccontato la sua esperienza. Poco importa! Lei da troppo tempo si portava nel fisico una indicibile sofferenza e nell’animo una insopportabile umiliazione. Malata per la gente e impura per gli ambienti religiosi le era vietato ogni contatto. Tuttavia il bisogno materiale, e chissà, forse un segreto richiamo del cuore, le hanno fatto sorgere nell’animo un pensiero, meglio una intuizione o piuttosto una fiducia che Gesù poi chiamerà fede:

   “Se riuscirò a toccare il lembo del suo mantello sarò guarita”. Tocca il mantello e l’incredibile si realizza, l’impossibile diviene realtà. Nessuno si accorge di nulla, solo lei e Gesù sono testimoni di cosa la fede può fare: ottenere la guarigione. Di più: salvare!

   E’ Gesù che rivela a questa donna tutto ciò che ha ottenuto per la sua fede. Una fede all’inizio forse dettata dal bisogno, apparentemente un po’ magica, eppure fede, una fede limpida che sa riconoscere in quel giovane Nazareno il passaggio di Dio nella storia, fede semplice ma reale che con gesto furtivo e semplice, ma carico di fiducia e determinazione confessa che Gesù è il Salvatore. E Lui, il Signore come in risposta a questa fede, con una umanità sorprendente e un calore squisitamente umano, chiamandola teneramente “ figlia”, le accorda la guarigione e le dona la salvezza. Davvero aveva capito bene il cuore sofferente e provato di questa donna di cui non sappiamo il nome ma della quale il Vangelo ci fa conoscere la grande fede.  

    Più solenne e più articolata la seconda scena: la risurrezione della figlia di Giairo.

Giairo capo della sinagoga, rappresentante del giudaismo ufficiale, forse di solito freddo come altri nei confronti di Gesù, altezzoso magari troppo sicuro di sé e poco umano come qualche volta appaiono scribi e farisei, mai scomposto, sempre misurato, ora invece a causa del dolore nudo, senza autodifese, cadute le maschere, senza orgogliosi prestigi e solennità – il dolore infatti rende più sinceri, spontanei, veri e semplici – si getta ai piedi di Gesù e confessa spudoratamente la sua fiducia, la sua convinzione, la sua fede.

   Ma certo vertice dell’episodio è l’arrivo di Gesù alla casa di Giairo dove era successo l’irreparabile, la bimba infatti era morta.

   Anche ora Giairo non demorde, continua ad obbedire non alla folla e alla gente vicina che lo invitano a lasciare perdere, ma continua ad obbedire a Gesù che gli chiede di non temere e di continuare ad avere fede. Ed ecco che la perseveranza di Giairo è come premiata. La bambina non è morta, dorme dice Gesù, come prefigurando lo stesso sonno che Lui stesso avrebbe dormito, e risvegliandola profetizzava il risveglio che il Padre avrebbe su di Lui operato. 

   Ecco dunque il Signore provocato dalla fede di Giairo compie un gesto: le prese la mano, realizzando la parola del Salmista ”Il giusto se cade non rimane a terra, perché il Signore lo tiene per mano”. E poi pronuncia una parola: Talità Kum. Fanciulla, alzati”. Ed ecco che l’angoscia, il dolore la tenebra della morte si muta per il gesto amorevole del Signore e la Parola potente del Figlio di Dio in vita, in luce, in gioia luminosa.

   Fratelli e sorelle la Parola del Signore oggi non vuole proporci Gesù come un talismano contro il male, una assicurazione contro le disgrazie o come il segreto di una felicità mondana. La sofferenza, la croce, la morte fanno parte della vicenda umana e cristiana, la liturgia oggi nella preghiera di colletta ci ha fatto chiedere di non temere la povertà e la croce. Ma piuttosto la Parola vuole dirci che sulla povertà, sulla croce l’ultima parola è di Dio. Prova ne è che Gesù il Figlio ha fatto sua la povertà e la croce ed attraverso esse ci ha arricchito, cioè ci ha salvato.

Ecco allora che l’invito è alla fede in Lui che con noi attraversa ancora la povertà, ogni povertà, con noi assume la croce, ogni croce.

L’appello del Signore in questa domenica è alla fede. Non importa se è imperfetta come quella dell’emorroissa o nasce dalla disperazione come quella di Giairo, essa può crescere, maturare e divenire totale.

   E’ questo l’impegno fondamentale del cammino del cristiano, è questo il segreto vero ed ultimo della vita cristiana, è in fondo questa l’unica differenza tra i cristiani e gli altri: una fede grande, una abbandono fiducioso, una granitica fiducia in Gesù.

   Aver fede significa attraversare la vita sapendo, essendo certi, credendo che su ogni sofferenza fisica o morale, su ogni tenebra, su ogni ingiustizia, su ogni malattia, morte, incomprensione, torto violenza e quant’altro possa esserci, l’ultima parola è del Signore che nella sua Pasqua tutto trasforma in vita e resurrezione già misteriosamente nel tempo e un giorno compiutamente e senza veli nell’eternità.

   Teresa d’Avila, quasi a commento di questa pagina evangelica ha scritto: “ Dio sa tutto, può tutto e ci ama”.

   Sorelle e fratelli attraversare la vicenda umana con questo pensiero ben fisso nel cuore equivale a vivere guidati, confortati, sorretti dal dono incommensurabile della fede, che rende il cuore umano legato al cuore di Dio e la vita dell’uomo più semplice, più serena, più limpida e senza dubbio più santa.

Così sia per ciascuno e per tutti, oggi e sempre. Amen.

 

mercoledì 24 giugno 2009 – San Giovanni Battista – Omelia di S.E. Cardinale Silvano Piovanelli

 

            “La Chiesa festeggia la natività di Giovanni, attribuendole un particolare carattere sacro. Di nessun santo, infatti, noi celebriamo solennemente il giorno natalizio; celebriamo invece quello di Giovanni e quello di Cristo”. Così il santo vescovo Agostino.

            Guidata dall’evangelista Luca che stabilisce uno stretto parallelismo nei racconti dell’infanzia di Gesù e di Giovanni Battista, la Chiesa celebra la nascita di Gesù nel solstizio invernale e nel solstizio d’estate quella del suo precursore.

            Gioiscono la Chiesa e la città di Firenze, che da antichissimi tempi ha come protettore San Giovanni Battista. Gioiscono le Monache di Gerusalemme che lo venerano come santo patrono e lo guardano come “lampada che arde e risplende” (Gv 5,35). Ma ogni comunità, ogni famiglia, ogni persona si volgono con ammirazione e fiducia a colui del quale Gesù ha detto: “tra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni Battista” (Mt 11,11).

            Celebriamo con profonda esultanza di fede la festa di San Giovanni Battista, ma con un’attenzione: quella di non meritare il rimprovero che in una festa a Gerusalemme Gesù, parlando del Battista, rivolse ai Giudei: “voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce” (Gv 5,35). La sua luce non deve brillare solo nella liturgia la luce del Battista deve splendere nella nostra vita.

            Il vecchio suo padre, il sacerdote Zaccaria, diventò muto perché non credé subito alla promessa straordinaria dell’angelo Gabriele nel tempio e riacquistò la parola dopo aver scritto su una tavoletta: “Giovanni è il suo nome”. Dopo, colmato dallo Spirito Santo, benedisse Dio e rivolto al bambino appena nato disse: “Tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo, perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade”  (Lc 1,76).

Andrai davanti al Signore e preparargli le strade”.

            San Pier Damiani, in una omelia della festa dice: “Giovanni è stato precursore del Cristo con la sua nascita, la sua predicazione, il suo battesimo e la sua morte. Ha iniziato questa missione ancor nel grembo di sua madre. Il padre, Zaccaria, era diventato muto  causa della propria incredulità ed egli, prima ancora di poter parlare, gli ha restituito miracolosamente la parola facendogli pronunciare il suo nome. Non poteva ancora far giungere la sua voce all’orecchio degli uomini, e già, sussultando nel grembo di sua madre Elisabetta, l’avvertiva della presenza del re del cielo, nascosto nel seno della Vergine”.

            Giovanni, il precursore di Cristo, è una lampada che arde e risplende, perché  anche la nostra vita di cristiani arda e risplenda. Egli ha vissuto pienamente la sua missione quando Gesù, a circa trent’anni, cominciò il suo ministero. Questa missione di preparare le strade al Cristo dopo che Egli è salito al cielo, è affidata ai discepoli dallo stesso Gesù: “Voi mi sarete testimoni in Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra” (At 1,8).

            Che cosa dovremo testimoniare? Che Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito; che Gesù ha amato gli uomini sino alla morte e alla morte di croce ed è risuscitato per la nostra salvezza e ci ha donato il suo Santo Spirito, che unendoci a Gesù in un solo corpo ci riconduce al Padre e che il comandamento dell’amore a Dio e al prossimo è tutta la nostra risposta.

            Siamo precursori di Cristo nella storia di oggi. Dobbiamo preparargli le strade nel cuore delle persone, nella realtà delle famiglie, nelle comunità, nelle culture e nelle tradizioni umane, nelle concrete vicende dell’umanità.

            Giovanni Battista ci insegna quattro cose: la consapevolezza, la coerenza, la trasparenza, la gioia.

            La consapevolezza.

            Cosa leggi nel prologo del quarto Vangelo? “Giovanni venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui; non era lui la luce, ma doveva dare testimonianze alla luce” (Gv 1,6-8).

            L’apostolo Paolo nella lettera agli Efesini ci dice: “In Cristo ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità… a ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo… ha dato ad alcuni di essere apostoli, al altri di essere profeti, ad altri ancore di essere evangelisti, al altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo”(Ef 1,4; 4,7.11-13).

            “Tutti i cristiani – ci avverta il Papa Paolo VI della EN, 21.24 – sono chiamati a questa testimonianza e possono essere sotto questo aspetto dei veri evangelizzatori… chi è stato evangelizzato a sua volta evangelizza. Qui è la prova della verità, la pietra di paragone dell’evangelizzazione: è impensabile che un uomo abbia accolto la Parola e si sia dato al regno, senza diventare uno che a sua vola testimonia e annunzia”.

            Consapevolezza, dice Giovanni Battista, perché “già la scure è posta alla radice degli alberi” (Lc 3,9).

            Giovanni Battista ci grida: coerenza! Giovanni Battista, che “portava una veste di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi e il suo cibo erano cavallette e miele selvatico” (Mt 3,4) ci richiama fortemente alla sobrietà della vita e alla condivisione (“chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha e chi ha da mangiare faccia altrettanto” Lc 3,11) e al compimento onesto del proprio lavoro e ministero (come raccomandava il Battista ali esattori delle tasse e ai soldati).

            Giovanni non era “una canna sbattuta dal vento”o “un uomo con abiti di lusso” (Lc 7,24-25). “Giovanni non ha compiuto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di Gesù era vero” (Gv 10,41). Giovanni Battista non faceva segni: era lui il segno! Il cristiano non è chiamato a fare miracoli, ma a fare della propria vita un miracolo!

            Giovanni insiste con la forza della parola e della testimonianza perché nella Chiesa ci sia una trasparenza di vita. “Confessò e non negò. Confessò: “Io non sono il Cristo”…”Sei tu Elia?”. “Non lo sono”. “Sei tu il profeta?”. “No” rispose. E allora: “Cosa dici di te stesso?”. “Io sono voce di uno che grida nel deserto”. Io sono la voce, Lui è la Parola, La voce porta la Parola e, dopo averla portata, scompare, ci dirà Sant’Agostino.

            Ogni discepolo del Cristo, ogni famiglia “piccola chiesa domestica”, ogni comunità cristiana, deve essere semplicemente testimone di Cristo Gesù Signore della nostra vita deve esprimere Lui, deve cantare Lui, deve annunziare Lui. Come la luna che splende nel cielo: brilla bellissima nella notte, ma la luce non è la sua luce, bensì quella del sole. C’è nella nostra vita di cristiani questa magnifica ricchezza, questa stupenda libertà? La ricchezza e la libertà della trasparenza? Siamo riflesso di Cristo dove noi viviamo?

            L’austerità e la coerenza di Giovanni non sono un vestito di tristezza, ma una dalmatica di gioia. Basta ascoltarlo: “Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è piena. Lui deve crescere, io invece diminuire”(Gv 3,29-30).

            La gioia dell’amore fiammeggia dentro di lui e rende credibile il suo messaggio: “In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete” (Gv 1,26). Il Signore Gesù è in mezzo a noi, ancora di più è con noi, fino alla fine dei secoli. Il Risorto cammina nella storia, vittorioso del peccato a della morte, come speranza indefettibile di tutta l’umanità.

            Ognuno di noi diventi un cuore pulsante di desiderio  di preghiera, una luce che brilla nella notte, una voce che annunzia con forza, una mano che indica con decisione.

            Non vogliamo rallegrarci solo per un momento nella liturgia, vogliamo che tutta la vita diventi testimonianza evangelica e canto di gioia. Ci dice il vescovo Sant’Agostino: Canta e cammina. Canta ora l’Alleluia dell’esilio, in attesa di cantare, in modo definitivo e pieno, l’Alleluia della patria. Perché tu sei, come cristiano, precursore di Cristo!

 

 giovedì 11 giugno 2009 - San Barnaba - At 11, 21b-26; 13, 1-3; Mt 10, 7-13 - fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

     La memoria liturgica di san Bàrnaba ci invita oggi a rivolgere l’attenzione ai santi del secondo piano, ai servitori di Dio che nella sua orchestra non suonano il primo violino, ma senza i quali il concerto divino non sarebbe possibile. Mi sembra che, un po’ come in una filarmonica, nel Regno di Dio tutti non possono essere primo violino, e perciò è per noi molto utile prepararci a una parte meno visibile nella storia della salvezza, ma non meno necessaria. Guardiamo dunque a Bàrnaba, il secondo violino del primo atto della storia della Chiesa.

     La Chiesa di Gerusalemme lo mandò ad Antiòchia, quando il Signore per mezzo di cristiani anonimi suscitava in molti abitanti della città la fede nel Cristo.

     Mentre i grandi missionari cercano le terre pagane ardendo del desiderio di annunciare Cristo là, dove nessuno ha ancora portato il suo nome, il semplice servizio ai credenti rende contento Bàrnaba. È molto significativo che Bàrnaba, non volendo compiere la sua missione da solo,  cercasse Saulo in Tarso. Lo trovò e lo condusse con sé ad Antiòchia. Alcuni anni prima, anche grazie a Bàrnaba, Saulo, dopo la sua conversione, era stato introdotto nella Chiesa di Gerusalemme. È chiaro che per compiere la sua vocazione di Apostolo delle nazioni, Paolo aveva bisogno di Bàrnaba, della sua fiducia, della sua apertura e della sua accoglienza. Il primo violino esiste soltanto perché c’è il secondo.

