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                                                             LETTERE, OMELIE E DOCUMENTI PASTORALI

 

 

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Omelia dell'Arcivescovo del 21 ottobre 2012, XXIX Domenica del T.O. - Ordinazioni Diaconali
 Lettera alle famiglie dell'Arcivescovo per la Pasqua 2010

 Lettera ai cercatori di Dio  documento della C.E.I. - aprile 2009

 Lettera alle famiglie dell'Arcivescovo per la Pasqua 2009
 29 novembre 2008  Veglia d'Avvento Mons. Giuseppe Betori, Arcivescovo di  Firenze - Cattedrale di S.Maria del Fiore

Domenica 9 novembre 2008  Festa della Dedicazione della Cattedrale  Ammissione dei candidati all'Ordine Sacro  Giornata del Seminario  Mons. Giuseppe Betori, Arcivescovo di Firenze Cattedrale di S.Maria del Fiore

 

 

 

Domenica 21 ottobre 2012 - Cattedrale di Santa Maria del Fiore -  Domenica XXIX del tempo ordinario - Ordinazioni Diaconali

 

OMELIA di S.Em. Card. Giuseppe Betori, Arcivescovo

 

La nostra Chiesa fiorentina è oggi raccolta nella chiesa cattedrale in un giorno di gioia e di

speranza, chiedendo che nove giovani vengano ordinati diaconi. Voglio sottolineare questo

particolare modo di presentazione dei candidati al diaconato, come peraltro agli altri gradi del

sacramento dell’Ordine: non sono i candidati stessi a presentarsi e a chiedere, ma è la Chiesa

che ne ha seguito il cammino formativo che, attestandone le qualità, chiede al Vescovo di

accogliere questi giovani nel ministero.

Non ci si propone da soli per un servizio nella Chiesa. Non possiamo accettare che si ripeta

l’errore compiuto dai due apostoli nel racconto evangelico, quando da se stessi si presentano al

Signore per rivendicare un posto nel suo regno, un posto che essi pensano possa comportare

onore e potere: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo. […]

Concedici di sedere nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (Mc 10,35.37).

L’errore di Giacomo e Giovanni non è soltanto, come vedremo, non aver capito che il regno cui

Gesù si incammina è quello della Croce: eppure Gesù aveva loro appena predetto, e per la terza

volta, la sua passione, morte e risurrezione! Prima ancora, l’errore dei due apostoli sta nel fatto

che, nel cercare una loro collocazione in rapporto al Maestro, non sentono di dover rispondere

a una chiamata, ma ritengono di poter essere loro a chiedere.

Su questo vi invito anzitutto a riflettere carissimi Antonio, Biagio, Francesco, Giovanni

Battista, Ivan, Jimy, Leonardo, Marco e Rolando: alla radice della vostra esistenza nella Chiesa

c’è una chiamata che il Signore vi ha fatto, che voi avete accolto, che la Chiesa ha verificato e

aiutato a maturare. Ogni giorno rinnovate la dimensione vocazionale della vostra vita, la vostra

risposta generosa al Signore, il contatto vivo con la comunità ecclesiale che vi riconosce e vi

garantisce. Là dove c’è chiamata e risposta deve esserci un dialogo che ogni giorno, nella

preghiera e nell’ascolto della parola di Dio, vi permetta di approfondire la conoscenza del

Signore che vi ha chiamato e l’appartenenza alla Chiesa che vi ha accolto e riconosciuto.

Ciò ha un risvolto anche per l’intera nostra comunità ecclesiale. È nostro compito favorire

ambienti ecclesiali che permettano ai giovani di mettersi all’ascolto del Signore, di discernere

gli orizzonti della loro esistenza, di mantenere vivo il legame con quella comunità che ne dovrà

riconoscere la vocazione. È una condizione spirituale ed ecclesiale, che sola permette alle

vocazioni al diaconato, al presbiterato e alla vita consacrata, che non mancano certo da parte

dello Spirito di Dio, di trovare accoglienza e maturare. Devono esserne protagonisti anzitutto le

famiglie e poi le parrocchie e le diverse aggregazioni ecclesiali.

Un secondo pensiero voglio condividere con voi, ed è legato alla natura del ministero che

tra poco affideremo a questi candidati. Sono considerazioni che scaturiscono dalla rivelazione

che Gesù offre ai due discepoli, una rivelazione alternativa ai loro sogni di gloria. Gesù parla di

un calice di sofferenza, che i discepoli dovranno condividere con lui, e pone la loro collocazione

accanto a lui nell’orizzonte di un servizio da rendere ai fratelli: «Chi vuole diventare grande tra

voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (Mc 10,43-44).

L’atteggiamento del servizio è ciò che caratterizza il ministero che fra poco vi affiderò.

Esso è inscritto nel nome stesso che da oggi vi viene dato: “diacono”, infatti, è la traslazione in

italiano del termine greco che significa servo. Ma ciò che soprattutto risalta nelle parole di

Gesù è che egli colloca questo servizio non nell’ordine del fare, ma in quello dell’essere. Il

servizio che Gesù chiede ai discepoli e che la Chiesa affida a voi attraverso una consacrazione

sacramentale non è l’esercizio di una qualsiasi attività a favore dei fratelli, pur non mancando

esso di una necessaria operatività in ordine all’annuncio della parola di Dio, ad alcune funzioni

specifiche nella sacra liturgia e soprattutto nell’amministrazione di alcuni sacramenti,

all’animazione dell’azione caritativa della comunità cristiana.

Tutto questo non viene negato, anzi il rito sacramentale tra poco lo chiarirà nelle parole, in

specie nelle domande che vi porrò, e nei gesti che compiremo. Ma lo stesso rito e prima ancora

l’odierna pagina evangelica ci dicono che servire non è fare, ma essere, cioè essere come Gesù

totalmente proiettati verso gli altri, fino a perdere se stessi, fino a diventare schiavi: «Anche il

Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in

riscatto per molti» (Mc 10,45).

Cari giovani, oggi il Signore non vi chiede di fare qualcosa per lui e per i fratelli, ma di

porre la vostra vita tutta nelle sue mani, per poter essere un dono totale ai fratelli. Segno di

questo dono è anche la promessa del celibato, che tra poco farete nelle mie mani. Un segno di

una consacrazione totale a Dio, per essere segno di quel mondo nuovo che ci attende dopo che

questo mondo sarà passato. Un modo quindi per ricordare al mondo che solo Dio è tutto e che

solo in lui possono prendere significato e diventano buone le cose che passano.

In questo dono di sé, ci ricorda Gesù, e lo ribadiscono la pagina del profeta Isaia e il testo

tratto dalla lettera agli Ebrei, non mancherà la sofferenza, da vivere come un farsi carico dei

pesi dei fratelli - «Il giusto mio servo […] si addosserà le loro iniquità» (Is 53,11) -; un

partecipare e compatire, come Gesù, le fragilità della condizione umana - «Infatti non abbiamo

un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze» (Eb 4,15) -; un

assumere il calice e il battesimo che Gesù assunse sulla croce: «Il calice che io bevo, anche voi lo

berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati» (Mc 10,39). Tutto

questo va accolto nella consapevolezza che la sofferenza è il preludio della gloria, dopo il

tormento verrà la luce e ci sazieremo della conoscenza del Signore (cfr. Is 53,11).

Da ultimo richiamo l’attenzione della nostra assemblea sul fatto che i nove nuovi diaconi

ricevono sì lo stesso grado del sacramento dell’Ordine, ma in prospettive tra loro diverse. Sette

di loro, infatti, sono nel cammino verso il presbiterato, a cui ci auguriamo di poterli ammettere

il prossimo anno. A voi, carissimi Antonio, Biagio, Francesco, Ivan, Jimy, Leonardo e Rolando,

rivolgo l’esortazione a vivere questi mesi di esercizio del diaconato come una palestra di

servizio che dovrà mantenere i suoi frutti pure dopo l’ordinazione presbiterale. Giovanni

Battista è invece membro di una comunità di vita consacrata, una comunità monastica, in cui

ha già professato i voti di povertà, castità e obbedienza; a te chiedo di vivere il tuo diaconato

come un servizio nella comunità e attraverso la comunità agli uomini e alle donne che ad essa

chiedono sostegno spirituale, nutrimento della parola di Dio, educazione alla preghiera. Anche

per Giovanni Battista auspichiamo che il cammino del sacramento dell’Ordine possa compiersi

con il grado del presbiterato. Infine, Marco, tu vieni ordinato come diacono permanente nella

nostra Chiesa, nella prospettiva di un servizio da rendere a una comunità parrocchiale,

affiancando i presbiteri che la guidano e assumendo in essa specifiche responsabilità nei diversi

campi in cui si esplica il ministero diaconale. Con la tua ordinazione si arricchisce il gruppo dei

diaconi della Chiesa fiorentina e se ne ribadisce l’utilità per una comunità che si articola nella

diversità e completezza dei ministeri e dei servizi.

Nell’affidare al Signore il compimento di ciò che egli stesso ha seminato nel cuore di questi

giovani, sentiamoci anche noi tutti spinti a riconsiderare come nella nostra vita possiamo dare

spazio a quella dimensione diaconale che, se configurata in termini sacramentali è propria di

alcuni nella Chiesa, come atteggiamento e dedizione dell’esistenza appartiene all’identità di

tutti i discepoli del Signore. «Con piena fiducia» accostiamoci a lui, il primo servo di tutti, «per

ricevere misericordia e trovare grazia» (Eb 4,16), la grazie di seguirlo sulla strada del servizio e

del dono di noi stessi «per molti» (Mc 10,45).

Giuseppe card. Betori

21/10/2012 S.Ecc.za Rev.ma Mons. GIUSEPPE BETORI

 

Lettera dell'Arcivescovo alle famiglie per la Pasqua 2010

Carissimi fratelli e carissime sorelle nel Signore,

torno volentieri nelle vostre case in occasione della

visita alle famiglie che le parrocchie svolgono di norma

nei mesi che precedono la Pasqua e vi ringrazio per

l’accoglienza che riservate a queste parole, scritte per

crescere insieme come Chiesa fiorentina. Quest’anno

prendo a tema la figura del sacerdote, seguendo l’indicazione

del Papa Benedetto XVI, che da giugno 2009 a

giugno 2010 ha voluto un “anno sacerdotale”, un anno

dedicato a sostenere i sacerdoti nel loro ministero e a

invitare tutti i fedeli a riscoprire l’importanza del sacerdozio

nella Chiesa. Scrivo queste pagine guardando non

solo alla dottrina ma facendo tesoro anche della mia

esperienza di sacerdote. E le scrivo con fiducia, perché

immagino che la maggior parte di voi abbia potuto sperimentare

nella propria vita la vicinanza di un prete

come un dono di grazia del Signore, orientamento e

sostegno per la vostra vita. Nella vicinanza dei preti alla

gente registriamo uno delle note più positive dell’esperienza

di Chiesa nel nostro Paese.

Preti in risposta a una chiamata del Signore

A questo un prete giunge dopo un lungo cammino,

che inizia con la generosa risposta a una chiamata che

viene da Dio. Ed è nella famiglia che matura l’ascolto

della voce del Signore che porta un ragazzo, un giovane

a scoprire che proprio questo egli vuole da lui: farsi

suo servitore come pastore del popolo di Dio. Il prete

non si pone tra la gente come un qualsiasi leader di un

gruppo, né si sceglie da solo questo ruolo nella vita,

come fosse un mestiere qualsiasi: preti si diventa per

chiamata di Dio, in risposta a un suo disegno, a una sua

vocazione. Che la vita sia risposta a una vocazione vale

certamente per ogni persona; anche il matrimonio è

frutto di un progetto di Dio sulla vita di un uomo e di

una donna; la stessa attività lavorativa, in quanto collaborazione

all’opera creatrice di Dio, dovrebbe poter

corrispondere a una specifica inclinazione, mediante la

quale ciascuno trova il posto che Dio gli ha affidato nel

mondo.

È perciò importante che le nostre famiglie siano

grembo accogliente delle vocazioni sacerdotali. Questo

già nell’aprirsi alla vita, con la disponibilità a non limitarsi

ad avere uno o al massimo due figli, e poi nel non

sentire i figli come un possesso bensì come un dono di

Dio, di cui i genitori sono custodi e non padroni. Di questa

accoglienza fa parte anche educare alla fede nella

vita familiare, cooperando alle proposte della parrocchia.

È più facile che la voce di Dio venga percepita da

un giovane se nelle nostre famiglie l’aria è purificata

dall’ammorbante materialismo che invade la società e i

valori dello spirito sono rispettati ed esaltati, valorizzando

la libertà e la responsabilità personale, per aprirsi a

scelte anche coraggiose, come quella appunto di seguire

una chiamata così alternativa rispetto alla cultura diffusa.

Chi è il prete?

Leggiamo nel vangelo che Gesù scelse i suoi apostoli

“perché stessero con lui e per mandarli a predicare

con il potere di scacciare i demòni” (Mc 3,14-15). Nel

legame intimo con Gesù risiede la grandezza del sacerdote

e la sorgente del suo ministero, della potenza della

sua parola e dei gesti di grazia con cui ci libera dal male

e ci fa partecipi della vita di Cristo. Se ci si domanda chi

è un prete, occorre ribadire con forza che egli, prima

ancora che in rapporto agli altri fedeli o alla società, si

definisce in rapporto a Dio.

Il prete è anzitutto un uomo di Dio, un uomo che

“sta” con Gesù. Un compito non facile nel nostro tempo

così pieno di distrazioni e stimoli, che spingono a uscire

da se stessi e a perdersi nelle mille cose del mondo. Di

qui un’urgenza per i nostri preti a ricentrarsi sulla propria

dimensione interiore, sul loro rapporto con Gesù

Cristo, sulla loro vita di fede anzitutto. Più che operatori

del sacro o animatori di comunità, i preti sono infatti

segni del mistero di Dio. E anche qui c’è bisogno che le

nostre famiglie favoriscano la dimensione spirituale dei

nostri preti, rispettandone il mistero e rimanendo esigenti

nel chiedere ai preti, prima ancora che un sostegno

umano, questa testimonianza di trascendenza che ci

aiuti a percepire il cielo in terra, l’orientamento verso

l’eterno nei nostri giorni quotidiani. Ogni prete sa che

questo è ciò che qualifica il suo servizio tra le gente, in

specie tra i giovani, nelle varie forme di animazione di

cui tutti abbiamo esperienza.

Il legame del sacerdote con Dio si esprime poi nella

dimensione specifica di segno di Cristo Pastore tra noi.

Dio non ha voluto abbandonare l’umanità al suo destino,

ma come un pastore con il suo gregge ha voluto

radunare i suoi figli nel suo amore. Segno supremo di

questo amore è il suo stesso Figlio fatto uomo, quel Gesù

che i vangeli ci presentano come il buon Pastore che “dà

la propria vita per le pecore” (Gv 10,11). È il volto di

Gesù pastore del suo popolo che i sacerdoti sono chiamati

a perpetuare nel tempo, assimilandosi a Cristo e

facendosi mediatori della grazia con l’annuncio della

Parola e la celebrazione dei Sacramenti. Questo ministero

va esercitato nella dedizione umile e generosa nei

confronti del popolo di Dio, con la carità stessa di

Cristo. È essenziale per una serena vita pastorale saper

guardare a un sacerdote non fermandosi alle sue attitudini

umane, ma vedendo in trasparenza nel suo agire

l’amore stesso di Gesù. Egli è solo un segno; la realtà cui

rimanda è il nostro Pastore e Salvatore. Questo ci permette

anche uno sguardo di comprensione e di perdono

verso i limiti dei nostri sacerdoti, anche verso le loro

eventuali mancanze, sapendo che la loro umanità e la

loro fragilità non è cancellata. Come in una famiglia,

anche nella comunità cristiana senza comprensione e

perdono non si va avanti.

Il servizio del sacerdote

Qual è il compito di un sacerdote? Al primo posto c’è

l’annuncio della Parola. La fede nasce infatti dall’ascolto:

primo dovere della Chiesa è annunciare il vangelo

della salvezza di Gesù, e a questo compito è anzitutto

destinato il sacerdote, che deve divulgare con fedeltà la

verità del vangelo, annunciandola e istruendo in essa

quanti gli sono affidati. Predicazione, catechesi, esortazione,

insegnamento spirituale: ciascuno di noi ha potuto

sperimentare nella propria vita come attraverso la

Parola proclamata una luce di verità e di speranza è

stata proiettata sulle vicende della nostra famiglia e dei

suoi componenti, magari in momenti di particolare difficoltà.

In un mondo oggi assai lontano da un contesto

culturale conforme alle istanze evangeliche, sempre più

preda della mutevolezza e della varietà delle opinioni,

vittima della rinuncia alla verità, la missione dell’annuncio

diventa sempre più gravosa per i nostri preti, cui

non deve mancare pertanto il sostegno di quanti, diaconi

e fedeli laici, religiosi e religiose, nella comunità cristiana

possono apportare in aiuto competenze culturali

e anche teologiche. Un aiuto specifico all’evangelizzazione

lo si attende dalle famiglie, per l’unicità di

un’esperienza d’amore a immagine stessa della Trinità,

ma anche come ambiente fraterno per il sacerdote, che

rinunciando a una propria famiglia deve sentirsi da esse

accolto e sostenuto.