     Dopo un anno di servizio ad Antiòchia, Bàrnaba e Paolo annunciavano insieme il Vangelo a Cipro ed in Asia Minore. Quando il viaggio cominciò, Bàrnaba era il capo del gruppo dei missionari, ma durante la missione probabilmente dovette cedere il suo posto a Paolo, se a Listra i pagani chiamavano Bàrnaba “Zeus” e Paolo “Hermes”, perché era lui a parlare (Att 14,12). Mi sembra che i santi del secondo piano sono sempre contenti, quando anche gli altri possono fare qualche cosa per il Signore. È invece più difficile fare altrettanto per i santi del primo piano.

     Paolo, il convertito persecutore della Chiesa, ma ora il grande Apostolo, non voleva prendere con se nel secondo viaggio missionario Marco, cugino di Bàrnaba, perché durante il primo  viaggio si era allontanato dallo zio e dai suoi compagni per tornare dalla sua mamma. Bàrnaba invece – probabilmente con lo stesso sentimento che l’aveva spinto alcuni anni prima a cercare Saulo in Tarso – voleva dare fiducia a Marco e lasciargli ancora una possibilità. Davanti alla severità di Paolo Bàrnaba tenne duro e – come dice san Luca – il dissenso fu tale che si separarono. Scegliendo Marco, Bàrnaba conferma la sua santità del secondo piano. Lascia il grande Apostolo, per accogliere un giovane cristiano, che non merita ancora il rispetto di Paolo. Davvero i piccoli santi sono molto importanti, sono come la porta aperta nella Chiesa per far entrare la grazia di Dio. Bàrnaba ci ha dato non soltanto l’Apostolo delle nazioni, ma anche un Evangelista.

     Fratelli e sorelle, è molto pericoloso confondere la santità con la grandezza, è per questo che la Chiesa fa memoria non soltanto del grande Paolo, ma anche del piccolo Bàrnaba. Che dunque il nostro cuore cerchi la santità, l’imitazione di Cristo nell’amore. E quando invece tira diritto per suonare il primo violino, ripetiamogli il Salmo, che certamente spesso era sulle labbra di Bàrnaba: “Signore, non vado cercando cose grandi né meraviglie più alte di me. Io invece resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre. Amen.”

 martedì 2 giugno 2009 – IX settimana T.O. – Mc.12, 13-17 – fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

     prendere le decime sulle sementi e sulle vigne dei cittadini, mettere la decima sui loro greggi – secondo il Primo Libro di Samuele – è diritto del re, cioè cosa buona e giusta. Sembra dunque che pagare il tributo a Cesare senza dubbio è una cosa lecita. Ma Cesare non è il re dei Giudei, anche se il loro paese fa parte del suo Impero. Il re di Israele è Dio solo, che governa il suo popolo per mezzo del suo consacrato, del suo messia. Cesare non ha ricevuto da Dio la consacrazione per essere re su Israele, non è dunque che usurpatore, e per questo nemico di Dio e del suo popolo.

     La domanda dei farisei e degli erodiani: pagare il tributo o non pagare, tocca dunque una questione essenziale non soltanto per la nazione eletta nel tempo di Cristo, ma anche per noi oggi. Non si tratta soltanto del dovere dei cittadini verso il potere, ma sopratutto della risposta al peccato presente nel mondo: che cosa dobbiamo fare, quando vediamo che il mondo non funziona e non esiste secondo la volontà e la legge di Dio? Per i Giudei in una tale situazione non ci sono che due soluzioni: accettare ed in un certo senso entrare in collaborazione col male, pagando il tributo all’usurpatore, oppure resistere facendo la guerra contro il mondo per restare fedele alla legge di Dio. Nel nostro cuore lo stesso dilemma prende una forma più sottile: come possiamo accogliere il mondo, che rifiuta Dio? Non dobbiamo convertire tutti, affinché il mondo intero sia obbediente al Signore e alla sua Legge? La risposta di Gesù prova ancora una volta, che i nostri pensieri non sono i pensieri di Dio.

     Il Signore ci ricorda la verità più profonda e fondamentale della nostra vita e del peccato, parlando dell’immagine: Di chi è questa immagine? È chiaro che si tratta dell’immagine sul denaro, l’immagine di Cesare. Ma tutti i Giudei sapevano che anche sul popolo di Israele, come sul denaro è sigillata un’immagine, l’immagine di Dio, perciò Israele fra tutte le nazioni è proprietà particolare di Dio, la sua nazione. Tutti sappiamo anche che ogni uomo porta nel suo cuore l’immagine di Dio, il segno misterioso della sua appartenenza a Lui. Davanti alla situazione in cui cominciamo a pensare che senza i nostri sforzi il mondo resterà in potere del male, Gesù ci ricorda che l’uomo appartiene a Dio. L’ingiustizia ed il peccato non portano su di loro l’immagine di Dio, non sono dunque eterni ed invincibili. Il denaro è di Cesare, appartiene a lui e passerà con lui. La cosa più importante è, che l’uomo appartiene a Dio. Qui è la sorgente della nostra pace: Dio combatte per noi come per la sua proprietà, il peccato e l’ingiustizia sono sopratutto i suo nemici.

     Allora, alla nostra domanda: come comportarsi nel mondo peccatore, Gesù ci invita alla conversione del cuore: “Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio”. Se il mondo non vive secondo la legge di Dio, offriamo il nostro cuore a Dio e tutte altre cose ci saranno date in aggiunta. Se il nostro cuore apparterrà di più a Dio, poiché noi facciamo parte del mondo, anche il mondo sarà più di Dio.

     Che lo Spirito di Dio, che abbiamo ricevuto, ci renda capaci di vivere secondo l’insegnamento di Cristo e di offrire la nostra vita pienamente a Dio, anche per il mondo. Amen.

 

 Domenica 31 maggio 2009 – Pentecoste - At.2, 1-11; Gal.5 16-25; Gv.15, 26-27; 16, 12-15 - Fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

   “Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede”? È la domanda fatta dall’Apostolo Paolo ad alcuni discepoli di Gesù incontrati a Èfeso. Mi sembra giusto e utile, oltre che essenziale e vitale per noi tutti porsi la stessa domanda oggi, che celebriamo la Pentecoste alla fine dell’anno paolino. Allora: abbiamo ricevuto lo Spirito Santo? Abita in noi lo Spirito di Dio? Lo possediamo?

   La risposta non é facile, perché per rispondere onestamente e con convinzione dobbiamo sapere, essere sicuri che lo Spirito sia in noi o non ci sia. Ma come possiamo fare a saperlo? Dove dobbiamo guardare per verificare la sua presenza? Naturalmente nel nostro cuore, nella nostra anima, nel nostro essere profondo, perché se abbiamo ricevuto lo Spirito Santo, Egli è proprio lì, nel nostro spirito. Ma il nostro sguardo non attinge dentro di noi, nessun uomo conosce se stesso fino in fondo. Soltanto Dio ci scruta e ci conosce. È facile verificare se abbiamo ricevuto il nostro salario, basta guardare sul conto bancario. È facile verificare se abbiamo ricevuto una lettera, senza problemi apriamo la buca delle lettere e vediamo chiaramente: c’è o non c’è. Ma è impossibile verificare in questo modo e sapere con tale sicurezza se abbiamo ricevuto lo Spirito Santo o no.

   Siamo dunque condannati alle tenebre ed all’insicurezza dell’agnosticismo? Si, se non troviamo in noi il coraggio della fede. Ma se lo troviamo, la fede diviene per noi la luce vera, perché ci permette di accogliere ed entrare in possesso del modo in cui Dio conosce la natura umana. Dio intende da lontano i nostri pensieri (Sal 139,3), al cospetto di Dio tutte le cose sono nude ed aperte (???), è Lui infatti che conosce quel che c’è nell’uomo (Gv 2,25). Se dunque vogliamo sapere, se abbiamo ricevuto lo Spirito Santo, dobbiamo chiederlo a Dio scrutando le Scritture con fede.  

   Nel libro della Genesi leggiamo che “Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Gen 2,7). La nostra vita, quella che troppo spesso chiamiamo naturale e quotidiana, è dunque alito di Dio, il suo soffio, e per questo, il fatto stesso che viviamo, prova che lo Spirito di Dio abita in ogni uomo vivente. Ma questo dono dello Spirito è provvisorio: Dio che crea gli uomini mandando il suo spirito, toglie loro il respiro ed essi muoiono, e ritornano nella loro polvere (Sal 104,29). Allora, anche se è vero, che nell’atto della creazione abbiamo ricevuto lo Spirito di Dio, la creazione fa di noi soprattutto  – come dice il Salmista – esseri “di carne”, non di spirito, perché abbiamo ricevuto il soffio “che va via e non ritorna” (Sal 78,39).

   Ma per bocca del profeta Ezechiele Dio ha detto agli uomini viventi, cioè a coloro che possiedono già il suo soffio, che darà loro un cuore nuovo e metterà in loro uno spirito nuovo (Ez 11,19). Questa profezia è un’aperta dichiarazione da parte di Dio, che la creazione non è finita. Colui che soffiò nelle nostre narici ciò che ora chiamiamo vita, rivela per mezzo delle parole del profeta la sua volontà di soffiare un’altra volta, non per ripetere la sua prima opera, ma per fare nuove tutte le cose. Con il primo soffio di Dio, abbiamo ricevuto la vita corruttibile, il secondo deve donarci la vita eterna. La nostra domanda sulla presenza dello Spirito Santo in noi, trova qui il suo senso più profondo: vogliamo sapere se abbiamo ricevuto lo Spirito, che ci dona la vita eterna, la vita stessa di Dio, e non soltanto la vita terrena.

   Fratelli e sorelle, la Scrittura è certa: Dio ha già compiuto il suo progetto, ha già mandato nel mondo il suo Spirito, ha soffiato per la seconda volta.

   Il secondo soffio dello Spirito comincia a Nazaret in Galilea, dove una giovane Giudea sente un arcangelo che le dice: “lo Spirito Santo scenderà su di te e ti coprirà con la sua ombra” (Lu 1,35). Il semplice “fiat” di questa Vergine ha permesso a Dio di compiere un’opera più grande e più meravigliosa della creazione dell’universo. Il primo soffio di Dio, cioè la creazione, ha dato lo spirito alla carne permettendole di gustare la vita appena per un momento. Per mezzo del secondo soffio invece, nel grembo di Maria in un certo senso la carne è offerta allo spirito, Dio, che è Spirito, ha preso da Lei carne, si è incarnato nel suo seno e si è fatto uomo, il nuovo Adamo.

   Quando Dio ha mandato il suo Spirito per creare il mondo, ha plasmato il primo Adamo, nostro padre. Poiché siamo i suoi figli, portiamo come lui nella nostra carne il soffio di Dio e siamo esseri viventi. Quando Dio ha mandato il suo Spirito per completare, perfezionare la creazione del mondo, ha plasmato il nuovo Adamo, il Cristo, che non divenne soltanto un essere vivente, ma – come dice san Paolo – “spirito datore di vita” (1 Cor 15,45). Come il primo Adamo dà ai suoi figli il soffio di vita, così il secondo dà ai suoi lo Spirito di vita. Ecco qui troviamo la risposta alla nostra domanda: lo Spirito di Dio è il dono per i credenti nel Cristo.

   Per verificare dunque se abbiamo ricevuto lo Spirito di Dio e se questo abita in noi, non abbiamo bisogno di vederne i segni nel nostro cuore, né di sentirne la voce, tanto più che la presenza dello Spirito è sempre molto discreta e le sue parole sono inafferrabili. È del tutto inutile cercare nella nostra vita le tracce di cose straordinarie di provenienza divina. Basta verificare, se facciamo parte dei discepoli di Cristo. Perché negli Atti degli Apostoli leggiamo, che nel giorno in cui lo Spirito Santo discese sui discepoli, questi si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Grazie a queste parole vediamo chiaramente che lo Spirito viene là, dov’è la Chiesa. Non ci sono altre condizioni per ottenere lo Spirito di Cristo: per riceverlo basta vivere nella Chiesa, essere Chiesa. Dove deve essere lo Spirito di Cristo, se non nel suo Corpo?

   Fratelli e sorelle, noi siamo la Chiesa di Cristo, il suo Corpo. Siamo dunque colmati di Spirito Santo e lo Spirito di vita e di verità abita in noi. Lasciamoci dunque guidare dallo Spirito, accogliamo la sua presenza con tutti i suoi frutti: amore, gioia, pace... E se qualcuno non è ancora sicuro di aver ricevuto lo Spirito, ascolti bene cosa gli viene detto mentre riceve il pane dall’altare: il Corpo di Cristo. Non è possibile separare lo Spirito di Cristo dal suo Corpo, accogliendolo prendiamo dunque anche lo Spirito. Il pane che noi spezziamo e le lingue come di fuoco, che si dividevano davanti agli occhi degli Apostoli, sono la stessa cosa: il dono dello Spirito. Non dubitiamo dunque, ma lodiamo il Signore e rallegriamoci, perché anche noi siamo ricolmi di Spirito Santo, che ci guiderà a tutta la verità ed alla pienezza di vita. Basta vivere nella Chiesa di Cristo, esserne un membro vivente e sano, per essere un giorno, nel cuore della Chiesa, nostra Madre, amore. Alleluia.

 

 martedì 26 maggio 2009 – martedì dopo l’Ascensione - Gv 17. 1-11a – fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

   Quando dopo l’Ascensione del Signore ci prepariamo alla venuta dello Spirito Santo, la Chiesa ci propone la meditazione sulle parole di Gesù che rivelano l’unione profonda fra il Padre e il Figlio. Grazie a questo, possiamo capire meglio che la discesa dello Spirito è l’ascesa dell’umanità intera nella vita della Trinità. Nel mistero della Pentecoste non soltanto noi riceviamo lo Spirito, ma anche – o piuttosto soprattutto – lo Spirito fa di noi un sacrificio, un’offerta perenne a Dio gradita.

   Parlando dell’ora in cui il Figlio glorificherà il Padre, compirà la sua opera e sarà glorificato dal Padre, Gesù parla prima di tutto della sua croce gloriosa, perché la gloria dell’amore del Padre risplende nel Cristo Crocifisso. Parla anche della conseguenza della sua morte, cioè della sua ascensione per mezzo della quale il Padre lo glorifica davanti a se con quella gloria che il Figlio aveva presso di Lui prima che il mondo fosse. Ma parla anche del misterioso dono, che il Padre fa al Figlio: mi hai dato gli uomini. Possiamo dunque domandare oggi: in che modo Dio Padre, nella cui mano siamo tutti, ci dona al Figlio e che cosa significa per noi essere suoi, essere del Figlio?