La Parola chiama alla fede, ma la fede è frutto del

dono della grazia, che si comunica nella forma ordinaria

dei Sacramenti. E qui ritroviamo il sacerdote, che ci

ha generato e genera i nostri figli alla vita divina

mediante il Battesimo; conduce alla pienezza del dono

dello Spirito preparandoci alla Confermazione; spezza il

pane e dispensa il vino della presenza di Cristo fatto

carne e sangue per noi nell’Eucaristia dove si fa memoria

reale del suo sacrificio d’amore; diventa il tramite del

perdono del Padre quando nella Riconciliazione ci guarisce

dalle colpe; è ancora lui a benedire il Matrimonio

nel sacramento di cui gli sposi sono ministri; a lui affidiamo

gli istanti gravosi della malattia e quelli ultimi

dell’esistenza nel gesto dell’Unzione. Tutte le stagioni

della vita sono segnate dalla presenza del sacerdote,

dalle cui mani rifluisce su di noi il dono della grazia

divina: da soli non possiamo farci cristiani e crescere

come figli di Dio. In modo particolare è nel ministero del

sacerdote la sorgente del sacramento che è fonte e culmine

della vita della Chiesa, l’Eucaristia: dalla mensa

del sacrificio di Cristo si alimentano le mense delle

nostre case con l’amore che non viene mai meno, quello

di cui necessitano le nostre famiglie per non perdersi nel

tempo e disgregarsi nel conflitto degli egoismi.

La parola di verità e la grazia sacramentale che il

sacerdote trasmette in forza del sacramento dell’Ordine

sono costitutivi della comunità cristiana. Il prete è il

promotore della comunione nella comunità cristiana,

vivendo egli stesso per primo in questo orizzonte. Non si

è infatti preti da soli, ma dentro un presbiterio, con vincoli

di fraternità e di cooperazione pastorale. Cosicché è

importante non sentire le nostre singole comunità legate

esclusivamente a questo o a quel prete, ma affidate

insieme al presbiterio di una diocesi e quindi pronte ad

accogliere ogni sacerdote che verrà loro destinato secondo

le necessità pastorali cui il vescovo deve provvedere

nell’interesse di tutto il popolo di Dio del territorio.

Promotore di comunione nella comunità, al sacerdote è

chiesto anche di animare i doni e i carismi di cui ogni

comunità è dotata dal Signore, creando unità e servizio

reciproco. Tra questi doni c’è anche il ministero dei

coniugi, che dal servizio del sacerdote riceve sostegno e

alimento di fedeltà.

Presenza nel territorio e tra la gente

Nell’esperienza delle nostre comunità la presenza dei

sacerdoti si contraddistingue per una stretta prossimità

alla vita della gente, tramite una diffusa presenza nelle

comunità umane disseminate nel territorio e condizioni

di esistenza vicine a quelle della popolazione. In questa

vicinanza matura anche l’attenzione dei preti ai problemi

concreti della gente e delle comunità, diventando essi

promotori non solo di vita religiosa ma anche culturale

e sociale. I preti sono presenti sul versante educativo,

animando la crescita dei nostri ragazzi, come pure su

quello sociale, promuovendo momenti aggregativi che

danno identità a paesi e quartieri. Sono vicini anche alle

tante povertà diffuse tra noi, alle solitudini da riempire

con generosa accoglienza senza nessuno escludere, ai

momenti della fragilità nelle malattie e nelle sofferenze

che ogni famiglia sa di dover attraversare. Di questa

prossimità non saremo mai abbastanza grati ai nostri

preti e ad essa dobbiamo sentire il dovere di dare sostegno

e cooperazione.

Pregare con e per i preti

Concludo queste mie righe ricordando la funzione

che i sacerdoti hanno nel sostenere la nostra preghiera,

nell’educarci al dialogo con Dio. Se le prime preghiere si

apprendono nella casa, è nella chiesa che si sviluppa la

nostra capacità di colloquio spirituale, alimentandosi

alla pratiche di pietà e nutrendosi della parola di Dio.

Grati per questa iniziazione alla preghiera, dobbiamo

sentire il dovere di ricambiare con la nostra preghiera

per i sacerdoti, così che essa li sostenga nella fedeltà alla

loro vocazione e nella generosità nel loro servizio. Alla

vostra preghiera, care famiglie, affido i sacerdoti della

nostra arcidiocesi fiorentina. È una preghiera che chiedo

sia particolarmente intensa per le vocazioni sacerdotali,

perché sia sorretto il coraggio della risposta nei giovani

che il Signore chiama a questo sacro ministero.

Firenze, 6 gennaio 2010

Solennità dell’Epifania del Signore

@ GIUSEPPE BETORI

Arcivescovo di Firenze

 

 Conferenza Episcopale Italiana - Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi

  Lettera ai cercatori di Dio

 

 Presentazione

 

Questa “Lettera ai cercatori di Dio” è stata preparata per iniziativa della Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi della Conferenza Episcopale Italiana, come sussidio offerto a chiunque voglia farne oggetto di lettura personale, oltre che come punto di partenza per dialoghi destinati al primo annuncio della fede in Gesù Cristo, all’interno di un itinerario che possa introdurre all’esperienza della vita cristiana nella Chiesa. Il Consiglio Episcopale Permanente ne ha approvato la pubblicazione nella sessione del 22-25 settembre 2008.

 

Frutto di un lavoro collegiale che ha coinvolto vescovi, teologi, pastoralisti, catecheti ed esperti nella comunicazione, la Lettera si rivolge ai “cercatori di Dio”, a tutti coloro, cioè, che sono alla ricerca del volto del Dio vivente. Lo sono i credenti, che crescono nella conoscenza della fede proprio a partire da domande sempre nuove, e quanti - pur non credendo - avvertono la profondità degli interrogativi su Dio e sulle cose ultime. La Lettera vorrebbe suscitare attenzione e interesse anche in chi non si sente in ricerca, nel pieno rispetto della coscienza di ciascuno, con amicizia e simpatia verso tutti.

           

Il testo parte da alcune domande che ci sembrano diffuse nel vissuto di molti, per poi proporre l’annuncio cristiano e rispondere alla richiesta: dove e come incontrare il Dio di Gesù Cristo? Ovviamente, la Lettera non intende dire tutto: essa vuole piuttosto suggerire, evocare, attrarre a un successivo approfondimento, per il quale si rimanda a strumenti più adatti e completi, fra cui spiccano il Catechismo della Chiesa Cattolica e i Catechismi della Conferenza Episcopale Italiana.

           

La Commissione Episcopale si augura che la Lettera possa raggiungere tanti e suscitare reazioni, risposte, nuove domande, che aiutino ciascuno a interrogarsi sul Dio di Gesù Cristo e a lasciarsi interrogare da Lui. Affida perciò al Signore queste pagine e chi le leggerà, perché sia Lui a farne strumento della Sua grazia.

 

 

                       X Bruno Forte

           Arcivescovo di Chieti-Vasto

Presidente della Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi

   

Roma, 12 aprile 2009, Pasqua di Risurrezione

 

Premessa

  

Come credenti in Gesù Cristo, animati dal desiderio di far conoscere colui che ha dato senso e speranza alla nostra vita, ci rivolgiamo con rispetto e amicizia a tutti i cercatori di Dio. Li riconosciamo in tanti uomini e donne del nostro tempo, guardando alla situazione di inquietudine diffusa, che non ci sembra possibile ignorare. È un’inquietudine che abbiamo riconosciuta anche in noi stessi e che si esprime nella domanda, presente nel cuore di molti: Dio, chi sei per me? E io chi sono per te?

 

Ci rendiamo conto che, abitualmente, questa domanda viene espressa con parole molto diverse da quelle appena accennate. Sappiamo anche che a volte è soffocata, disturbata, fraintesa o sembra lanciata inutilmente, verso orizzonti indecifrabili. Abbiamo però l’impressione che l’interrogativo sul mistero ultimo che tutti ci avvolge, e di conseguenza sul senso della nostra esistenza, sia veramente diffuso. Ci preoccupa anzi il dover constatare che a volte e per ragioni diverse esso venga spento sul nascere o corra il rischio di insabbiarsi.

 

È questo che ci ha sollecitati a scrivere una “lettera” a coloro che cercano e spesso faticano a trovare una risposta alle domande più profonde del loro cuore e anche a coloro che non cercano più, rassegnati o delusi. Vorremmo fosse un dialogo tra amici, lo spunto per trovarsi a riflettere insieme con verità e trasparenza. Una “lettera” che è piuttosto un insieme di lettere, un po’ come lo sono alcune dell’apostolo Paolo, per usare un esempio familiare a chi conosce le Sacre Scritture.

 

Chiediamo a chi leggerà queste pagine di interpretarle come un gesto di amicizia. Le abbiamo intitolate “Lettera ai cercatori di Dio”, perché riteniamo che chi cerca ragioni per vivere, in qualche modo e nel profondo della sua attesa cerchi Dio: vogliamo proporre una strada per incontrare Gesù, il Cristo, il Figlio del Dio vivente venuto fra noi, colui che sovverte i nostri schemi e le nostre attese, ma è anche il solo che riteniamo possa darci l’acqua che disseta per la vita eterna.