   É chiaro che il Padre ci dona al Figlio per mezzo della nostra fede. La nostra fede – come ha detto Gesù – è opera di Dio (Gv 6,29). Il Signore ha detto anche: chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me (Gv 6,45). Tutti coloro dunque che hanno creduto che il Padre ha mandato il Figlio appartengono a Lui. E perché la fede nel cuore nasce come frutto della voce del Padre: Questi è il Figlio mio, l’amato (Mt 3,17), noi tutti, credenti in Cristo, siamo dono che il Padre ha fatto al Figlio. Già per questo siamo inseriti nella vita della Trinità: il Padre ci dona al Figlio.

   Ma Gesù spiega che ha ricevuto potere su ogni essere umano per dare la vita eterna a tutti coloro che il Padre gli ha dato. E se la vita eterna è conoscenza del Padre e del Figlio, che cosa può essere se non lo Spirito Santo, che conosce i segreti di Dio, le profondità di Dio (1 Cor 2,10)? Allora la nostra fede che ci introduce nella vita del Padre e del Figlio, introduce anche nel nostro cuore lo Spirito di Dio. Veramente siamo beati: viviamo nella pienezza della vita di Dio, il Padre ci dona al Figlio perché il Figlio ci doni lo Spirito della vita.

   É significativo che parlando dello Spirito Santo Gesù non ne ha usato il nome, ma l’ha chiamato vita eterna. In un altro passaggio del Vangelo Gesù ha parlato di Paràclito, in un altro di potenza dall’alto. Tutto questo significa che nemmeno la Parola può trovare le parole umane per descrivere lo Spirito Santo, per dargli un nome. Lo Spirito resta dunque anche per noi inafferrabile come il vento. Non possiamo vedere, né sperimentare in noi la vita eterna. La stessa forza dello Spirito si manifesta in noi nella nostra debolezza. Lo Spirito in un certo senso è un Grande Sconosciuto, il Nascosto, quasi l’Assente, ma invece è ovunque presente. Là, dove c’è la fede nel Cristo, nel Figlio mandato dal Padre, c’è sempre lo Spirito di Dio: invisibile, inafferrabile, ma che vivifica tutto. Ecco lo Spirito, la promessa del Padre, il dono del Figlio, l’amore di Dio. Che venga in noi! Alleluia.

 

  

Domenica 24 maggio 2009 – Ascensione del Signore – fr. Massimo-Maria

 

In questa solennità dell’Ascensione di Gesù al cielo, la Liturgia ci ha fatto leggere il racconto che gli Atti degli Apostoli offrono di questo mistero della vita di Gesù.

Gesù promette ai suoi amici lo Spirito Santo, il dono che li renderà testimoni della sua Pasqua, della sua Salvezza, fino ai confini della terra. Poi, precisa il testo, fu elevato in alto.

            Così gli Atti, in poche parole, descrivono l’Ascensione di Gesù al cielo.

            Lo stesso San Luca, nel suo Vangelo, unico tra gli evangelisti, descrive lo stesso mistero in questi termini: “…mentre Gesù benediceva i suoi discepoli, si separò da loro e fu sollevato verso il cielo”.

            Separazione, salita, cielo. Tutti termini per descrivere il solenne commiato del Signore dall’orizzonte terreno verso cui era disceso nel mistero dell’Incarnazione.

            In realtà non si tratta di commiato, al contrario è in quest’evento della vita del Signore che si concentra tutto il mistero Santissimo della sua Pasqua: Gesù superando la morte ed entrando nell’eternità svela la sua profonda identità di Figlio di Dio e il suo disegno salvifico per l’umanità.

(…)

Guarigione e conforto delle malattie. Dare senso anche al mistero della sofferenza e del dolore e passaggio verso una crescita nella fede.

Il Vangelo umanizza! Coinvolge tutto l’uomo nella salvezza. Ecco cosa deve fare il cristiano, ecco perché Gesù dice “Andate”.

Solo l’incontro con Gesù e l’accoglienza del Vangelo rende l’uomo libero, adulto, pienamente fedele alla sua vocazione.

Le ideologie antiche e moderne, esplicite o velate, (…) annunciano libertà, ma in realtà alienano e frustano l’uomo. Il Vangelo, vissuto come incontro con il Signore, rende certo l’uomo più uomo!

            Non è quindi, per nulla, il momento del cordoglio, del commiato ma piuttosto è una partenza che annuncia un ritorno, una separazione che assicura una nuova presenza, un passaggio che dice compimento, una privazione che prepara un dono.

            E la liturgia, con precisione e premura, ci mette su questa strada, invitandoci al canto, ad applaudire “Applaudite popoli tutti”, al giubilo, all’esultanza.

            Sì! Davvero esultiamo di santa gioia in questa liturgia di lode, poiché Gesù Risorto siede re per sempre accanto al Padre; perché con Lui la nostra umanità è innalzata fino a Dio; perché oggi e sino alla fine dei secoli noi sua Chiesa siamo inviati per indicare a cosa Dio chiama l’umanità nel mistero del Suo Figlio.

Celebrando questa liturgia, ascoltando la Parola del Signore, siamo come coinvolti in un duplice movimento, la Chiesa è tutta presa e proiettata da un duplice movimento: con Gesù verso il Padre e a causa di Gesù verso il mondo!

Da una parte il nostro sguardo, il nostro cuore, è invitato a salire verso il colle dove Gesù è diretto. Dall’altra la nostra vita è invitata ad andare. Non può lasciare indifferenti oggi l’invito pressante di Gesù: “Andate in tutto il mondo!”

Da questo duplice dinamismo che immette la liturgia, potremmo forse con una parola riassumere il tutto così: “Guardate il cielo e andate verso il mondo”!.

Cosa dunque guardare oggi, contemplare oggi nel cielo? Perché andare nel mondo?

Fratelli e sorelle oggi nel cielo contempliamo il compimento della Pasqua. Oggi nel cielo contempliamo il Figlio accanto al Padre sedere per sempre. Oggi contempliamo il dono che di là ci invia perché il suo partire non sia un lasciarci, ma un esserci diversamente.

Oggi, nel cielo - ed ecco che davvero il cuore è colmo di stupore e meraviglia. La nostra umanità abita il cuore di Dio, è innalzata nella gloria, ed è primizia di una moltitudine immensa.

Dio si è fatto uomo, perché l’uomo divenga Dio! Ecco cosa contempliamo oggi nel cielo, dove Gesù uomo e Dio per sempre si è assiso nella gloria.

Davvero inimmaginabile l’Amore di Dio. Nel suo Figlio davvero ha pienamente restituito l’umanità alla dignità perduta ponendo nel cuore di ogni uomo la speranza  di essere destinato a questa sorta di benedizione, a questo mistero di pienezza, a questo dono di salvezza.

Tutto questo nella esultanza del cuore e nel giubilo dell’anima.

Guardare il cielo sì, ma “andate….” invita Gesù! Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo!

Fratelli e sorelle, essere restituiti alla dignità perduta, alla pienezza di umanità non è frutto riservato al cielo, lì ci sarà il compimento e verso questo compimento noi camminiamo; ma già oggi inizia, si vive, si realizza questa vita nuova, questa vita piena.

Attraverso la predicazione del Vangelo l’uomo è posto nel cammino della  pienezza di vita oggi, all’uomo è indicata la strada di una vita davvero umana, pienamente umana, profondamente umana.

Ciò che davvero si realizza con la predicazione del Vangelo è restituire oggi l’uomo alla sua profonda vocazione umana.

Evangelizzare coincide con umanizzare.  Il Vangelo umanizza l’uomo

I segni di cui parla Gesù nel Vangelo sono proprio i risultati, gli effetti che si realizzano nel cuore umano che si apre al Vangelo.

Vittoria sul male e sul maligno

Dono come possibilità di una comunione insperata.

 

  mercoledi 20 maggio 2009 - VI settimana di Pasqua – Gv 16,12-15 fr. Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle, quando dopo la morte di Gesù, Maria di Màgdala Lo vede risuscitato nel giardino e sente le parole: “Non mi trattenere” (Gv 20,17), capisce che ora, dopo la Pasqua del Rabbunì, deve imparare a vivere con Lui in un altro modo. Tre giorni prima, le sue mani potevano toccare il Verbo della vita, ora non è più possibile. “Noli me tangere”, come la Vulgata traduce questa frase di Cristo, cioè: “non mi toccare!”, ha mostrato a Maria che ora è necessario di passare dalla carne allo Spirito. Perché la Parola ha preso carne, ma per donarle lo Spirito. Quando dunque il tempo pasquale si avvicina alla fine e Gesù con la sua carne risuscitata salirà al Padre, la Chiesa prepara anche noi ad entrare in questa nuova relazione con Lui ricordandoci le parole del Cristo sullo Spirito.

 

Gesù disse: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso”. Questa frase ci rivela il grande mistero della debolezza del Verbo incarnato: la Parola non può più parlare, è forzata a tacere a causa della fragilità degli apostoli! Ha detto tutto ciò che erano capaci di capire ed accogliere, ma tante cose restano da dire! Per il momento non è possibile... le cose da dire sono troppo pesanti. Eppure l’impotenza della Parola è soltanto apparente, perché “verrà Lui, lo Spirito della verità” e guiderà i discepoli a tutta la verità. Il Salvatore ha dunque rivelato, che quando il suo insegnamento diverrà incomprensibile e il suo peso impossibile da portare, lo Spirito verrà. Il silenzio del Verbo sarà dunque la sorgente dello Spirito.

 

Mi sembra, che il Cristo dicendo queste parole pensava alla sua croce. Questa cosa da dire, di cui Gesù parlava, era la sua morte, perché anche quando la annunciava apertamente, gli apostoli erano quasi sordi e non accoglievano queste parole nel loro cuore, come se fossero  incapaci di portarne il peso... Quindi Gesù annuncia la venuta dello Spirito, sapendo che lo Spirito verrà nell’ora della croce. É in quell’ora che il Cristo dà l’insegnamento impossibile da capire senza l’aiuto dello Spirito. La morte sulla croce per il cuore umano privato dello Spirito è scandalo, oppure stoltezza, ma nello Spirito diviene potenza di Dio e sapienza di Dio (1 Cor 1,23-24). Ecco perché Gesù ha promesso: “lo Spirito vi guiderà a tutta la verità”, perché solo Lui è capace di spiegare il mistero della croce.

 

Il Cristo, quando non aveva più la possibilità di parlare, ha visto le parole dello Spirito – perché lo Spirito parlerà! – parlerà, quando la Parola entrerà nel silenzio della morte! Le sue parole non saranno più corporee. Non verranno agli uomini nelle vibrazioni dell’aria, non entreranno nei loro orecchi, non busseranno alle porte del loro intelletto. Lo Spirito parlerà direttamente al cuore riversando nei nostri cuori l’amore di Dio (Rom 5,5) e in questo modo glorificherà il Figlio, perché la presenza dell’amore di Dio ci renderà capaci di capire, che il Cristo crocifisso non è scandalo, né stoltezza, ma la vera immagine del Padre, Datore di vita. Nello Spirito dunque vedremo, che la croce è la verità, tutta la verità, e un giorno cominceremo a desiderare di dare la vita, cioè di essere crocifissi anche noi!

 

Fratelli e sorelle, vietando a Maria di Màgdala di trattenerlo, Gesù ha detto: va’dai miei fratelli. E lei ha capito che ora colui, che il Padre ha mandato, mandava lei. In un certo senso per toccare il suo amato, Maria deve dunque divenirLo, perché questo è il nuovo modo di essere con Cristo risuscitato: imitarLo e donare la vita per gli altri. Nessuno può fare questo senza lo Spirito Santo, perché senza di Lui donare la vita non è che la morte sulla croce: scandalo e stoltezza. Maria doveva dunque ricevere il dono dello Spirito e va dagli apostoli nella sua forza. Può dire in tutta verità: “ho visto il Signore!”, perché l’amore di Dio è stato riversato nel suo cuore. Preghiamo dunque lo Spirito, invochiamoLo e supplichiamoLo, che venga anche da noi per guidarci a tutta la verità, affinché possiamo vivere con Cristo risuscitato e donare la nostra vita per i fratelli. Alleluia.

 

 Domenica 17 maggio 2009 - in occasione dei primi voti di Sr.Adriana (FMJ di Firenze) e fr.Marco-Maria (FAJ di Pistoia)   p. Pierre-Marie FMJ

Si resta sempre sorpresi notare

come Gesù ha voluto scegliere

“una donna dalla quale aveva cacciato sette demoni” ( Lc 8,2 ).

per farne l’Apostola degli Apostoli.

La prima delle creature alla quale è apparso Risorto.

 

Il fatto è che, come ce lo ha ricordato la Lettera di San Giovanni

“Non siamo noi che abbiamo amato Dio

ma è Lui che ci ha amato per primo” ( 1 Gv 4,11).

Qualunque siano i nostri torti, i nostri ritardi, i nostri peccati,

la nostra vita passata.

 

E Gesù da parte sua ci precisa:

“Non siete voi che avete scelto me,

ma sono io che vi ho scelto e costituito

perché andiate e portiate frutto,

un frutto che resti per sempre.” ( Gv 15,16)

 

Egli ha dunque scelto e amato Maria Maddalena spontaneamente.

Non dimentichiamo mai che ciascuno di noi

è amato ugualmente per primo con gratuità, da Dio,

Lui che preferisce ciascuno!

 

Sorella Adriana, fratello Marco-Maria

non siete dunque voi che l’avete scelto,

ma è Lui,  che per primo, vi ha amato e chiamato.

 

La vita monastica, apostolica, cristiana è innanzitutto

una risposta ad una chiamata divina.

  

Non dimentichiamo tuttavia che l’Amore non si dona che all’amore.

“ Dio che è amore” (1Gv 4,8 ) non si dona dunque

senza attendere il nostro amore in risposta.

Diversamente non sarebbe che condiscendenza!

 

   E’ detto della peccatrice del Vangelo

che poiché ha molto amato

i suoi peccati, i suoi molti peccati, gli sono stati perdonati. ( Lc 7,47 ).

Il pianto di Maria davanti al sepolcro testimonia questo stesso amore.

 

   San Giovanni ci ha appena ricordato questa parola ammirabile:

“ Chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio” ( 1 Gv 4,7 )

Potessimo noi continuare dicendo da parte nostra:

“ e noi abbiamo conosciuto e creduto

all’amore che Dio ha per noi”( 1 Gv 4,16a ).

 

   Che grazia per la nostra vita se noi crediamo a questo Amore!