 

Si tratta dunque:

 

-          di un invito a riflettere insieme sulle domande che ci uniscono (parte I);

 

-          di una testimonianza, tesa a rendere ragione della speranza che è in noi (parte II);

 

-          di una proposta fatta a chi cerca la via di un incontro possibile con il Dio di Gesù Cristo (parte III).


I

 

le domande che ci uniscono


 

            In questa prima parte, cerchiamo di dare uno sguardo al cuore di tutti, capace di andare oltre le apparenze. Constatiamo così la presenza di una diffusa attesa di qualcosa – o di Qualcuno – cui si possa affidare il proprio desiderio di felicità e di futuro, e che sia in grado di dischiuderci un senso, tale da rendere la nostra vita buona e degna di essere vissuta.

 

Non possiamo certamente dimenticare che questo sogno di felicità e di futuro viene percepito in modi diversissimi e si manifesta con tanti nomi. Dobbiamo cercare di decifrarlo, organizzandolo intorno ad alcune domande concrete. Abbiamo scelto degli interrogativi, che ci sembrano attraversare eventi, persone, esperienze di gioia e di limite, riconoscibili nella vita di ognuno.

 

Si tratta delle domande che riguardano la nostra esistenza, il nostro destino e il senso di ciò che siamo e facciamo, oltre che di tutto ciò che ci circonda. Sono interrogativi che, per essere veramente affrontati, richiedono il coraggio della ricerca della verità e la libertà del cuore e della mente. Come discepoli di Gesù, ci sembra di poter discernere in queste molteplici attese una forte domanda di incontro con il Dio che lui ci ha rivelato.

 

 

1. FELICITÀ E SOFFERENZA

 

 

Siamo cercatori di felicità, appassionati e mai sazi. Questa inquietudine ci accomuna tutti. Sembra quasi che sia la dimensione più forte e consistente dell’esistenza, il punto di incontro e di convergenza delle differenze. Non può essere che così: è la nostra vita quotidiana il luogo da cui sale la sete di felicità. Nasce con il primo anelito di vita e si spegne con l’ultimo. Nel cammino tra la nascita e la morte, siamo tutti cercatori di felicità.

 

Certo, questa esperienza comune si frastaglia in mille direzioni differenti. Tutti possiamo riconoscerci nel bisogno di felicità: ma quale felicità cerchiamo? come la cerchiamo? quali strumenti ce ne assicurano il possesso? e gli altri, in questa appassionata ricerca, che posto hanno?

 

Qualcuno ha accusato la tradizione cristiana di opporsi alla voglia di felicità, di guardare eccessivamente al futuro dimenticando il presente. Qualche volta è stato contestato ai credenti in Cristo l’eccessivo prezzo da pagare per assicurare la felicità, o si sono loro rimproverati i modelli dal sapore rinunciatario, persino un poco masochista, presentati come condizione per raggiungere la felicità. Qualcuno è arrivato alla decisione di dover liberare l’uomo da Dio per restituirgli il diritto alla felicità.

 

Le provocazioni ci sfidano e ci aiutano a pensare, facendoci riscoprire alla radice dell’esperienza cristiana la figura di Gesù, che ci ha offerto il volto di un Dio amante della vita e della felicità dell’uomo. Peraltro, le crisi nel rapporto tra vita e felicità non riguardano solo noi cristiani. Chiunque ama la vita e cerca la gioia duratura per sé e per gli altri, non riuscirà certamente ad accontentarsi di proposte che legano la felicità unicamente al possesso, alla conquista, al potere, al solo piacere, all’egoismo personale o di gruppo.

 

 

L’esperienza della fragilità

 

Come credenti, abbiamo una convinzione irrinunciabile, che ci viene dalla nostra esperienza cristiana. Su di essa cerchiamo il confronto con tutti coloro che preferiscono la vita alla morte e cercano la felicità come la qualità profonda di questa stessa vita. La vita è bella nonostante tutte le prove e le disavventure, perché esistiamo e sperimentiamo l’amore.

 

Non per tutti, certo, è così. La vita è segnata in tutte le sue fasi e le sue forme dalla fragilità: la fragilità del nascituro, del bambino, dell’anziano, del malato, del povero, dell’abbandonato, dell’emarginato, dell’immigrato, del carcerato. In tutte le età ci sono sofferenze fisiche, psichiche, sociali. Come avviene per la felicità, anche l’esperienza del dolore ci accomuna tutti.

 

Come in ogni situazione umana si sperimenta la fragilità, così ogni ambiente vitale è frutto di un fragile equilibrio. Nei volti delle famiglie ci sono spesso più lacrime da asciugare che sorrisi da raccogliere. Nella vita ci sono sofferenze che arrivano contro ogni nostra aspettativa e ci sono anche sofferenze che nascono dai nostri errori e dalle nostre colpe, quelle che costruiamo con le nostre mani: quando, ad esempio, diamo la prevalenza all’avere sull’essere; quando ci carichiamo di cose inutili; quando diamo la precedenza alle cose sulle persone, agli interessi materiali sugli affetti.

 

La fragilità rimane una grande sfida: da sempre essa ha suscitato interrogativi, problemi, dubbi. Un personaggio della Bibbia è diventato una sorta di riferimento per coloro che hanno il coraggio di riflettere sul dolore. Si tratta di Giobbe: con il suo nome chiamiamo chi soffre ingiustamente e chi giustamente ha motivi per lamentarsi. Con Giobbe ci chiediamo: perché dobbiamo soffrire e morire?

 

Molti non conoscono le parole che la Bibbia mette sulle labbra di Giobbe nel momento in cui il contatto con il dolore diventa bruciante. Parole simili, forse, le abbiamo gridate noi stessi, una o tante volte:

 

Perisca il giorno in cui nacqui…

Perché non sono morto fin dal seno di mia madre

e non spirai appena uscito dal grembo?

Perché due ginocchia mi hanno accolto,

e due mammelle mi allattarono? …

Come lo schiavo sospira l’ombra

e come il mercenario aspetta il suo salario,

così a me sono toccati mesi di illusione

e notti di affanno mi sono state assegnate…

Ricordati che un soffio è la mia vita,

il mio occhio non rivedrà più il bene.

 

                          (Giobbe 3,3. 11-12; 7,2-3. 7)

 

  

Quale felicità?

 

Facciamo fatica ad accettare la scuola della sofferenza per scoprire che cosa sia la vita e la felicità. Nonostante tutte le nostre riflessioni e le nostre proteste, infatti, la debolezza, il dolore, la morte rimangono un mistero.

 

La cultura moderna, non sapendo dare una risposta a queste sfide, cerca di nasconderle con l’ebbrezza del consumismo, del piacere, del divertimento, del non pensarci. In tal modo, però, si nega il significato profondo della debolezza e della vulnerabilità umane e se ne ignora sia il peso di sofferenza, sia il valore e la dignità: e questo rende interiormente aridi e induce a vivere in modo superficiale.

 

L’esperienza della fragilità, del limite, della malattia e della morte può insegnarci alcune cose fondamentali. La prima è che non siamo eterni: non siamo in questo mondo per rimanerci per sempre; siamo pellegrini, di passaggio. La seconda è che non siamo onnipotenti: nonostante i progressi della scienza e della tecnica, la nostra vita non dipende solo da noi, la nostra fragilità è segno evidente del limite umano. Infine, l’esperienza della fragilità ci insegna che i beni più importanti sono la vita e l’amore: la malattia, ad esempio, ci costringe a mettere nel giusto ordine le cose che contano davvero.

 

La fragilità è una grande sfida anche per la fede nel Dio di Gesù Cristo. Il Signore ci ha creati per la vita, per la felicità. Perché, allora, permette il dolore, l’invecchiamento, la morte? Quante domande di fronte a un dolore o a un lutto che fa sanguinare il cuore! Si può perfino dire che la sofferenza e la morte sono la più grossa sfida contro Dio. C’è chi si è dichiarato “ateo” per amore di Dio, per giustificare la sua assenza e il suo silenzio davanti al dolore innocente.

 

 

Che cosa possiamo sperare?

 

Le domande si moltiplicano. Ciascuno ha le proprie. A pensarci bene, cambiano le parole, ma il grido resta, comune e condiviso da tutti: abbiamo una gran voglia di vita, di felicità, di sicurezza e di tranquillità, e il dolore, la fragilità e la morte sembrano fatti apposta per distruggere tutto questo. Dobbiamo rassegnarci? Spegnere la voglia di vita, raffreddando i nostri slanci? Dobbiamo riconoscere che questa non è la nostra casa e rimandare tutto a un dopo, a quando saremo finalmente a casa?

 

Ma questa casa, lontana e non sperimentabile, c’è davvero o resta un’illusione, più o meno com’è per tanti tentativi che costruiamo con le nostre pretese e che ci lasciano l’amaro in bocca? Qualcuno va oltre, pensando: smettiamola di sognare e accontentiamoci di quello che possiamo avere tra le mani. Pazienza, poi, se dobbiamo sottrarlo, violentemente o astutamente, ad altri. Questa è la vita. Non è più saggio rassegnarsi?