“Poiché colui che dimora nell’amore

dimora in Dio e Dio dimora in Lui” ( 1 Gv 4,16a ).

 

Su quale criterio, quale unico criterio

l’Apostolo Pietro è stato designato da Gesù Risorto

per essere il pastore degli agnelli, delle pecore e di tutto il gregge?

 

Non sul suo sapere dottrinale, sulla rettitudine della vita,

neppure sulla sua fede, sul suo zelo,

sulla sua intelligenza o sulla sua generosità….

Ma sull’Amore.

 

“Pietro, Pietro mi ami tu?

Mi ami tu più che costoro? Mi ami tu veramente?” ( Gv 21,15-17 )

 

E’ sull’Amore del suo cuore

che il primo papa della cristianità è stato istituito.

 

Che bella richiesta per noi Amare!

Gesù  la pone a ciascuno oggi:

“Adriana, Marco-Maria mi ami tu ?”

 

Se è sì, voi potete avanzare per la professione

alla vita apostolica o monastica.

 

A ciascuno di noi qua presenti in questo giorno, ci chiede la stessa cosa:

“ Mi ami tu? Personalmente?

Se è sì, voi potete essere sicuri che il Cristo Risorto

non vi abbandonerà e non vi deluderà mai!

 

La Sua Parola vi parlerà. La Sua vita vi vivificherà.

La sua Gioia vi rallegrerà! La Sua Pace vi pacificherà.

Alla Sua Luce vedrete la Luce.

 

E nella vostra vita sia monastica, apostolica, evangelica, laica,

Egli vi ridirà “ Và dai miei fratelli e dì loro:

Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro.” ( Gv 20,17 )

 

Divenuti figli della Resurrezione.

Divenuti dunque testimoni della Resurrezione.

 

E un giorno, nel giardino dell’aldilà della tomba,

Egli vi apparirà. Voi vedrete il suo volto di luce.

Egli vi chiamerà col vostro nome nuovo

scritto sul sassolino bianco. ( Ap 2,17 )

Col cuore pieno di gioia voi lo vedrete faccia a faccia. ( 1 Cor 13,12 )

 E gli direte, come Maria : “ Rabbunì”! ( Gv 20,16 )

Noi entreremo allora in tutta la nostra pienezza

nella pienezza di Dio ( Ef 3,19 )

 

“Rabbunì! Fa che io non attenda la mia morte per vederti! “

 

 venerdì 8 maggio 2009 - IV settimana di Pasqua - Omelia di fr.Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

Le parole di Gesù, che la Chiesa ci dà oggi da meditare, sono state pronunciate dal Cristo nell’ora del suo passaggio da questo mondo al Padre – secondo la sua espressione – cioè nell’ora della sua morte – come diremmo noi. I suoi discepoli erano già consci delle serie difficoltà del loro Maestro e il loro cuore, che presentiva la sua morte, era turbato. Gesù apre dunque il suo Cuore per offrire loro la luce della verità e la pace. Anche per noi oggi queste parole di Cristo sono la sorgente della gioia più forte e più grande di ogni angoscia e difficoltà.

Gesù ha detto, che nella casa del Padre suo ci sono molte dimore. È veramente strana questa frase. Se Dio è più grande di ogni creatura, se è tre volte santo – quindi separato da tutto, se abita – come dice san Paolo – una luce inaccessibile (1 Tim. 6,16), come è possibile che la sua casa sia aperta a tante persone?! Isaia trovandosi un giorno davanti al trono del Signore pensava di essere perduto, perché i suoi occhi avevano visto il re, il Signore degli eserciti (Is 6,4). Fra i Giudei nel deserto soltanto san Mosè era capace di parlare con Dio, perché gli altri avevano paura, che il grande fuoco della presenza del Signore li avrebbe consumati (Dt 5,25). Il Salmista si domanda: chi potrà salire il monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo? (Sal 24,3) e afferma l’esistenza d’un grande abisso fra Dio e gli uomini: i cieli sono i cieli del Signore, ma la terra l’ha data ai figli dell’uomo (Sal 115, 16). Anche nel Tempio di Gerusalemme, nella casa terrena di Dio nessuno poteva entrare, se non il sommo sacerdote una volta all’anno. Si, Dio è unico ed inaccessibile. Allora, perché Gesù dice che nella sua casa ci sono molte dimore?

Per il Cristo Dio non è inaccessibile. Al contrario, è la sua Sapienza che siede accanto a Dio in trono (Sap 9,3) e che era presente quanto creava il mondo (Sap 9,9); è il Figlio di Dio, al quale il Padre ripete senza fine la novità: io oggi ti ho generato (Sal 2,7); è infine il Verbo di Dio, che dal principio è presso Dio (Gv 1,1). Il Cristo non soltanto ha l’accesso al Dio inaccessibile, ma è con Lui una cosa sola. Quindi Gesù sa molto bene che il fatto, che Dio sia unico, non significa, che sia solo: unico Dio è il Padre col Figlio nello Spirito Santo. Per Cristo la casa di Dio non è dunque la fortezza di un solitario, ma è veramente la casa del Padre; là dove è Dio c’è sempre comunione dei Tre. Ma parlando ai suoi discepoli della casa del Padre – possiamo immaginarci con quale nostalgia! – il Figlio ha detto che ci sono molte dimore: non una per il Figlio unico, ma molte.

Fratelli e sorelle, mi sembra che questa frase del nostro Salvatore ci mostri la sua gioia per il mistero della nostra salvezza. Il Figlio vede che la casa del Padre, dove Lui da sempre ha la sua dimora, è adesso non soltanto la sua casa, ma è divenuta casa delle moltitudini. Perché quando il Cristo ha preso la carne umana, è divenuto primogenito tra molti fratelli (Rm 8,29). E anche se noi non conosciamo per ora bene la casa del Padre e con Tommaso possiamo onestamente dire: Signore, non sappiamo dove vai... la gioia del Figlio, che ritorna al Padre con tutti noi, con tutti i suoi fratelli, è anche la nostra. Perché in Cristo vediamo già la via verso il Padre, la verità sul Padre e la vita del Padre. Tutto questo è il Figlio: la via, la verità e la vita del Padre. E anche noi in Cristo siamo suoi figli. Alleluia!

 

Domenica 3 maggio 2009 - IV Domenica di Pasqua - Omelia di fr.Massimo-Maria FMJ - Gv.10, 11-18

 “Io sono il Buon Pastore”

Oggi in tutta la Chiesa, nella liturgia della IV domenica di Pasqua, risuona con vigore questa Parola di Gesù, che si dichiara appunto il Buon Pastore.

         Se l’immagine del pastore certo è suggestiva ed altamente evocativa, è tuttavia la qualità di questo pastore che merita attenzione. “Io sono il Buon Pastore” dice Gesù.

         Nel testo greco sarebbe piuttosto il pastore bello. Nella mentalità orientale infatti ed anche in quella greca, la bellezza, la bontà, la verità e la generosità si fondono sempre insieme in un’unica realtà.

         Cosa Gesù vuole dunque affermare in verità con questa Parola? Perché lui è il Buon Pastore? Quali sono i segni di questa sua bellezza – bontà, che tra l’altro lo distinguono dall’altra figura che pure compare nel testo, quella appunto del mercenario?

         Il primo segno della bontà-bellezza del Pastore Gesù è l’offrire la vita. Quattro volte nel testo di oggi ritorna questa parola: offrire la vita, donare la vita.

         Gesù riaffermerà la stessa idea nel contesto dell’ultima cena, quando sarà ormai giunto all’ora in cui il dono della sua vita si sta per compiere in modo cruento. Affermerà Gesù appunto nel Cenacolo: “Nessuno ha un amore più grande di chi dona la vita”.

L’offrire la vita quindi del Pastore Gesù è essenzialmente la prova dell’Amore, del suo amore per il gregge.

Per Gesù la vita, la sua vita umana, fragile e vulnerabile come la vita di ogni suo fratello in umanità, poiché ama diviene moneta di scambio, veicolo di amore, di un amore grande, sconsiderato, infinito. Per questo Gesù è il buon pastore, il pastore bello, che a differenza del mercenario davanti al pericolo del gregge non fugge, ma si offre, non abbandona, ma si erge a protezione, fa scudo con il suo corpo, non lascia disperdere o rapire il gregge, ma si immola perché ogni pecora sia custodita, abbia la vita e l’abbia in abbondanza.

Gesù è il buon pastore perché offre liberamente, generosamente e con fiducia grande nel Padre, la sua vita.

Altro segno della bontà del Pastore Gesù, altro connotato del volto di questo pastore bello, è la conoscenza. “Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”.

Nella Scrittura il verbo conoscere raccoglie in sé migliaia di sfumature che coinvolgono mente, cuore, passione, affetto, volontà, intelligenza ed azione. Tra il Pastore ed il gregge vi è una profonda conoscenza reciproca, vi è una comunione di vita radicale, un legame reciproco solido e ben fondato.

         Questa conoscenza reciproca dice particolarmente una comunione reale ed intensa che non è infranta neppure dagli sbandamenti del gregge, non è scalfita dalle ribellioni di alcune pecore e sciupata dall’isolamento e solitudine in cui alcune possono scegliere di collocarsi per il mistero esaltante e tremendo della libertà del cuore.

         Questa conoscenza che dice comunione e declina ancora una volta il mistero dell’amore di Gesù Signore, è un tratto essenziale di questo Buon Pastore.

         Davanti a noi oggi, Gesù il Buon Pastore viene con mitezza e grande audacia a mostrarci la sua Bontà e Bellezza, il suo amore e la sua tenerezza che vuole ancora una volta provocare la nostra vita, segnare la nostra storia, convertire il nostro cuore.

         Quale luce può ricevere la nostra esistenza quando cresce nella consapevolezza che essa è custodita dal Signore.

         Non si addormenta mai il Signore per difenderci, non fugge mai nei pericoli, non ci abbandona mai nella sofferenza, non si dimentica di noi nella tentazione, non ci lascia nel buio, nella notte, nell’angoscia, nella morte.

         Quale forza può essere donata alla nostra vita se non dimentica che Lui ci conosce, Lui ha stretto una comunione profonda, una autentica amicizia, solida e indefettibile, con ogni sua pecora. Gesù ci conosce così, siamo noi disposti a vivere di questa conoscenza, cioè di questa comunione, di questa amicizia?

         Se il volto di questo Pastore oggi ci commuove e ci sorprende, nella sua Parola ci rivolge un invito: ascoltare la sua voce.

         E’ vero che nel testo, dice Gesù che altre pecore ascolteranno la sua voce, e formeranno un solo gregge, e qua c’è certo delineato il grande mistero dell’unità della Chiesa, che nasce dall’ascolto dell’unica voce che è quella di Gesù; tuttavia questo invito di ascoltare la sua voce possiamo accoglierlo oggi noi personalmente, per fare unità nella nostra vita, per scoprire questo amore del Pastore bello che è Gesù, per sperimentare le premure tenere e forti del Buon Pastore.

         Fratelli e sorelle, cari amici, noi discepoli di Gesù, battezzati, consacrati, laici e religiosi, quali voci ascoltiamo?

         La voci sono davvero tante, tutte interessanti, tante seducenti e molte convincenti. Quelle dei nostri ragionamenti che ci rassicurano sulle nostre aure. Quelle dei nostri calcoli che ci autorizzano a non scomodarci a favore degli altri. Quelle del nostro cuore ferito dal peccato che spesso ci presenta come buono ciò che è egoistico. Quelle del mondo che mette in ridicolo il Vangelo, la fedeltà al Signore, i valori che Lui propone, la bontà, la mitezza, la semplicità, la povertà, la libertà da se stessi. Quante voci che costantemente ci raggiungono e ci stordiscono.

         Una pagina memorabile di papa Paolo VI è interessante riascoltare a proposito:

         “Tutte voci suadenti che cercano di scuotere il nostro animo spesso incline a prendere l’ultima voce, quella dei più come se fosse la più vera e la più importante. Diletti figli – continua il papa – sappiate distinguere tra il rumore di queste voci ingannevoli, la Voce per eccellenza, la voce di Dio, quella che vi ha chiamato, l’unica vera voce che può rispondere alle vostre profonde e sante aspirazioni. Sappiate tenere l’orecchio sempre attento a questa voce. E’ questa la voce che qualifica e che determina il destino e il cammino della nostra esistenza. Tenetele fissa questa voce, tenetela cara”.

         Fratelli e sorelle, oggi in questa Eucarestia vogliamo allora ridire con umiltà e forse anche umiliazione, riconoscendo che spesso non abbiamo ascoltato la Sua voce, vogliamo ridire al Signore il nostro proposito generoso e gioioso vivere nella pace della protezione di Lui, il Buon Pastore, di camminare nella luce della sua amicizia e di seguirlo prontamente ascoltando ed obbedendo alla Sua voce. Così sia.

 

 sabato 2 maggio 2009 - Sant'Atanasio - Omelia di fr.Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle, san Gregorio di Nazianzio pronunciando l’orazione in onore di sant’Atanasio – probabilmente il 2 maggio del 390, sette anni dopo la sua morte – ha detto che il Patriarca d’Alessandria merita un libro e non soltanto un’orazione. Anch’io lo penso e vorrei raccontarvi tutta la vita d’Atanasio e farvi conoscere tutto il suo insegnamento, perché si tratta di cose veramente belle ed edificanti, ma sono conscio che nessuno è in grado di esprimersi fino in fondo con le parole (Qo 1,8), e oltre a ciò non abbiamo troppo tempo. Mi permetto dunque di citare soltanto una frase d’Atanasio e commentarla. Nel suo commento ai salmi ha scritto: "La salvezza offerta al mondo dal Padre è il Figlio, la salvezza offerta al mondo dal Figlio è la croce” (Ex. ps., PG 27, k. 125).

Questa frase semplice e breve ci permette di entrare – con sant’Atanasio e seguendolo – nel mistero della vita cristiana. Il suo fondamento è la convinzione che il mondo ha bisogno di essere salvato. Non soltanto l’uomo, ma tutto ciò che è stato creato non può esistere senza Dio e senza il suo aiuto continuo. Allora, in ogni momento Dio salva il mondo, sostiene tutto con la sua parola potente (Ebr 1,3). Per Atanasio, come per tutti quelli che credono, il dinamismo che opera nel mondo non è una forza morta, un’energia cosmica. L’ordine del mondo, le regole e le leggi che lo conservano e lo fanno esistere e funzionare, tutto questo è il Verbo di Dio, la sua Parola e la sua Saggezza vivente, che è anche il Figlio di Dio. Il mondo non esiste grazie a se stesso, ma grazie a Lui e perché è sempre inserito nel Padre. Quale gioia, guardare il mondo così: per questo sguardo di fede possiamo vedere Dio in tutto, il mondo non ci separa più dal Padre, ma ce ne parla, perché vediamo nella creazione intera il Figlio di Dio, e chi lo vede, vede anche il Padre.