 

La nostra esperienza quotidiana è spesso tentata di cadere nella rassegnazione e nel cinismo, eppure si spalanca continuamente verso una forte necessità di speranza. Ma che cosa significa sperare? La speranza ha a che fare con la gioia di vivere. Suppone un futuro da attendere, da preparare, da desiderare. Sentiamo che la speranza richiede e suscita unità nel cuore: dà senso e motiva ogni nostro sentimento, ogni nostra aspirazione, ogni nostro progetto. Promuove anche unità nella storia: nelle tante cose che pensiamo e che facciamo ogni giorno ci può essere un filo conduttore che collega e illumina tutto quanto. Se c’è speranza, c’è pazienza e c’è la vigilanza che sa vagliare e spinge all’impegno in ogni cosa.

 

Non si può vivere senza speranza: sarebbe come vivere senza riuscire a dare una prima iniziale risposta all’interrogativo “perché sono al mondo”? Tutti abbiamo bisogno di un orizzonte di senso, per dire qualcosa di vero sul nostro futuro. Ha senso sperare che ciò che desideriamo si attui; così pure ha senso sperare di avere successo nei singoli aspetti su cui puntiamo. C’è una speranza a livello personale e c’è una speranza a livello storico-cosmico. Il tempo e le circostanze sono importanti per dare un contesto e un contenuto alle nostre speranze.

 

C’è una speranza che nasce e cresce grazie ai rapporti con le persone; anzi certi rapporti, aperti al dialogo e alla collaborazione, generano speranza, perché ci fanno sentire accolti e cercati e ci stimolano all’azione. Ma è possibile pensare e desiderare la speranza come dono che viene a noi in modo imprevedibile, come intervento non soltanto umano? Un dono che trascende le nostre possibilità, la nostra progettualità, i nostri orizzonti?

 

Nei momenti più felici, come in quelli più profondi, anche quando sono sofferti, sogniamo una speranza che crede e che ama: la speranza di chi si sente amato, cercato, sostenuto nel quotidiano, in un crescendo di senso, di gioia, di operosità costruttiva, che va oltre la fine di tutto. È questa la speranza che viene da Dio?


 

2. AMORE E FALLIMENTI

  

Siamo fatti per amare. L’amore dà la vita e vince la morte: “Se c’è in me una certezza incrollabile, essa è quella che un mondo che viene abbandonato dall’amore deve sprofondare nella morte, ma che là dove l’amore perdura, dove trionfa su tutto ciò che vorrebbe avvilire, la morte è definitivamente vinta” (Gabriel Marcel). Ne siamo consapevoli, anche quando le parole che pronunciamo e i fatti di cui è intessuta la nostra esistenza non sono in grado di esprimere quello che abbiamo intuito e che desideriamo. Ci fanno paura le persone aride, spente nella voglia di amare e di essere amate.

 

L’amore è irradiante, contagioso, origine prima e sempre nuova della vita. Per amore siamo nati. Per amore viviamo. Essere amati è gioia. Senza amore la vita resta triste e vuota. L’amore è uscita coraggiosa da sé, per andare verso gli altri e accogliere il dono della loro diversità dal nostro io, superando nell’incontro l’incertezza della nostra identità e la solitudine delle nostre sicurezze.

  

Imparare ad amare

 

Quella dell’amore è la storia più personale della nostra esistenza. Riconosciamo i percorsi e proclamiamo gli eventi che la punteggiano. Ma ci troviamo spesso affaticati, stanchi, sollecitati a fermarci al bordo della strada a causa di delusioni e incertezze.

 

Riconosciamo che nella via dell’amore c’è sempre una provenienza, un’accoglienza e un avvenire. La provenienza è l’uscire da sé nella generosità del dono, per la sola gioia di amare: l’amore nasce dalla gratuità o non è. L’accoglienza è il riconoscimento grato dell’altro, la gioia e l’umiltà del lasciarsi amare. L’avvenire è il dono che si fa accoglienza e l’accoglienza che si fa dono, l’essere liberi da sé per essere uno con l’altro e nell’altro, in una comunione reciproca e aperta agli altri, che è libertà.

 

Tutto questo è difficile. Mille ostacoli attraversano il cammino e spesso lo bloccano. Basta uno sguardo al mondo dei rapporti umani, per constatare l’evidenza di tanti fallimenti dell’amore, un’evidenza che appare perfino chiassosa e inquietante. Siamo fatti per amare e scopriamo quasi di non esserne capaci. Originati dall’amore, ci sembra tanto spesso di non saper suscitare amore.

 

Perché? Ce lo chiediamo quando la nostalgia di esperienze di amore intense e limpide attraversa la nostra esistenza e colora i nostri sogni. Qualcuno, raccogliendo le parole dalla sua esperienza, suggerisce ragioni e prospettive di questa fatica di amare, tutte, comunque, da verificare in prima persona. Sono la possessività, l’ingratitudine e la tentazione di catturare l’altro le forme che più comunemente paralizzano il cammino dell’amore.

 

La possessività paralizza l’amore perché impedisce il dono, bloccando il cuore in un avido e illusorio accumulo di ricchezza per sé. L’ingratitudine è l’opposto della riconoscenza gioiosa. Impedisce l’accoglienza dell’altro e impoverisce l’anima, perché dove non c’è gratitudine, il dono stesso è perduto. La cattura è frutto della gelosia, e insieme della paura di perdere l’istante posseduto: in una sorta di sazietà illusoria essa chiude lo sguardo verso gli altri e verso l’avvenire. Come superare queste resistenze? Come divenire capaci di amare oltre ogni possessività, ingratitudine e prigione del cuore? Chi ci renderà capaci di amare?

 

Rinascere sempre di nuovo nell’amore

 

Abbiamo cercato parole per dire il nostro amore, quello che ci fa nascere, vivere e sperare. Abbiamo dovuto usare parole amare, come delusione, fallimento, tradimento, incertezza, chiusura, egoismo. Non tutto è così, per fortuna.

 

La nostra esperienza di amore sa rinascere. Parliamo di fallimento proprio perché sogniamo esperienze diverse. Sogniamo esperienze nuove perché altri, amici vicini o sconosciuti, ci restituiscono fiducia nell’amore e sicurezza nella sua vittoria, nonostante tutto.

 

Davvero lo scontro tra amore e tradimento mette la nostra esistenza in una condizione di inquietudine, che scopriamo sempre presente e nuova, anche quando ci sembra d’averla superata e risolta. Nel silenzio del nostro cuore inquieto troviamo una domanda che avvolge tutto il mistero del nostro esistere e che si proietta in avanti, anche quando sperimentiamo risposte che sembrano soddisfacenti.

 

Soprattutto deve diventare veramente nostra la risposta che ognuno di noi darà a questa domanda. Ciascuno è chiamato a esprimerla nella sua storia personale e a dire a se stesso le sue buone ragioni per amare e superare le resistenze ad amare a partire dal proprio vissuto. La solidarietà che ci lega ci spinge però a rompere il silenzio per farci ciascuno proposta agli altri.

 

Sì: c’è in noi un immenso bisogno di amare e di essere amati. Davvero, “è l’amore che fa esistere” (Maurice Blondel). È l’amore che vince la morte: “Amare qualcuno significa dirgli: tu non morirai!” (Gabriel Marcel). Eugenio Montale esprime intensamente questo bisogno, che è insieme nostalgia, desiderio e attesa, nei versi scritti dopo la morte della moglie, dove è proprio l’assenza della persona amata a far percepire l’importanza dell’amore, che vive al di là di ogni fragilità e interruzione:

 

            Ho sceso, dandoti il braccio,

            almeno un milione di scale

            e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

            Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

            Il mio dura tuttora, né più mi occorrono

            le coincidenze, le prenotazioni,

            le trappole, gli scorni di chi crede

            che la realtà sia quella che si vede.

 

            Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

            non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.

            Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

            le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

            erano le tue.

 

 

In questo bisogno di rinascere sempre di nuovo nell’amore ci sembra riconoscibile una nostalgia: quella di un amore infinito…


 

3. LAVORO E FESTA

 

Il lavoro è un diritto e una responsabilità. Nel lavoro entrano in gioco la nostra dignità di persone, il senso e la qualità della nostra vita, l’esercizio quotidiano della nostra relazione con gli altri. Ne siamo convinti e non abbiamo bisogno che qualcuno ce lo ricordi. Guardiamo con senso di preoccupazione e di rimprovero le persone che hanno poca voglia di lavorare. Percepiamo la difficoltà e perfino il dramma di chi non riesce a trovare lavoro. La negazione del diritto al lavoro, di cui soffrono ancora tante donne e uomini di questo tempo, specialmente fra i giovani, non può lasciarci indifferenti.

 

Come discepoli di Gesù, il Figlio di Dio che “ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo” (Concilio Vaticano II, Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22), riconosciamo al lavoro una grande dignità, un significato profondo. Vogliamo perciò interrogarci insieme sul suo significato, per comprendere meglio questa dimensione importante della nostra esistenza e le attese che essa porta con sé.