Ma la fede cristiana e la frase d’Atanasio vanno ancora più lontano. Il Figlio di Dio Creatore, che continuamente salva il mondo sostenendolo nell’esistenza, ha fatto per noi, uomini un’opera ancora più grande. Nel mondo tutte le creature nascono e muoiono, tutto cambia e passa, perché così è la natura degli esseri creati. Soltanto per l’uomo la morte e la consapevolezza della sua provvisorietà sono state causa di sofferenza e di infelicità. Allora, per la nostra salvezza il Figlio di Dio che è la Vita immortale ed eterna si fece uomo mortale e morì sulla croce. “Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto, ma ora, vivo, trionfa!”. Si, la croce – la morte di colui che è la vita – è veramente la salvezza offerta al mondo dal Figlio, perché nel suo mistero la morte ha toccato il Dio Immortale e questa è stata la sua fine. Per mezzo della croce, accogliendo la nostra morte, il Figlio di Dio ha donato agli uomini la sua immortalità.

Sant’Atanasio sapendo tutto questo ed accogliendo la fede cristiana con il cuore aperto gustava già sulla terra la pace e la gioia dell’eternità. Seguiamolo coraggiosamente. Alleluia!

 

 sabato 25 aprile 2009 - San Marco - Mc.16, 15-20 - Omelia di fr.Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

Alessandria in Egitto dal III secolo avanti Cristo possedeva una grande biblioteca, veramente grande. C’erano, in questa biblioteca quasi tutti i libri che il mondo antico conosceva. La città era fiera di questo fatto, perché testimoniava la grande saggezza dei suoi abitanti. E veramente Alessandria era famosa nel mondo per la sua ricerca scientifica. Tutte le scuole filosofiche avevano qui i suoi maestri, la conoscenza della letteratura superava quella di Atene, per la matematica, la fisica, l’astronomia, la medicina e la botanica era stato organizzato il Museon, cioè il centro scientifico con i sapienti pagati lautamente dallo Stato per il loro lavoro. Si, Alessandria era una città veramente saggia.

Ma un giorno, in questa città venne Giovanni-Marco, un Giudẹo, che qualche anno prima era stato à Roma con un altro Giudeo, Simone chiamato Pietro servendogli come interprete. Che cosa questi due Giudei fẹcero nella città eterna? Annunciarono il Vangelo. I cittadini del’Impero Romano conobbero i vangeli – le buone novelle – molto bene: ogni decreto dell’Imperatore fu chiamato così, anche quando concerneva l’aumento di tasse oppure l’inizio di una nuova guerra. Ma questi evangelisti affermavano che c’è un altro re: Gesù (At 17,7), e annunciavano il suo Vangelo: “Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e ricevete il dono dello Spirito Santo”(At 2,38). Ecco il Vangelo annunciato da Pietro e da Marco: Gesù, il Re del cielo e della terra perdona i peccati a tutti e dona lo Spirito Santo!

I Romani ascoltavano volentieri le parole di Pietro tradotte da Marco. Come dice Beda il Venerabile: la dolce parola di verità tanto illuminava i cuori di tutti i suoi ascoltatori, che non erano mai sazi, nonostante lo ascoltassero ogni giorno (In Marci Evangelium 1). E domandavano a Marco di scrivere ciò che Pietro annunciava. Dapprima non voleva soddisfare la loro domanda, ma poiché erano come la vedova importuna della parabola e gli davano molto fastidio (Lc 18,5), finalmente cedette alle loro pressioni e scrisse le parole di Pietro all’insaputa di lui. Quando Pietro lo venne a sapere si senti privato, spogliato di qualcosa, ma comprese che per mezzo dello Spirito Santo questa specie di furto religioso era un dono per tutta la Chiesa, affinché il suo annuncio rimanesse e fosse letto per sempre, e fu contento. In questo modo grazie all’insistenza dei Romani il mondo antico ha visto ancora un libro: il Vangelo predicato da Pietro, il Vangelo di Gesù Cristo, il re dei Giudei, che annuncia il perdono dei peccati e promette il dono dello Spirito Santo.

Con questo libro non grande – sapete molto bene che il Vangelo secondo Marco è infatti un piccolissimo libretto – l’interprete di Pietro venne ad Alessandria, là dove si trovava la grande biblioteca contenente quasi tutti i libri del mondo. Però Marco era certo che la Parola vestita da lui in parole, è più preziosa per gli Alessandrini – come per tutti gli uomini che cercano la verità e la sapienza – di ogni parola umana. Era sicuro che la luce di questa Parola da lui portata in Egitto avrebbe rivelato che i dotti sono ignoranti, avrebbe imposto ai retori il silenzio, avrebbe reso stolti sottili dottori, ma avrebbe innalzato il popolo da profonda ignoranza, dandogli la scienza vera e salvandoli. E Marco aveva ragione: meditando il Vangelo gli Alessandrini divenuti cristiani crearono in poco tempo la biblioteca grande come la biblioteca alessandrina pagana. La biblioteca pagana e i suoi numerosi libri non esistono più, ma i testi di Clemente, Origene, Diogene, Alessandro, Atanasio il Grande, Didimo il Cieco e Cirillo di Alessandria sono letti dalla Chiesa su tutta la terra fino ad oggi. Soprattutto il Vangelo di Marco, libretto piccolissimo invisibile nell’ombra della grande biblioteca si è mostrato un libro straordinario, letto con passione da tutte le generazioni.

Fratelli e sorelle, celebrando oggi la festa di San Marco Evangelista vogliamo rimarcare tre cose. Prima cosa: non soltanto ad Alessandria, ma anche nel nostro cuore c’è una grande biblioteca piena di saggezza umana. Questa biblioteca deve diminuire per cedere in noi il posto alla saggezza di Dio. Seconda cosa: il Vangelo – nel suo strato umano – può sembrarci quasi niente, particolarmente in confronto ai tanti libri saggi. Questo giudizio, peraltro naturale, può nascere non soltanto nei cuori dei laici, ma anche dei monaci e delle monache – specialmente quando conoscono il testo della Scrittura quasi a memoria. L’unica medicina contro questa menzogna è prendere e leggere il libretto piccolissimo per vedere la sua immensa profondità. Terza cosa: le parole del Vangelo non sono numerose e il suo testo è così sobrio e modesto, perché dietro di lui si nasconde – oppure è meglio dire: per mezzo di lui si rivela – la Parola di Dio, è questa che dobbiamo trovare. Non le parole umane sono importanti, anche se sono le parole dell’Apostolo, ma conta soltanto la Parola che è sorgente di tutto: la Parola vivente, il Verbo di Dio, suo Figlio fatto uomo, Gesù Cristo. Stiamo cercandolo e non cesseremo finché non lo troveremo.

Preghiamo oggi San Marco, umile Evangelista, che intercede per noi dal cielo dove sta contemplando il Cristo, Figlio di Dio, il cui volto noi stiamo cercando nel Vangelo e in questi santi misteri. Amen.

 

 giovedì 16 aprile 2009 - ottava di Pasqua - Lc.24, 35-48 - Omelia di fr.Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

Non è facile credere nella Risurrezione del Crocifisso. La fede cristiana, per trovare posto nel cuore umano, deve vincere molte difficoltà. Fra le difficoltà c’è – paradossalmente – la gioia, perché leggiamo nel vangelo, che i discepoli “per la gioia non credevano ancora”.

La Gioia – come dice san Tommaso d’Aquino – è causata dalla possesso o dalla presenza del bene amato. É chiaro dunque, che i discepoli gioirono al vedere il Signore (Gn 20,20). Erano tristi e piangevano, quando lo sposo era stato loro tolto (Mc 2,20), ma – come Gesù aveva detto – il loro cuore si rallegrò, quando il Signore risorto venne e stette in mezzo a loro. Prima avevano l’impressione di vedere un fantasma e non un uomo vero, allora Gesù mostrò loro il suo corpo e manifestò di avere carne e ossa. In questo momento i discepoli erano pieni di gioia e stupore, ma questa gioia – secondo le parole dell’Evangelista – non permetteva loro di credere. Perché?

Gli Apostoli erano testimoni della venuta del Verbo di Dio, della sua Incarnazione. Credevano che Gesù Cristo è Dio nella carne. Allora la sua morte colpiva la loro fede, perché erano convinti che la morte e la sofferenza non sarebbero mai accadute al Figlio di Dio (Mt 16,22). E come la crocifissione del loro Messia ha tolto loro tutta la gioia, la sua risurrezione l’ha ristabilita. Ecco a loro sembrava, che il Cristo – come era stato loro tolto – così ora tornava a loro vivo. La gioia ha eliminato la tristezza. Ma il Signore non voleva questa gioia, non voleva che loro credessero così. Quando Maria di Magdala riconobbe Gesù risorto e esclamò con gioia: “Rabbunì”, lui le disse: “Non mi trattenere”, vietandole di ritrovare la gioia nel suo ritorno alla vita (Gn 20,17). Quando i discepoli trovarono la gioia nel pasto con Cristo, lui aprì loro la mente affinché comprendessero le Scritture, perché il nostro Signore, manifestandosi dopo la sua morte, voleva mostrare il senso profondo della sua Venuta e della sua Pasqua. Pasqua del Signore non è un semplice ritorno d’un morto alla vita, ma è un ritorno di tutta la creazione al Padre. Questa verità esige che noi siamo pronti a lasciare entrare nel nostro cuore una gioia inimmaginabile.

Fratelli e sorelle, la gioia che Gesù vive è troppo piccola per credere e per godere della sua Risurrezione. Ma c’è anche una gioia spirituale, che ha Dio per oggetto ed nasce dalla carità. Abbiamo bisogno di questa gioia per credere pienamente nella Risurrezione. Naturalmente è cosa buona essere nella gioia avendo vicino a noi il Cristo risorto e mangiando con Lui, ma ancora meglio è essere con Cristo risorto nel Padre. Come Lui ha detto, la sua gioia è osservare i comandamenti del Padre e rimanere nel suo amore (Gn 15,10). E anche secondo le sue parole, la sua gioia può essere in noi per rendere la nostra gioia piena (Gn 15,11). Allora anche noi possiamo amare Dio e possederLo, possedendoLo avremo la carità perfetta che ci donerà la gioia spirituale. Svuotiamo dunque il nostro cuore dalla nostra piccola gioia, che è ostacolo per la fede, ed apriamolo alla gioia di Cristo.

Nel Cristo, il Verbo di Dio non ha preso la nostra natura umana, per portare Dio all’uomo, perché Dio è sempre presente in noi. Ma Lui l’ha presa, affinché la natura umana possa possedere Dio. Il Verbo creatore è divenuto creatura mortale, affinché la creazione anche nella sua mortalità possa essere unita col suo Creatore. Allora, veramente la risurrezione del Cristo non è il suo ritorno alla vita nel mondo, ma è sopratutto il nostro ritorno alla vita nel Padre. Entrando nella morte Dio non l’ha distrutta nel senso che le sue porte si sono chiuse, nessuno morirà più e la natura umana non è più mortale. E ancora, in un certo senso Gesù Cristo non è fuggito dalla morte, perché anche nella sua gloria celeste Lui è un Agnello immolato, scannato, sgozzato (Ap 5,6). Ma il Cristo ha preso l’uomo mortale unendosi a lui, per vivere la vita umana intera in comunione col Padre e in questo modo fare ritornare l’umanità intera al suo Creatore. Il Cristo ha provato la morte (Eb 2,9) per restituirla a Dio, per immergerla nell’Immortale. D’ora in poi la nostra condizione mortale non è nostra nemica, ma nostra sorella. Per il fatto che il Cristo con la nostra carne e la sua mortalità dimora nel Padre e vive eternamente, anche noi, adesso, possiamo vivere nel Padre.

Fratelli e sorelle, ecco la pienezza di gioia offerta ai credenti attraverso Cristo risorto. Allora, non mangiamo con Lui il nostro pane ed i nostri pesci arrostiti, non tratteniamoLo, non speriamo in Cristo soltanto per questa vita (Cor 15,19), ma con la mente aperta per comprendere le Scritture, convertiamoci, riceviamo il perdono dei peccati e siamo testimoni della vita nuova, della vita nel Padre. Dio ci aspetta a questa meta, nella vita più felice e più gioiosa che sia dato immaginare. Alleluia!

 

 mercoledi 8 aprile 2009 - Settimana Santa - Mt.26, 14-25 - Omelia di fr.Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

La luce della risurrezione di Cristo sgorga nella notte di peccato degli uomini. Un abisso chiama l’abisso (Sal 42,8) – come dice il Salmista – allora entrando nella sua gloria il Signore discende nelle nostre tenebre. E noi meditiamo in questi giorni il suo amore che non gli ha lasciato opporre resistenza e tirarsi indietro (Is 50,5) davanti alla sofferenza. Dio si è fatto uomo ed entra nella morte, perché noi volemmo un giorno essere come Dio...

Il progetto creatore di Dio era magnifico: Lui, Dio eterno ha creato l’uomo a sua immagine (Gn 1,27), lo ha creato per l’incorruttibilità (Sap 2,23). Ma ecco l’uomo vive adesso così poco che viene chiamato mortale. Allora, dov’è adesso la nostra immortalità, dove sono le meraviglie di Dio? L’abbiamo perduta per il nostro peccato. Scegliendo il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male per essere come Dio, l’uomo ha perduto il frutto dell’albero della vita (Gn 3,24) e la sua somiglianza col Creatore. Ecco il paradosso del peccato: l’uomo creato per vivere eternamente, sulla base di questo desiderio di eternità ha deciso di rendere eterna sa sua mortalità; fatto per essere Dio, lui si fece Dio, o piuttosto credette d’essere Dio, e in questo modo incarcerò se stesso nella misera condizione dell’essere creato. Ecco il peccato del mondo, a cui tutti noi partecipiamo: essere come Dio senza Dio. Qui é la fonte di ogni male e della nostra sofferenza.