  

Perché il lavoro?

 

Per il lavoro impegniamo la maggior parte della nostra esistenza. Se perdiamo il senso del lavoro, perdiamo il senso stesso della nostra vita. Veniamo da esperienze e da modelli di tessuto sociale in cui il lavoro era gravato da condizioni disumane: dannoso alla salute, carico di pericoli, segnato da orari insopportabili, pagato in nero. Oggi, certamente, molte cose sono cambiate, anche se non sempre e non per tutti.

 

Affiorano però problemi nuovi, connessi alla globalizzazione, alla delocalizzazione, alla concorrenza, alle difficoltà delle imprese, alle ricorrenti crisi economiche. È cresciuto il livello medio della ricchezza, ma nel contempo si sono allargate le aree della povertà e dell’emarginazione. La forte innovazione tecnologica ha spesso determinato nel lavoratore insicurezza sul suo posto di lavoro e incertezza sul destino della sua professionalità. Ne deriva una sete di giustizia e di dignità, sempre più diffusa ed esigente.

 

In quali condizioni lavorare, per non diventare schiavi del lavoro e perché in esso si esprima la nostra dignità di persone? Ce lo chiediamo con l’ansia di chi non si accontenta di parole e riconosce di affrontare questioni vitali, personali e sociali. Non viviamo per lavorare, ma lavoriamo per vivere. Non lavoriamo per fare soldi - o almeno non dovremmo farlo solo per questo -, lavoriamo per vivere dignitosamente. Non lavoriamo solo per noi, ma per far vivere coloro che non sono ancora in grado di lavorare, i bambini, e coloro che non possono più lavorare, gli anziani. Il lavoro deve servire a realizzare la nostra dignità di persone. Non è una merce che si compra e si vende, ma un’attività umana libera e responsabile.

 

La crescita in consapevolezza e in responsabilità ci ha aiutato a scoprire un’altra ragione del nostro lavoro: lavoriamo per il benessere della collettività e dell’umanità in generale. In tal senso, il lavoro è un obbligo morale verso il prossimo: in primo luogo verso la famiglia, poi verso la società a cui si appartiene, la nazione di cui si è cittadini, l’intera famiglia umana. Noi siamo eredi del lavoro delle generazioni che ci hanno preceduto e insieme costruttori del futuro di coloro che vivranno dopo di noi.

 

Quanti riconoscono orizzonti più alti di quelli che costruiamo con le nostre mani e collocano, in qualche modo, il riferimento a Dio creatore nella loro esperienza quotidiana, individuano un’ulteriore ragione del lavoro umano. A noi pare importante e offre un respiro di speranza alla nostra fatica, anche se ci rendiamo conto di quanto questa visione possa essere esigente: mediante il lavoro l’uomo collabora con Dio nel portare a termine la creazione.

 

Lo riferisce una delle prime pagine della Bibbia. Dopo aver creato il mondo, Dio comanda all’uomo e alla donna: “Riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo…” (Genesi 1,28). Soggiogare la terra vuol dire prendere possesso dell’ambiente e governarlo, rispettando l’ordine posto in esso dal Creatore e sviluppandolo a proprio vantaggio, per soddisfare i bisogni propri, della famiglia e della società. In questo consiste l’impresa della scienza e del lavoro per umanizzare il mondo, al fine di farne la dimora dell’uomo, una casa di giustizia, di libertà e di pace per tutti.

 

Quando Dio ha creato il mondo, non lo ha creato compiuto: la creazione non è finita. L’uomo ha preso possesso lentamente della terra, forgiandola, adattandola alle sue esigenze, sviluppando le potenzialità del creato per il suo bene e per la gloria di Dio. In modo particolare oggi stiamo assistendo a trasformazioni impensabili fino a pochi decenni fa. Esse ci fanno vedere come l’uomo abbia capacità sconfinate, di cui sono strumento le nuove tecnologie.

 

Non siamo però padroni del creato. Dobbiamo collaborare con Dio nel portarlo a compimento, rispettando la natura e le leggi insite in essa. Dio ci ha affidato il creato, perché potessimo custodirlo e perfezionarlo, non per sfruttarlo e manipolarlo a nostro piacimento. Ce lo ricorda ancora il libro della Genesi: “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (2,15). Il lavoro - vissuto in condizioni rispettose della giustizia e della dignità umana, oltre che dell’ambiente affidatoci dal Creatore - è la via in cui l’uomo realizza questo compito. 

  

Problemi e sfide

 

Nel mondo del lavoro, però, non mancano le contraddizioni e i problemi: “Va bene lavorare - osserva qualcuno - ma con questi ritmi e con questa tensione non c’è più tempo né per me, né per la mia famiglia”. Molti giovani sono costretti a constatare: “Dicono che ogni uomo ha diritto a un lavoro, ma da tempo non riesco a trovare un’occupazione che mi dia garanzie”. Non è facile trovare le parole adeguate per confrontarsi con queste sfide. Del resto, le parole da sole non bastano. Ci vogliono fatti. Quali? Come possiamo produrre fatti nuovi in un contesto sociale quale è quello che spesso sperimentiamo, dove valgono regole e dominano logiche, che tante volte calpestano la dignità della persona umana e il suo diritto al lavoro?

 

Non è difficile constatare come, purtroppo, la cultura occidentale abbia messo alla base dell’idea del lavoro una prospettiva economicistica e materialistica, che finisce con il riservare il primato al denaro. Questo è uno dei più gravi errori del nostro tempo, da cui deriva un principio perverso nella vita sociale: avere sempre di più, secondo la logica per cui la ricchezza deve produrre nuova ricchezza e bisogna perciò tendere sempre al massimo profitto. Una delle conseguenze più tragiche è sotto gli occhi di tutti: uno sviluppo squilibrato, che crea diverse velocità di crescita, per cui i popoli ricchi diventano sempre più ricchi e i popoli poveri sempre più poveri. Questa disparità va accentuandosi anche tra le componenti di una stessa comunità.

 

Non tutto, però, è così. A uno sguardo attento si offrono certamente non poche realizzazioni positive, che rassicurano il nostro impegno e alimentano la nostra speranza. Possiamo dirlo con consapevolezza proprio guardando al nostro popolo, ricco di tante persone impegnate e coraggiose, che hanno saputo trasformare le terre più aride e rendere i contesti di produzione più difficili luoghi di umanità benestante, promuovendo la qualità della vita di tutti.

 

Tanto però resta ancora da realizzare. Siamo consapevoli che molto di quello che c’è da fare riguarda la direzione e il senso del nostro impegno, la qualità del nostro lavoro e dell’ambiente in cui esso si svolge, la sicurezza che prevenga ogni possibile danno ai lavoratori. Abbiamo tutti domande inquietanti e possediamo frammenti di risposte concrete. Condividendo le une e le altre, possiamo progettare un futuro forse più felice del presente, da condividere come protagonisti.

 

La dignità di chi lavora e la festa

 

Tra domande e risposte che toccano il lavoro e la nostra responsabilità verso gli altri e verso il creato, trova collocazione un’esigenza che è ormai patrimonio di quasi tutta l’umanità, almeno sul piano teorico. La tradizione cristiana la sottolinea con forza: è l’esigenza del riposo e della festa.

 

Sì, c’è un modo concreto per esprimere la dignità di chi lavora: sospendere l’attività lavorativa con il riposo settimanale, a somiglianza di Dio che, dopo avere creato il mondo, si riposò. L’uomo partecipa al lavoro e al riposo di Dio: entrambi sono per lui una benedizione e un dono, fecondi di vita e necessari per affermare la dignità della persona umana.

 

Il riposo settimanale non ha solo lo scopo di far recuperare le forze fisiche, al fine di lavorare di più e meglio nei giorni seguenti: questo sarebbe il riposo dello schiavo. Riposare e celebrare la festa sono espressione della “libertà” dell’essere umano, esperienza di comunione in famiglia e di incontro fraterno nella comunità, possibilità di ravvivare la relazione con la natura. Per i cristiani il riposo e la festa domenicali sono in modo particolare partecipazione alla vita del Signore Risorto, anticipazione e pregustazione della vita futura nella comunità radunata nel suo nome. Partecipando all’Eucaristia domenicale i cristiani sono chiamati a liberarsi dall’idolatria del denaro, del possesso, del lavoro ossessivo e a crescere nella sobrietà e nella solidarietà con i più deboli.

 

Certo, è più facile dirlo che farlo. La realtà sociale e la trama intricata in cui essa si svolge, esige da tanti uomini e donne una disponibilità che non consente giorni vuoti o tempi rigidi. La festa e il riposo restano per molti un’aspirazione, troppo lontana per essere sperimentata. Ma non è giusto rassegnarsi e non ci aiuta a crescere in umanità constatare le esigenze, senza venirvi incontro e immaginare alternative. Dobbiamo cercarle insieme, mettendo a frutto fantasia, amore, competenza e responsabilità. In questa ricerca tutti siamo chiamati a collaborare, perché la posta in gioco riguarda tutti. E lo sguardo della fede ci è di grande aiuto.

 

4. GIUSTIZIA E PACE

 

Nel mondo di oggi gli avvenimenti ci rincorrono: è impossibile fuggirli, perché il mondo si è fatto stretto e isolarsi non può essere una soluzione. Questa nuova dimensione dell’esistenza ha un profondo significato etico. Comporta, infatti, che non possiamo nasconderci nemmeno davanti alle nostre responsabilità morali. Anche in questo senso il mondo è diventato piccolo. Non possiamo chiudere gli occhi. Non possiamo cercare un senso più alto alla vita o lo stesso volto di Dio senza interrogarci sulla realtà così com’è e sul nostro posto e la nostra responsabilità in essa.

 

In questo contesto, parliamo di pace e riconosciamo il suo stretto rapporto con la giustizia e il rispetto dell’ambiente. Spesso tutto si ferma lì. I buoni progetti e le grandi proclamazioni restano lettera morta, mentre dominano le divisioni e le ingiustizie che scatenano violenze, conflitti e guerre. Le molte parole che pronunciamo e le moltissime che ascoltiamo ci lasciano l’amaro in bocca. Ci sembrano vuote, simili a bandiere che si agitano al vento, senza incidere sui destini generali e sulla costruzione concreta della pace.

 

Di ciò soffriamo e non sappiamo con chi prendercela, per essere seri con noi e con gli altri. Per chi crede è motivo di consolazione - e anche di inquietudine - la convinzione che il dono supremo di Gesù è proprio la pace: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace” (Giovanni 14, 27). Persino coloro che non sono teneri nei confronti della Chiesa, riconoscono e apprezzano i suoi interventi sul tema della pace. La Chiesa chiede spesso gesti di pace concreti, semplici e quotidiani: la pietà per le vittime, l’aiuto ai superstiti, la solidarietà con i profughi, la preghiera per tutti.

 

Perché questo grido, condiviso dagli uomini di buona volontà a ogni livello, resta inefficace e le armi continuano a gridare più forte delle opere di pace? Perché l’ingiustizia continua a pesare su tante situazioni umane, negando di fatto la costruzione della pace?

  

La pace nel nostro quotidiano

 

La guerra ha fatto ormai irruzione nella quotidianità e il suo affacciarsi potenzialmente al fianco di ognuno di noi ne mostra in maniera precisa il volto devastante. Se la guerra è entrata nelle nostre case, è ancora più urgente che parta proprio da noi l’opera di pacificazione e di nuova umanizzazione delle relazioni sociali: il tessuto quotidiano ha ormai una forte valenza pubblica, in quanto è luogo di incontri e di progetti.

 

È per questo che una risposta all’urgenza della pace deve cominciare dalla vita di ogni giorno. La prima meta cui tendere è quella di dare ai gesti quotidiani un significato di pace e di fratellanza, stando responsabilmente al proprio posto, facendo con dedizione il proprio dovere. Il nostro lavoro quotidiano, la vita in famiglia, con i vicini e con ogni “prossimo”, l’impegno a creare condizioni di vita e di lavoro giuste per tutti, può assumere una sfumatura nuova di pacificazione e di accoglienza, di intesa e di comprensione.

 

Non è un alibi per nascondere altre e più gravi responsabilità. Ne siamo consapevoli e perciò affermiamo questa convinzione, chiedendo confronto, attenzione e decisione. La pace è frutto anche dell’amore: la giustizia è condizione della pace, anche se da sola essa non basta, perché alla giustizia spetta rimuovere gli impedimenti della pace, come l’offesa e il danno, ma la pace stessa è atto proprio e specifico della carità. Essa si costruisce giorno per giorno con amore nella ricerca dell’ordine voluto da Dio e può fiorire quando tutti riconoscono le proprie responsabilità in ordine alla sua promozione.

 

Quello che è certo è che la violenza non costituisce mai una risposta giusta. La violenza è male, inaccettabile come soluzione ai problemi, indegna dell’uomo. La violenza è menzogna, poiché è contraria alla verità della nostra umanità. Essa distrugge ciò che vorrebbe difendere: la dignità, la vita, la libertà degli esseri umani.

 

Oggi abbiamo più che mai bisogno della testimonianza di profeti disarmati, purtroppo oggetto di scherno in ogni epoca: coloro che, per salvare la dignità dell’uomo, rinunciano all’azione cruenta e ricorrono a mezzi di difesa che sono alla portata dei più deboli, rendono testimonianza alla forza dell’amore e del perdono, senza pregiudizio per i diritti e i doveri degli altri uomini e delle società. Essi attestano con la vita la gravità dei rischi fisici e morali del ricorso alla violenza, che causa rovine e morti. Essi possono essere i veri costruttori di pace, gli operatori di giustizia di cui il mondo ha tanto bisogno.

 

Il rispetto del creato

 

Una forma concreta di costruzione della pace è anche il rispetto del creato. Tante volte ci è capitato di fermarci a contemplare la bellezza dei nostri monti, di un tramonto sul mare, dei campi e dei fiori. Sono momenti che un “cantore” del creato come san Francesco d’Assisi ha saputo tradurre nelle parole dello stupendo Cantico delle creature:

 

Laudato si’, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,

spetialmente messer lo frate sole,

lo quale è iorno; et allumini noi per lui.

Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:

de te, Altissimo, porta significatione.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora acqua,

la quale è molto utile et humile ed pretiosa et casta.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,

la quale ne sustenta et governa

et produci diversi fructi con coloriti fiori et herba.

 

Le cose, però, non vanno sempre così. L’esperienza di alcuni momenti belli vissuti davanti agli spettacoli della natura è offuscata dalla consapevolezza della minaccia a cui è esposto l’ambiente. L’inquinamento sta crescendo e minaccia sconvolgimenti. Molte scoperte tecniche e scientifiche hanno arrecato benefici all’umanità, ma si sono rivelate assai pericolose nella loro applicazione.

 

La questione ecologica è di enorme importanza per il mondo e per l’uomo. Se l’umanità non cambia rotta, rischia di auto-distruggersi. Che cosa fare allora? Ci sono dei criteri in base ai quali difendere l’ambiente?

 

Come tutti, anche i discepoli di Gesù si trovano spesso spiazzati di fronte a queste domande. I problemi nuovi possono trovare orizzonte di soluzione nei grandi principi di sempre, ma le risposte concrete devono essere maturate insieme, consapevoli che anche questo è un grave problema di giustizia: per noi, per gli uomini di questo tempo e per consegnare una casa abitabile a chi verrà dopo di noi.

 

In compagnia solidale e responsabile con tutta l’umanità, e soprattutto con quanti soffrono per gli abusi perpetrati sul creato, riconosciamo l’urgenza di ripensare il modello di sviluppo, personale e collettivo, ispirandolo a uno stile di vita sobrio e giusto, che ci consenta di governare la natura senza tiranneggiarla, unendo all’operosità la contemplazione, sull’esempio di uomini come san Benedetto e san Francesco.

 

Il rispetto per la vita e, in primo luogo, per la dignità della persona umana dovrà essere la norma ispiratrice di ogni progresso economico, industriale e scientifico, che voglia essere autenticamente tale per tutti e per la grande casa del mondo. La sfida della giustizia e della pace, nelle relazioni fra i singoli e i popoli e in quelle con l’intero creato, riguarda tutti e ci interpella sulle radici etiche e gli orizzonti ultimi del nostro impegno storico. In questo senso, ci sembra che lo sguardo della fede – aperto a misurarsi sul giudizio di Dio, Signore del creato, e sul suo progetto di bene per ogni sua creatura – possa costituire uno stimolo e un aiuto per tutti.

 

5. LA SFIDA DI DIO

  

La nostra esistenza è attraversata da domande inquietanti, personali e collettive. Ci siamo soffermati su alcune di esse: alla radice di questi interrogativi, quelli che aprono verso la luce e quelli che ci lasciano al buio, possiamo immaginare la presenza di un punto unificante, una specie di orizzonte, capace di fare unità nel groviglio di ogni avventura umana?

 

Ci sembra che alla radice di ogni esistenza ci sia una domanda di senso e di speranza, particolarmente drammatica oggi, perché si sono infranti quei processi attraverso cui il contesto culturale e sociale suggeriva piuttosto facilmente il significato dell’esistenza. Siamo diventati più maturi e insieme più soli. Resta il bisogno di organizzare i frammenti, come le tessere di un mosaico.

 

Molti sembrano rassegnati e vivono alla giornata come se la questione del senso della vita e di un orizzonte unificante fosse ormai irrilevante. Altri riscoprono la domanda in situazioni estreme e poi la lasciano cadere senza troppe preoccupazioni. I discepoli di Gesù, che credono alla vita e la amano, si sentono interpellati a questo livello proprio sulla loro identità. Evadere la ricerca di senso o rassegnarsi a una mancanza di speranza vuol dire impoverire la qualità della vita per sé e per gli altri.