Allora uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota non é il peccatore eccezionale. La causa del suo peccato è la stessa causa di tutti i nostri peccati: l’orgoglio. Giuda crede d’essere come Dio, di conoscere il bene e il male e di seguire le orme dell’Onnipotente. Poiché i servi del Tempio e della Legge - i capi dei sacerdoti e i farisei – avevano dato ordine che chiunque sapesse dove Gesù era lo denunciasse (Gn 11,57), lui andò da loro e propose di consegnarlo. In più l’Apostolo si comporta con Cristo, come il profeta Zaccaria si comportava con le sue pecore. Il profeta, che rappresenta Dio, come sta scritto era detestato dalle sue pecore. Allora disse: “Chi vuole morire muoia, chi vuole perire perisca” e vendette le sue pecore ai mercanti prendendo da loro trenta sicli d’argento (Za 11,8-13). Tutto questo avvenne per rivelare il mistero di Dio, che accetta la scelta degli uomini e li lascia abbandonare il loro Dio e la loro vita. L’Apostolo ha udito il Cristo parlare della sua morte e della sua sepoltura. Come i sacerdoti e i farisei, lui ha considerato Gesù l’uomo peccatore. Forse ha detto nel suo cuore: “chi vuole morire muoia” e poi andò a vendere Gesù per trenta monete d’argento, come Dio aveva venduto per opera del suo profeta le sue pecore. Giuda Iscariota credette d’imitare Dio! Ma, al contrario, non diverrà imitatore di Dio, ma suo traditore, come i nostri primi genitori che volendo essere come Dio, si trovarono nudi e privi della vita; e come noi tutti quando credendo di essere forti come gli dei, entriamo nella morte. Giuda crede d’essere Dio fino alla fine: vedendo che aveva peccato, perché aveva tradito sangue innocente, non si consegnò al giudizio di Dio per ottenere il perdono, ma si giudicò da solo, si allontanò e andò a impiccarsi (Mt 27,5).

 Fratelli e sorelle, il triste e tragico esempio di Giuda ci rivela il mistero del peccato. Il peccato consiste nel compiere il progetto di Dio senza di Lui e senza la sua grazia, ma soltanto con le forze umane. É vero che siamo creati per essere come Dio, ma dobbiamo umilmente aspettare la sua grazia. Nella pazienza e nell’accettazione della volontà di Dio é la nostra salvezza. Innalzarsi e guidare se stesso – ecco il cuore del peccato! Essere innalzato e lasciarsi guidare verso la vita eterna – ecco il magnifico progetto di Dio per gli uomini!

Il peccato ha rivelato la pienezza della sua bruttura nello stesso tempo che la grazia rivelava tutta la sua bellezza: nella passione e nella croce di Gesù Cristo. Il Figlio dell’uomo è venuto per donare la vita, ma gli uomini hanno preferito prendergliela. Lui si donò liberamente, essi lo uccisero. In questo modo attraverso il peccato la salvezza offerta agli uomini divenne il sacrificio del sangue e la croce di Cristo non fu solo il segno dell’amore che si dona senza limiti, ma anche il segno del peccato che prende tutto per se senza pietà. Le parole di Gesù Cristo che udiamo oggi: “Il Figlio dell’uomo se ne va, ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito”, ci mostrano la differenza totale fra le due realtà che molto spesso ci sembrano simili: accettare il dono di Dio o prenderselo. Gesù Cristo accettò umilmente la volontà del Padre: prese la carne umana e con lei la nostra condizione mortale e dopo la morte sedette alla destra della Maestà di Dio (Eb 1,3) e non muore più. Giuda prese il dono di Dio secondo la sua volontà, si comportò con Cristo come voleva e davvero non sappiamo che cosa sia di lui adesso.

Fratelli e sorelle, poiché siamo plasmati della stessa argilla di Giuda, ma abbiamo ricevuto lo Spirito di Cristo Gesù, siamo chiamati oggi – un giorno prima del Triduo Santo – alla conversione. Abbandoniamo ogni desiderio di vivere e agire senza Dio, di farci Dio, di innalzarci. Abbiamo in noi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù. Egli svuotò se stesso, umiliò se stesso e si fece obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò (Fil 2,5-9). Allora imitiamoLo e sforziamoci di avere in noi un grande desiderio d’abbassarci davanti al Signore. Andiamo anche noi a morire con Cristo (Gv 11,16), nell’umile speranza di giungere alla risurrezione (Fil 3,11). Amen.

 

 sabato 4 aprile 2009 - V settimana di quaresima - Gv.11, 45-56 - Omelia di fr.Marek FMJ

 

Fratelli e sorelle,

Il segno della risurrezione di Lazzaro ha rivelato il mistero di Cristo: Lui è la vita ed il donatore di vita. La rivelazione è chiara come la luce del sole: d’ora in poi la sorgente della vita si trova in quest’uomo, in Gesù Cristo. E questa verità – chiara come la luce del sole – accecò gli occhi degli uomini: i sacerdoti e i farisei non sapevano che cosa fare. Ma più ancora: paradossalmente una presenza della vita così vicina ha suscitato in loro la paura di morte e di distruzione: “verrano i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione”. In questa frase dei sacerdoti e dei farisei si nasconde una paura più profonda del timore della fine del tempio e della nazione. Mi sembra che per loro più importante che il tempio stesso e la nazione stessa sia il senso di appartenenza: il nostro tempio e la nostra nazione saranno distrutti. La presenza della vita in Gesù Cristo e il fatto che la sorgente della vita si trova il Lui suscitano la paura peraltro giusta, per la nostra vita. Perche il mondo che conosciamo e la condizione umana che è la nostra, sono nati dalla negazione di Dio, dalla decisione dei nostri primi genitori di vivere come volevano, di essere personalmente la sorgente della vita. Alora, per l’uomo peccatore, per l’uomo vecchio render si conto che la sorgente della vita è fuori di lui è terribile. Questo è il segno della fine.

Quando il Signore colpì la terra d’Egitto, gli Egiziani dicevano: “Stiamo per morire tutti...” (Es 12,33). Adesso, quando il Signore risuscita Lazzaro, i sacerdoti e i farisei dicono la stessa cosa. Allora, come può Dio venire fra gli uomini peccatori non causando la morte, ma donando la vita?

L’Evangelista Giovanni annota con stupore, che Caifa – uomo indegno e peccatore, ma sommo sacerdote – ha rivelato il progetto di Dio profetizzando: “un solo uomo muoia”, Gesù morirà per tutti.

Fratelli e sorelle, la morte di Gesù Cristo è la nostra morte. “Per grazia di Dio egli ha provato la morte a vantaggio di tutti (Eb 2,9)”. In Lui l’uomo vecchio e il mondo vecchio finiscono. La condizione umana nata dalla negazione di Dio, la carne del peccato – come dice san Paolo (Rom 8,3) – presa dal Verbo di Dio, muore sulla croce e nel mistero della morte di Cristo l’uomo rinasce: perciò è impossibile per la morte aver potere su colui che è la Vita! Morendo sulla croce Gesù ha distrutto la morte. Veramente è conveniente per noi – sono le parole di Caifa – che un solo uomo muoia per il popolo. Adesso non abbiamo paura di morire: siamo immortali.

Fratelli e sorelle, entriamo nella settimana santa per celebrare i misteri della nostra salvezza. Celebriamoli con il cuore aperto e attento per poter entrare nella luce di verità che sgorga dalla croce di Gesù Cristo. Amen.

 

 Domenica 22 febbraio 2009 - VII Domenica del tempo Ordinario - Omelia di fr.Massimo-Maria FMJ

 

    "Ecco io faccio una cosa nuova...." (Is. 43,19)

 

    Ad un popolo stanco dell'oppressione, accasciato ed avvilito per la sua mediocrità, che con il suo peccato aveva stancato e molestato il suo Dio, attraverso il profeta, Dio promette una cosa nuova.

    A Cafarnao, che diviene ancora scenario dei prodigi che Gesù compie, ad un paralitico, che altri portano davanti al Signore in un gesto determinato di intercessione - lo calano attraverso il tetto - a questo paralitico immobile, davvero incapace di novità, ma proprio per questo desideroso più che mai di cambiamento, di novità, a questo ammalato Gesù annuncia: "Ti sono rimessi i tuoi peccati".

    "Ecco faccio una cosa nuova..."

    La cosa nuova che Dio compie, la strada che apre nel deserto, la novità che immette nella storia, la guarigione vera e profonda, di cui quelle fisica del paralitico è segno, è: il perdono.

    Dio fa una cosa nuova attraverso il perdono.

    E' questo il messaggio che lo Spirito depone nel nostro cuore in questa liturgia domenicale.

    Il perdono - parola che sussurra nel cuore umano il desiderio di riceverlo e donarlo, ma anche allo stesso cuore rivela l'incapacità a riceverlo profondamente e a donarlo radicalmente è un grande e prezioso dono che abita innanzitutto il cuore di Dio poiché è una delle possibili declinazioni, la più squisita declinazione dell'amore.

    Il mistero di questo perdono rifulge con potenza nella croce di Gesù, lì noi contempliamo che Dio perdona, ha perdonato e sempre perdonerà chi pentito e desideroso di conversione si apre al suo amore. Attraverso la croce del Figlio il Padre ha perdonato tutto e tutti ed ha ricreato l'umanità, ha fatto una cosa nuova, appunto.

    Questo mistero che è entrato nella storia umana deve essere ora accolto lungo la storia nel cuore di ogni uomo perché questa novità si manifesti.

    Ed è qui esattamente il dilemma, la tentazione, bisognerebbe dire la tragedia di cui siamo prigionieri.

    Nel vangelo di Marco si dice che quando Gesù annuncia il perdono i farisei commentano polemicamente "chi può perdonare i peccati se non Dio?".

    Hanno ragione, ma fratelli e sorelle, noi come i farisei sappiamo questo, ma crediamo che Dio perdona davvero sempre e tutto a chi si pente?

    Lo sappiamo, lo diciamo, ma lo crediamo? Piuttosto siamo abbastanza umili da accogliere questo dono?

    Ammettiamolo senza paura. Ammettere fino in fondo il perdono di Dio per noi vuol dire riconoscere di averne bisogno; acconsentire a che io sia a posto, mi senta a posto non perché i conti tornano perfettamente nelle pendenze che posso avere con Dio, ma perché per guarire il mio peccato Lui mi chiede semplicemente di accettare che Lui ha pagato già nella croce del Figlio e mi è chiesto di accogliere gratuitamente il perdono, Certo per l'uomo d'oggi ed anche per noi in fondo, questo discorso di gratuità è difficile. Quante volte sentiamo discorsi del tipo: non devo niente a nessuno, ho la coscienza a posto. Quante volte trasferiamo questa logica anche con Dio, e ci fa problema lasciarci perdonare perché dobbiamo sempre pagare per sentirci a posto, o piuttosto per non sentirci umiliati. L'orgoglio è immenso ed il risultato è che Dio non può fare nella nostra vita una cosa nuova, ed allora viviamo una vita appesantita dai sensi di colpa, tenebrosa perché vuole salvarsi, redimersi da sola - e questo non accogliere il perdono - dell'uomo incentrato su se stesso. Abbiamo talmente seguito l'ideologia del non devo dipendere da nessuno, non devo avere debito con nessuno, non devo sentirmi in dovere verso nessuno, che accogliere il perdono di Dio, cioè il suo amore gratuito, richiede una grande conversione del cuore.

    Richiede prendere le distanze dall'orgoglio, scegliere l'umiltà,  riprendere il mio posto di creatura e restituire a Dio il suo posto di Dio, appunto.

    Fratelli e sorelle, una vita luminosa, pacificata, è una vita che ha lasciato entrare davvero, ha accolto sul serio il perdono di Dio. Non solo sa che esiste, ma di questo perdono vive.

    E' ovvio ed è la semplice e naturale conseguenza che, mancando questo, anche il perdono che siamo chiamati a dare perché i fratelli divengano cosa nuova, non lo diamo.

    Ecco allora che siamo educati ma non perdoniamo, siamo diplomaticamente ineccepibili, ma il Vangelo è certo altro, cerchiamo il quieto vivere ma la carità di Cristo è lontana.

    Le persone inquiete, la gente angosciata, le sofferenze di tanti che non si sentono accolti, famiglie lacerate, popoli dilaniati dall'odio, cuori non pacificati, sono sotto glim occhi di tutti.

    Mancano non uomini, ma anche discepoli di Gesù che hanno forse annacquato il Vangelo e non sono audaci da viverlo anche in questo con radicalità. Manca il perdono, quindi manca la possibilità di ridare novità, rivivere la novità di Dio.

    San Paolo, nella seconda ai Corinzi, dice che Gesù è stato "sì" e così Dio ha compiuto le sue promesse.

    La Parola, esigente ma luminosa, de Vangelo, oggi ci spinge a dire un "sì" radicale al perdono di Dio nella nostra vita, un "sì" radicale all'offerta del perdono ai fratelli perché possiamo camminare in novità di vita ed essere segno e profezia della umanità nuova, riconciliata, pacificata, redenta dall'amore misericordioso del Padre.

 

(a.c. di Marta, FEG Assunta)

 

 Domenica 15 febbraio 2009 - VI Domenica Tempo Ordinario - Omelia di fr. David FMJ

 

(Sal.101, 1Co. 10,31-11,1; Mc.1, 40-45)

 

    E' un fatto che i contemporanei di Gesù sono stati molto colpiti dalle guarigioni che compiva. Una volta ancora, sentiamo oggi il racconto di una di queste guarigioni. Ci sono tanti racconti di questo tipo nei quattro vangeli, che abbiamo spesso l'occasione di ascoltare nel corso delle letture dell'anno liturgico. Forse capita a noi di provare come un disagio, perché queste letture dove si tratta di guarigioni miracolose si ripetono tutto l'anno, ma sembrano esistere soprattutto nelle pagine del vangelo. Sabbiamo bene che ancora oggi, accadono dei miracoli riconosciuti dalla Chiesa. Ma questi miracoli hanno un rapporto abbastanza lontano con ciò che leggiamo nel vangelo, cioè con questa profusione di guarigioni che si moltiplicavano sui passi di Gesù. Le folle si ammassano attorno a Gesù e si buttano su di lui per toccarlo e trovare il conforto. Non conosciamo fenomeni di questo rilievo fuori di ciò che ci racconta il vangelo. Certo ci sono santuari come quello di Lourdes che attirano anche loro folle di malati, ma si tratta di qualcosa che somiglia imperfettamente a ciò che provocava Gesù, cioè questo movimento di folle, questa speranza incredibile che si rimetteva a Lui, queste esistenze sconvolte in gran numero, questo traboccamento di grazie e di benedizioni che solleva un popolo intero e oltrepassava anche i confini d'Israele.

 

    Sappiamo che i racconti evangelici sono stati scritti qualche anno dopo gli eventi che narrano. Il tempo che separa gli eventi e la loro trascrizione non è tanto. La prima versione del vangelo secondo Matteo data forse degli anni cinquanta, cioè vent'anni soltanto dopo gli eventi. Tuttavia, questa piccola distanza è sufficiente per permettere un sguardo indietro, un lavoro letterario. I vangeli sono testi di autori. I racconti di guarigione non sono soltanto delle recensioni, ma dei simboli teologici. Gesù ci è mostrato come colui che avvicina tutti quelli che  la legge diceva impuri. Li tocca e li guarisce, cioè li ristabilisce nella loro relazione con gli altri e con Dio. L'ex-lebbroso può di nuovo vivere con gli altri uomini e andare a pregare nella sinagoga o nel Tempio di Gerusalemme; non è più escluso dalla comunità umana e culturale. Questo messaggio teologico è messo in scena attraverso i racconti di guarigione. Così si spiega, per una parte, l'insistenza dei vangeli su questo argomento. Ma qui c'è soltanto una parte della spiegazione. I vangeli, infatti, non sono corsi di teologia. Non è possibile leggere i vangeli come l'esposto simbolico di una teoria religiosa che non avrebbe nessun contatto con i fatti crudi della storia. E' molto difficile mettere in dubbio il fatto che almeno alcune delle guarigioni che ci vengono raccontate hanno realmente avuto luogo. Eccoci qua di nuovo tornati alla domanda iniziale. C'era in Gesù un potere di attrazione considerevole, di cui non conosciamo una cosa equivalente. Gesù attirava a lui le folle e quelle tornavano da loro con un cambiamento radicale nella loro vitalità, nella loro capacità di esistere per Dio e per gli altri. Forse è questo, fratelli e sorelle, la chiave di lettura. La difficoltà che proviamo all'udire dei numerosi racconti di guarigione viene probabilmente dal fatto che interpretiamo troppo sotto l'aspetto medico le guarigioni di cui parla il vangelo. Ma prestiamo attenzione a queste persone che venivano a trovare Gesù, questi poveri, feriti nella loro carne e nella loro psiche, queste persone delle quali le relazioni con Dio, con gli altri e con se stessi erano malate. Ci riconosciamo in questa folla gemente? Siamo disposti a fare causa comune con questa situazione d'impurità, di turbamento, di dolore che è quella di questa umanità che tanto ha bisogno di essere salvata? Se ci considerassimo con un po' più di umiltà e di verità, forse vedremmo meglio l'attualità di questi racconti di strana guarigione. Forse capiremmo meglio che abbiamo anche noi terribilmente bisogno di essere toccati da Gesù e di essere così resi a noi stessi, restaurati, giustificati. Forse capiremmo meglio la realtà che significa l'Eucarestia che siamo per celebrare. Siamo riconciliati per Gesù e in Gesù. Questo è più che un miracolo. E' la salvezza stessa. E' la nostra identità di figli del Padre.

 

 Domenica 4 gennaio 2009 - II Domenica dopo Natale - Omelia di fr. Massimo-Maria FMJ

 

"E il verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”

Come il giorno di Natale, così ancora nel cuore di questa Santa liturgia natalizia risuona forte questa affermazione del Vangelo di Giovanni.

A ben guardare, o piuttosto a bene ascoltare la Parola del Signore oggi si scopre come il nostro sguardo con delicatezza, ma determinazione, è orientato in tre direzioni, non certo tra loro slegate: verso il mistero dell’eternità di Dio, verso il suo mistero che entra nel tempo, e verso il mistero che è l’uomo, quello di ogni tempo, e perciò anche verso il mistero che siamo ciascuno di noi, che è il nostro cuore.

“In principio era il Verbo” proclama il Vangelo di Giovanni.

“Fin dal principio egli mi ha creata” afferma di se stessa la Sapienza.

In uno come nell’altro caso, certo lo sguardo è proiettato ne cuore del mistero di Dio. Dio è da sempre, Dio è eterno, è da principio, in quel principio che non ha principio. Tuttavia il nostro sguardo la Parola lo orienta verso questo mistero immenso di Dio, ma non per fermarlo lì. Piuttosto per scoprirvi che lì, proprio lì nell’eternità di Dio, da sempre nel suo cuore abita il desiderio, quello di comunicarsi, di proiettarsi all’esterno.

Il nostro guardo allora è orientato forse un po’ bruscamente, verso il tempo. “E il Verbo si fece carne” continua San Giovanni. “Nella città che Egli ama mi ha fatto abitare” precisa poi la Sapienza.

Dio entra nel tempo, Dio comunica, si fa carne. Già questa espressione basterebbe per dire che davvero Dio è entrato nel tempo, nella storia – è questo nella sua essenza il mistero del Natale – ma San Giovanni, quasi per essere sicuro che noi non pensassimo si fosse sbagliato, sottolinea “Ha posto la sua tenda, la sua dimora in mezzo a noi”.

Guardando al mistero di Dio nel tempo, che entra nella nostra storia, la parola ci svela una cosa molto importante: Dio entra nel tempo, nella storia umana, nella nostra piccola storia, non per desiderio di intrusione, ma per desiderio di comunione, non per toglierci qualcosa ma per donarci il tutto di cui abbiamo estremamente bisogno, non per schiacciarci, ma per salvarci, non per opprimerci, ma per redimerci, non per tenerci schiavi, ma per renderci liberi, di più, figli.

            Da sempre Dio ha concepito con l’uomo un rapporto di figliolanza, non si sudditanza: “Ci ha scelti prima della creazione del mondo…. Predestinandoci ad essere suoi figli adottivi” scrive San Paolo. “A quanti però lo hanno accolto di diventare figli di Dio” assicura San Giovanni.

            Ecco che allora il nostro sguardo è infine abbassato al mistero del cuore dell’uomo, del nostro cuore che si pone davanti a questo desiderio di comunione con Dio.

            Se il nostro sguardo orientato all’eternità di Dio ci porta nel cuore un sentimento di luce e gioia. Se il nostro sguardo indirizzato poi all’amore di Dio che per entrare in comunione con l’uomo scende nel tempo, nella storia, nella carne umana ci stupisce, sorprende e commuove, il nostro sguardo che si posa sull’uomo ci interpella, ma anche ci inquieta.

            La storia della salvezza infatti è lì a mostrarci che l’uomo spesso davanti a Dio che parla, si comunica, manifesta il suo piano di salvezza e il suo desiderio di comunione, travisa, si sente minacciato, teme di essere defraudato, imbrogliato, schiacciato e rischia di chiudersi.

            San Giovanni lo dice con estremo realismo. “Venne tra i suoi. Ma i suoi non l’hanno accolto”.

            E’ proprio questa accoglienza di Dio nella nostra vita che vuole compiersi il Natale di Gesù nella storia. Tutta la riuscita del mistero del Natale è legata alla accoglienza che l’uomo ne fa.

            Perché il dono di Dio porti tutti i frutti di luce che vuole portare, che è venuto per portare, deve trovare cuori accoglienti, disponibili, che non hanno paura di lasciare a Dio che vuole vivere la comunione con noi tutto il posto.

            Fratelli e sorelle, Dio è venuto per toglierci sì un potere, quello dell’egoismo, dell’essere centrati su noi stessi, sui nostri piccoli interessi, sui nostri desideri disordinati. Questo lo sappiamo ci fa paura e resistiamo con tutte le nostre forze. Ma Dio in realtà è venuto soprattutto per darci un enorme potere: diventare figli di Dio, illuminati cioè dalla luce vera, vivi della vita vera quella di Dio, liberi delle libertà autentica, quella dello Spirito che i figli di Do posseggono.

“Il Verbo si fece carne… a quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio… il Padre della gloria illumini gli occhi del nostro cuore per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati”.

 

 lunedi 8 dicembre 2008 - Immacolata Concezione delle B. Vergine Maria (Lc.1, 26-38) - Omelia di fr. Jean-Christophe FMJ

Nella Scrittura nulla ci è stato detto esplicitamente sulla Concezione Immacolata della Vergine Maria. Ma, contemplando il Cristo, nella sua incarnazione, morte e resurrezione, il mistero di questo meraviglioso concepimento si rivela ai nostri occhi.
E’ comprendendo la salvezza manifestata in Gesù Cristo che i nostri occhi si aprono sulla santità di Maria, sua madre. Una madre degna di lui, il Figlio della Luce. Una madre senza peccato, per lui che è la fonte di ogni purezza. Una madre senza ombra di rifiuto, per lui che è “l’Amore del Padre, il testimone fedele e verace “ (Ap 3,14).

La prima lettura del libro della Genesi Che fu la caduta nel peccato  Che ha separato l’umanità da Dio. Ma Dio non ha abbandonato l’uomo.
Da primo Adamo al nuovo Adamo Dio non ha mai smesso di esercitare la sua misericordia affinché “tutti gli uomini siano salvati”.
La sua misericordia si è posta in modo particolare su Maria.
Dio annuncia, mediante Maria, la Stella del Mattino, che il giorno senza tramonto sorgerà per tutti gli uomini.

Maria è il segno precursore di ciò che Dio realizzerà per mezzo dell’incarnazione del suo Figlio.
Sì, in Gesù nasce un popolo nuovo, un’umanità liberata dal male.

Paolo, nella seconda lettura, ci ricorda che “Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nell’amore” (Ef 1,4). Dio ci vuole da sempre come Maria, liberati da ogni male.
Il nostro essere aspira a questa liberazione interiore. Qualche cosa in noi è come in attesa. Noi aspettiamo che si realizzi ciò che Dio vuole per noi fin dall’eternità.
Se Maria è la prima riscattata, e addirittura per anticipazione, essa non rimane l’unica.
Noi tutti siamo “chiamati ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo (Ef 1,5). Sì, lo siamo fin dal nostro battesimo, ma è necessario ancora più vivere come tali.
Maria non è stata risparmiata dalla lotta di tutta la vita contro le forme del male.
Anche noi dobbiamo lottare per fare il bene perché la santità acquisita dal battesimo diventi effettiva, visibile, e santificante per i nostri fratelli.

Infine, il Vangelo ricorda il “sì” di Maria, cerca una risonanza in noi: un sì all’amore, un sì alla santità.
Dio ha trovato in Maria una terra vergine per prendervi dimora e farsi uomo.

E noi che cos’abbiamo da offrirgli? Dobbiamo credere, fratelli e sorelle, che il prodigio, che si è prodotto in Maria per pura grazia divina, può riprodursi anche in noi
per la potenza della Redenzione di Cristo.
L’immacolata concezione di Maria ci invita a credere che Dio desidera condurre la nostra umanità al suo compimento.
Desideriamo, fratelli e sorelle, essere “santi e immacolati al suo cospetto nell’amore”!

E Tu, Vergine Santa Immacolata, prega con noi e per noi!

 

mercoledì 5 novembre 2008 - Tutti i Santi delle chiese particolari della Toscana  (Lc. 12, 22-32) - Omelia di fr. Nicolas-Marie (FMJ) 

La solennità di tutti i Santi si prolunga in questo giorno, facendo memoria di tutti i santi della Chiesa fiorentina e della Toscana.

Hanno scelto di porre tutta la loro fiducia nel Signore.

E’ una scelta da rifare ad ogni momento. Sin da primo giorno, dopo il peccato, l’uomo ha lasciato entrare in sé la paura.

Fondamentalmente, “la paura della morte, che porta a cercare di avere di più nel timore di avere di meno”.

Il contesto di crisi economica che viviamo ci mostra quanto l’avere è sabbia sulla quale non si può costruire la vita, perché non tiene, ma sfugge!

L’uomo si sente solo, abbandonato, lasciato a se stesso. Ha dimenticato Dio, Colui che ci dà la vita, e insieme anche il cibo e il vestito.

Inquieto, si agita e accumula cose, cose, tante cose. Si dà da fare con agitazione. Tante sono le sue preoccupazioni.

E’ importante per noi, nella Chiesa, nel nostro cammino di fede, saper guardare bene, con Spirito di discernimento, da dove viene il nostro fare ed agire, quale ne è il motore, per così dire.

I Santi hanno deposto tutta la loro vita nelle mani del Signore, hanno scoperto un Padre d’immensa tenerezza che si prende cura dei suoi figli.

Per questo hanno corso, sì, come peccatori, incontro al Padre misericordioso. Non hanno chiuso la mano sul dono, come Adamo, ma l’hanno aperta per ricevere e accogliere, e l’hanno allungata per donare e amare.

Il Padre vostro conosce i vostri bisogni” – ci dice Gesù.

Questo ci consente di lavorare in pace, senza affanni né preoccupazione,  e di ricercare il Regno di Dio, di fare della nostra vita , attraverso tutto ciò che ci viene dato di vivere, non una ricerca del proprio “io”, ma una ricerca incessante del Signore, e di nulla anteporre a questa ricerca.

Gesù ci mostra oggi quanto ci dice il libro della natura: Corvi e gigli sono i nostri maestri.

Non temere piccolo gregge perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno”.

Vivendo fino in fondo, intensamente, questa ricerca del Signore, la nostra vita, nel silenzio, griderà la buona Novella del Vangelo di un Dio che dona la vita ai suoi amici, che la depone donandosi!

Nel cuore del mondo odierno la nostra vita sarà una profezia viva del Regno che viene, che sta in mezzo a noi, in noi, e già germoglia.

Nel cuore della città, la nostra vita indicherà l’oasi, la fonte della vita, il grande e unico tesoro: Il Signore, Creatore e salvatore dell’uomo, colui che ascolta e sazia “i piccoli che gridano a lui” (Sal 147,9).

La nostra gioia sarà piena quando siamo del nostro Diletto, Lui che ci ama, per primo, senza stancarsi mai!

 

Domenica 19 ottobre 2008 - XXIXa Domenica T.O.  (Mt. 22, 15-21) - Omelia di fr. David (FMJ)

     Viviamo nel nostro tempo, fratelli e sorelle, e siamo probabilmente tutti segnati dalla mentalità contemporanea che vorrebbe che la fede fosse una cosa strettamente privata. La risposta di Gesù – “rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” – può essere interpretata in un senso falso perché è molto gratificante per questa mentalità. Eppure Gesù non ha voluto incoraggiare le nostre tendenze contemporanee, ma rispondere ad una domanda precisa che dobbiamo riformulare perché è molto diversa dalle domande che abbiamo oggi.

    Nel tempo di Gesù, i Farisei vivevano la dipendenza economica e politica in una Terra Santa occupata dal’Impero Romano come un’intrusione impura nella vita quotidiana ebrea. Così, per esempio, la moneta cambiata era quella dei pagani. Ma, al contrario dei Farisei che si situano sul piano dei princìpi e oppongono la fedeltà alla Torah alle leggi di Cesare, Gesù cerca di valutare un problema concreto a partire dalla comprensione giusta dei rapporti tra Dio e il mondo. La risposta inattesa di Gesù rifiuta il concetto farisaico della purezza che oppone la società pagana al popolo eletto, il piano di Dio alla storia profana.  Anche l’opposizione tra l’ebreo e il non ebreo, sarà resa nulla dalla missione che il Risorto ha affidata alla sua Chiesa. La distinzione che fa Gesù tra l’ordine temporale e spirituale non significa che i due siano assolutamente separati. Non è possibile capire così il discorso di Gesù, perché ci sono anche dei motivi politici nella sua condanna a morte. Invece, ciò che afferma Gesù, è la consistenza dell’ordine temporale dinanzi all’ordine spirituale. Dio e il mondo non sono opposti, e il mondo è chiamato a entrare liberamente nel mistero della Santissima Trinità. Il tributo dovuto a Cesare non contraddice la fedeltà a Dio, perché è del campo delle scelte che indicano l’autonomia del mondo voluta da Dio, affinché l’uomo possa volgersi a Lui liberamente e per amore.

    Fratelli e sorelle, la risposta di Gesù non ci viene riportata affinché ammiriamo la soluzione di un problema complicato, ma più o meno allontanato dalla nostre preoccupazioni. Non dobbiamo soltanto ammirare Gesù, ma ascoltare la sua parola per la nostra conversione. Occorre dunque attualizzare la domanda alla quale Gesù è stato confrontato, domandandoci come amministriamo l’articolazione tra il temporale e lo spirituale. Per noi i problemi con i quali ci confrontiamo sono molto diversi da quelli dei Farisei. Ma così come loro, dobbiamo esaminare la nostra vita sociale e la qualità delle nostre relazioni, tutto questo secondo Gesù.

    Facciamo a noi stessi le seguenti domande: rendiamo a Cesare ciò che è di Cesare? In altri termini, siamo dei cittadini onesti? Lavoriamo per il bene comune? Prendiamo le nostre responsabilità civiche? Accettiamo nei nostri impegni familiari ed ecclesiali, di far passare il dovere, la fedeltà, il servizio, davanti alle nostre fantasie, incostanze e pigrizie? Ogni volta che rifiutiamo di assumere le nostre responsabilità, tradiamo il Vangelo. Domandiamoci ancora se rendiamo a Dio ciò che è di Dio. Abbiamo coscienza che la rivelazione evangelica è destinata a tutti e che condividerla è rendere un servizio  alla società? Facciamo passare la nostra reputazione davanti alla testimonianza dell’amore di Dio? Nelle nostre relazioni più intime, consideriamo quelli che amiamo come beni temporali, o abbiamo coscienza che appartengono a Dio? Imponiamo alle nostre famiglie, alle nostre comunità, di riflettere un’immagine ideale, o accettiamo con pazienza e misericordia le mancanze della realtà? Siamo i servitori del profondo mistero d’amore che è Dio, o serviamo la nostra gloria? Rendere a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio, è accettare una valutazione molto profonda dei nostri comportamenti e dei nostri attaccamenti.

    E’ dovere sempre rimetterci al lavoro per scoprire, caso per caso, ciò che vuol dire vivere concretamente il Vangelo. Perché il Vangelo è da vivere in questo mondo così come questo mondo è. L’immensa sfida che questo rappresenta non può essere raccolta né separando né opponendo  il mondo e Dio. Abbiamo da vivere qualcos’altro, cioè una libera creatività evangelica per amore di Dio e degli uomini di questo tempo.

 

Domenica 28 settembre 2008 -  XXVa Domenica T.O. (Mt.20,1-16) - Omelia di Fr.Nicolas-Marie  FMJ 

Marie Vierge Sainte, conduis-moi par la main comme un tout petit

    Il Vangelo odierno ci sorprende. Dio sarebbe ingiusto? Come mai chi ha lavorato a tempo pieno, chi ha lavorato a part-time, e chi solo un'ora al giorno, vengono pagati con lo stesso salario? Un'impresa può funzionare così? Siamo sconcertati.

    Ma Gesù ci avverte che non si tratta di fatti reali e che egli parla per mezzo di parabole. Vuole svelare ai nostri occhi il Regno dei Cieli, e subito lo scopriamo radicalmente diverso da quello della terra!

    Il Regno dei Cieli è simile al padrone di questa vigna. Il Regno dei Cieli è qualcuno! La vigna, nella tradizione biblica è il popolo eletto, la vigna siamo noi!

    "Canterò per il mio diletto il mio cantico d'amore per la sua vigna" proclama il profeta. "Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l'aveva vangata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato delle viti; vi aveva costruito in mezzo una torre e scavato anche un tino".

    Una vigna tanto amata, curata con dilezione. Da questa vigna, il Signore si aspetta il frutto del Regno: l'amore di Dio e del prossimo. Per questo, "il Signore esce di continuo, a tutte le ore, dall'alba all'ultima ora della sera, per chiamarci e ri-chiamarci" (S.Fauski).

    Siamo chiamati ad amare l'amore, e a far amare, l'amore! "Andate, andate anche voi nella mia vigna!" Il Signore esce di continuo a chiamare i peccatori, a salvare chi è perduto.

    La salvezza, la vita che Gesù dona, non è pane di sudore che ci guadagnamo, ma dono gratuitamente offerto dal Padre ai figli.

    Con i primi c'è un patto, che verrà rispettato, perché l'Alleanza non viene meno. Riceveranno un denaro, la paga quotidiana necessaria per vivere. Ogni giorno, il Signore dona la vita ai suoi fedeli, dona tutto ciò di cui avranno bisogno per vivere, anzi, si dona! Agli altri promette ciò che è giusto, ma qual'è la giustizia di Dio, se non quella "eccessiva" che introduce nel Regno? Ogni momento è "l'oggi" della venuta del Signore, la sua "ora" in cui si è chiamati ad ascoltare la sua voce, ad accogliere la vita per sempre che Egli ci offre. Venuta la sera, l'ora del riposo e della ricompensa dopo la fatica, ecco l'incontro col giudice giusto, il Padre misericordioso. Agli ultimi dà quella paga necessaria per vivere, "ma di cosa vive l'uomo se non dell'amore del Padre? E cosa può dare Lui di meno di se stesso, se è tutto amore?" (S.Fausti).

    Ognuno ne viene riempito, secondo la propria capacità, fino a diventare sorgente zampillante.

    All'ultimo Gesù dice: "In verità [ti dico] oggi sarai con me nel paradiso" (Lc. 23, 43). A colui al quale è stato perdonato di più mostra il più grande amore (cfr. Lc. 7, 42-59). I primi vengono retribuiti secondo le loro opere. Gli ultimi secondo la giustizia eccessiva di Dio, la giustizia che sorpassa ogni giustizia. Davanti a questa giustizia, i primi mormorano, non si rendono conto che hanno ricevuto di più, perché sin dall'inizio hanno questa grazia di essere, di dimorare nella vigna, di stare col Signore. Possono sentire il Padre esclamare con tatto affetto: "Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo" (Lc.15, 31). Gli ultimi mostrano ai primi che sono amati gratuitamente dal Signore, non in merito alla loro buone opere. Queste ultime non possono essere che una risposta d'amore, all'amore gratuitamente dato.

    Il Signore, con questa parabola distrugge la radice, la logica del possesso e della pretesa: "Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell'amore, non ne avrebbe che dispregio" dice il Cantico dei Cantici. Per il Signore, tra il dovuto e il dato, tra il merito e la ricompensa, si apre un ampio spazio che facciamo tanta fatica a capire, ad accogliere: è lo spazio immenso della gratuità della grazia e dell'amore. La giustizia di Dio è veramente ingiusta agli occhi degli uomini, è veramente divina, perché è sovrabbondanza di misericordia e pura follia d'amore.

    "Sei forse invidioso perché io sono buono?" Solo chi ne fa esperienza, chi gusta questa giustizia d'amore, di grazie, di gratuità, di misericordia può capirla, perché ne vive, e già nella città terrestre assapora il Regno del Signore!

 

Domenica 14 settembre 2008 -  Esaltazione della S.Croce - Omelia di Fr.Massimo Maria FMJ  

           Tutta la storia della salvezza si snoda fra due alberi! L’albero del paradiso, nel giardino dell’Eden, di cui ci parla il libro della Genesi. Sotto quell’albero si è consumato il dramma del peccato. L’albero della Croce di Gesù, sulla montagna del Calvario, dove si compie il mistero della salvezza e splende luminoso il mistero di Amore di Dio.

 

Lo scopo primo della liturgia che stiamo celebrando, il senso vero della festa liturgica di questa domenica è proprio staccarsi dal primo tragico albero della morte, per farci contemplare e offrirci il frutto più bello del secondo misterioso albero, la Croce di Gesù Signore, albero per noi e per tutti, divenuto albero di vita.

 

Il Vangelo di Giovanni che è stato appena proclamato, ci guida in questa contemplazione e ci propone un itinerario significativo attraverso i verbi che utilizza e che vogliamo vedere più da vicino, sapendo che essi prendono senso pieno e luce per comprenderli, proprio dalla stessa Croce di dolore e di gloria di Gesù.

 

“Chiunque crede in Lui” [Giov. 3,15]. Due volte è ripetuto il verbo “credere”. La Croce è segno di supplizio, di sconfitta, di fallimento e così appare a chiunque ad essa si accosta senza la fede. Senza la fede nel Crocifisso, la Croce non la si può né comprendere, né accogliere. Ma con la fede, in essa splende un mistero che è il mistero per eccellenza: l’Amore di Dio: “Dio ha tanto amato il mondo”.

 

Ed ecco il secondo verbo AMARE. L’Amore è il desiderio viscerale di Dio, di non lasciare l’uomo a se stesso, alla sua miseria, alla sua follia del peccato.

 

Questo Amore di manifesta nella Croce, e si realizza in un dono, quello del Figlio: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo unico Figlio” [Giov. 3, 16]. Dare! Ancora un verbo che esprime consegna, offerta e che è sinonimo di mandare-inviare. Dio dà il Figlio e lo invia, lo manda. Dio dona il suo Figlio inviandolo, vale a dire con una missione ben precisa: salvare, redimere, custodire, riscattare l’uomo. E gli ultimi quattro verbi esprimono tutto ciò. Dio non vuole giudicare, vuole salvare, non vuole far morire, vuole offrire la vita eterna.

 

Il testo Giovanneo, con i suoi verbi appena elencati, allora mostra chiaramente che la Croce di Gesù descrive l’intera parabola della salvezza, Dio che entra nella storia fino a quella terribile frontiera che è la morte ed il peccato, con un chiaro desiderio ed un preciso progetto: spezzarne l’incanto perverso ed attirarci e sollevarci verso di Lui, sino alla sua vita, sino alla sua luce, sino alla sua pace, sino al suo cuore.

 

Fratelli e sorelle, questo mistero luminoso di dolore e di Amore di Do, che è la Croce di Gesù, è entrato nella storia, attraverso la storia, non solo quella collettiva, ma anche quella personale di ogni discepolo di Gesù. Non è infatti necessario accogliere il mistero della Croce per essere discepoli? Non è infatti essenziale portare la Croce per camminare dietro al Signore come discepoli? “Se uno vuole essere mio discepolo, rinneghi se stesso prenda la sua Croce, ogni giorno e mi segua” [Mt. 16,24]

 

Ecco allora che dalla Parola del Signore in questa festa della Esaltazione della Croce dobbiamo, o siamo piuttosto invitati ad accogliere un duplice invito: a contemplare il mistero dell’Amore e della Sapienza di Dio che splende nella Croce di Gesù Suo Figlio e a consegnare con generosità la nostra vita a questo amore infinito e sapiente.

 

Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo unico Figlio” [Giov. 3, 16]. Questo mistero è il più vero, e l’unico al quale possiamo e dobbiamo ancorare la nostra esistenza. Questo mistero di amore ci grida la Croce di Gesù.

 

Se per un istante proviamo a riflettere su questo dono spropositato, se per un istante ci soffermiamo in adorazione a contemplare questo mistero luminosissimo, non possiamo non sentire che la nostra vita è davvero piena, è davvero grande, ha un valore immenso. Non possiamo non affermare con verità che a noi davvero non manca nulla, e che non dobbiamo temere nulla e nessuno. Da una simile contemplazione il cuore  commosso sente sue vere, più che mai e come non mai, le parole dell’Apostolo: “Mi ha amato ed ha dato se stesso per me”[Gal. 2,20]. Ogni paura e angoscia scompare, infatti: “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?” [Rm. 8,31] Ogni orgoglio e superbia si infrange: “Non c’è altro vanto che nella Croce di Gesù” [Gal. 6,14]. I frutti dell’amore di Dio, che è lo Spirito del Risorto germogliano misteriosamente, ma decisamente: la gioia, la mitezza, l’umiltà, la pazienza, la benignità, la pace.

 

Fratelli e sorelle, oggi più che mai abbiamo bisogno di contemplare grati ed adoranti la Croce di Gesù: in essa splende un amore infinito, immenso, smisurato, e questo amore salva, solo questo amore salva, redime, illumina, riscalda e guarisce. Sì, l’amore di Dio guarisce il cuore dell’uomo dalla paura, dall’egoismo, dall’orgoglio, dalla follia del peccato.

 

Raggiunti da un amore così, toccati da una forza tanto potente, la fede in Lui cresce, si radica ancor più profondamente e diviene una urgenza camminare dietro di Lui portando la croce, la nostra quotidiana croce. Essa infatti, come quella di Gesù diviene non più simbolo di morte, di fallimento, di supplizio, ma segno di amore, di offerta, di fecondità, di vita per noi e per altri.

 

Certo senza la fede, senza la contemplazione dell’amore mite e potente di Dio la croce è scandalo stoltezza, follia, ma con la fede in Gesù, nell’incontro con l’amore forte e immenso di Dio il mistero della croce è sapienza, luce, vita e pace.

 

Tanto che nel lasciare entrare la croce nella propria vita con generosità e serena consegna di sé, diviene per il discepolo possibilità di imparare ad amare così come è amato; diviene occasione per essere conformato al mite patire del Suo Maestro, diviene luogo in cui tutta la potenza misteriosa della croce si dispiega ancora nella storia, e l’amore di Dio possa continuare a salvare, sanare, illuminare e pacificare il cuore dell’uomo.

 

Fratelli e sorelle, chiediamo al Signore un cuore semplice che sappia stupirsi della logica di Dio così paradossale, che sappia lasciarsi inondare da un amore così esagerato e così incomprensibile. Un cuore così, certo, quando il Maestro lo inviterà a portare al croce seguendolo sulla via dell’amore e dell’umiltà dell’offerta non potrà che ripetere: “Signore tu sai tutto, tu sai che ti amo” [Giov. 21,17] . Nella tua volontà è la mia pace. Amen

 

 

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