 

 

Oltre la domanda di senso e di speranza

 

Nel profondo della domanda di senso e di speranza, qualcosa ci orienta verso il mistero: Dio, chi sei? Dove sei? Come possiamo vedere il tuo volto? Il problema non è se Dio esista o non esista. Non ci serve constatare la presenza o l’assenza di qualcuno che sta lontano, a contemplare le cose fuori dalla mischia, impassibile.

 

Ci chiediamo chi è Dio quando veniamo a sapere di eventi terribili, che non dipendono da una cattiva volontà. Ci diciamo allora: chi sei? Dov’è finito il tuo amore, se tanti innocenti piangono e non sanno nemmeno contro chi imprecare? Ce lo chiediamo quando decidiamo di prendere tra le mani la nostra esistenza, trascinati come siamo tra sogno e realtà. Chi sono io, che mi scopro sempre più indecifrabile? C’è un nesso tra l’uomo che sono e Dio?

 

La domanda risuona inquietante quando ci interroghiamo sul futuro della nostra vita e della nostra storia, quando guardiamo sgomenti gli uomini spariti nel nulla, sotto il piede ingiusto di altri uomini. Abbiamo scoperto quanto la domanda su Dio abbia il sapore dell’attesa. Ci interroghiamo sul mistero ultimo, perché ci sembra onestamente di non poter bastare a noi stessi e guardiamo al futuro con trepidazione.

 

Una constatazione però è consolante e va evidenziata a sostegno della speranza: anche moltissimi di coloro che non sono ancora riusciti a maturare una risposta alla domanda sul senso della vita accolgono la propria vita e la amano. Hanno fiducia nella vita e si affidano alle sue trame misteriose, perché ritengono che la vita sia bella. In realtà, quelli che si rassegnano al dubbio o alla rinuncia totale sono forse meno di quanto si possa pensare. Per lo più continuiamo a cercare sapendo, magari inconsapevolmente, di essere già afferrati: la risposta che cerchiamo è nella vita che viviamo. Vivere con consapevolezza e responsabilità richiede già un grande atto di fede. Aumentare questa fede, spingerla oltre se stessa vuol dire aprirsi a Colui che ci chiama dal profondo di ciò che siamo e che ha fatto risuonare la sua voce nel tempo per ognuno di noi.

 

 

La possibilità della fede

 

“Aumenta la nostra fede!” A questa richiesta degli Apostoli - voce di tutti coloro che sono alla ricerca di Dio con umiltà e desiderio - Gesù risponde così: “Se avrete fede pari a un granellino di senapa, direte a questo monte: ‘spostati da qui a là’, ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile” (Matteo 17,20). Credere non è anzitutto assentire a una dimostrazione chiara o a un progetto privo di incognite: non si crede a qualcosa che si possa possedere e gestire a propria sicurezza e piacimento. Credere è fidarsi di qualcuno, assentire alla chiamata dello straniero che invita, rimettere la propria vita nelle mani di un altro, perché sia lui a esserne l’unico, vero Signore.

 

Crede chi si lascia far prigioniero dell’invisibile Dio, chi accetta di essere posseduto da lui nell’ascolto obbediente e nella docilità del più profondo di sé. Fede è resa, consegna, abbandono, accoglienza di Dio, che per primo ci cerca e si dona; non possesso, garanzia o sicurezza umane. Credere, allora, non è evitare lo scandalo, fuggire il rischio, avanzare nella serena luminosità del giorno: si crede non nonostante lo scandalo e il rischio, ma proprio sfidati da essi e in essi. “Credere significa stare sull’orlo dell’abisso oscuro, e udire una voce che grida: gèttati, ti prenderò fra le mie braccia!” (Søren Kierkegaard).

 

Eppure, credere non è un atto irragionevole. È anzi proprio sull’orlo di quell’abisso che le domande inquietanti impegnano il ragionamento: se invece di braccia accoglienti ci fossero soltanto rocce laceranti? E se oltre il buio ci fosse ancora nient’altro che il buio? Credere è sopportare il peso di queste domande: non pretendere segni, ma offrire segni d’amore all’invisibile amante che chiama.

 

 Lottare con Dio

           

In questa lotta con l’invisibile il credente vive la sua più alta prossimità all’inquieto cercatore di Dio: si potrebbe perfino dire che il credente è un ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere. In realtà, chi crede ha bisogno di rinnovare ogni giorno il suo incontro con Dio, nutrendosi alle sorgenti della preghiera, nell’ascolto della Parola rivelata. Analogamente, si può pensare che il non credente pensoso nient’altro sia che un credente che ogni giorno vive la lotta inversa, la lotta di cominciare a non credere: non l’ateo superficiale, ma chi, avendo cercato e non avendo trovato, patisce il dolore dell’assenza di Dio, e si pone come l’altra parte del cuore di chi crede.

 

Da queste considerazioni nasce il no alla negligenza della fede, il no a una fede indolente, statica e abitudinaria, come il no a ogni rifiuto ideologico di Dio, a ogni intolleranza comoda, che si difende evadendo le domande più vere, perché non sa vivere la sofferenza dell’amore. E nasce parimenti il sì a una fede interrogante, a una ricerca onesta, capace di rischiare e di consegnarsi all’altro, quando ci si senta pronti a vivere l’esodo senza ritorno verso l’abisso del mistero di Dio, su cui la sua Parola è porta.

 

Se c’è una differenza da marcare, allora, non sarà forse tanto quella tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti, tra uomini e donne che hanno il coraggio di cercare incessantemente Dio e uomini e donne che hanno rinunciato alla lotta, che sembrano essersi accontentati dell’orizzonte penultimo e non sanno più accendersi di desiderio al pensiero dell’ultima patria. Qualunque atto, anche il più costoso, sarebbe degno di essere vissuto per riaccendere in noi il desiderio della patria vera e il coraggio di tendere a essa, sino alla fine, oltre la fine, sulle vie del Dio vivo.

 

Credere sarà allora abbracciare la Croce della sequela, non quella comoda e gratificante che avremmo voluto, ma quella umile e oscura che ci viene donata, per dare compimento “a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Colossesi 1,24). Crede chi confessa l’amore di Dio nonostante l’inevidenza dell’amore, chi spera contro ogni speranza, chi accetta di crocefiggere le proprie attese sulla croce di Cristo, e non Cristo sulla croce delle proprie attese. Crede chi è stato già raggiunto dal tocco di Dio e si è aperto alla sua offerta d’amore, anche se non ha ancora la luce piena su tutto.

  

La fede come ricerca e come pace

           

Alla fede ci si avvicina con timore e tremore, togliendosi i calzari, disposti a riconoscere un Dio che non parla nel vento, nel fuoco o nel terremoto, ma nell’umile voce di silenzio, come fu per Elia sulla santa montagna (cf. 1 Re 19) ed è stato, è e sarà per tutti i santi e i profeti. Credere, allora, vuol dire perdere tutto? Non avere più sicurezza, né discendenza, né patria? Rinunciare a ogni segno e ad ogni sogno di miracolo? A tal punto è geloso il Dio dei credenti? Così divorante è il suo fuoco? Così buia la sua notte? Così assoluto il suo silenzio?

 

Rispondere di sì a queste domande sarebbe cadere nella seduzione opposta a quella di chi cerca segni a ogni costo; sarebbe un dimenticare la tenerezza e la misericordia di Dio. C’è sempre una luce per rischiarare il cammino: un grande segno ci è stato dato, il Cristo, che vive nei mezzi della grazia e dell’amore confidati alla famiglia dei suoi discepoli, la Chiesa. In essa è offerto un cibo ai pellegrini, un conforto agli incerti, una strada agli smarriti. Se questi doni non vanno mai confusi con possessi gelosi, è pur vero che essi sono là per nutrirci; non per esimerci dalla lotta, ma per darci forza; non per addormentare le coscienze, ma per svegliarle e stimolarle a opere e giorni d’amore, in cui l’amore invisibile si faccia presente.

 

Testimoniare la fede non sarà, allora, dare risposte già pronte, ma contagiare l’inquietudine della ricerca e la pace dell’incontro: “Ci hai fatto per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposi in te” (Sant’Agostino, Le Confessioni, 1,1). Accettare l’invito non è risolvere tutte le oscure domande, ma portarle a un Altro e insieme con lui. A lui è possibile rivolgere con fiducia le parole della bellissima invocazione di sant’Agostino:

 

Signore mio Dio, unica mia speranza,

fa’ che stanco non smetta di cercarTi,

ma cerchi il Tuo volto sempre con ardore.

Dammi la forza di cercare,

Tu che ti sei fatto incontrare,

e mi hai dato la speranza di sempre più incontrarTi.

Davanti a Te sta la mia forza e la mia debolezza:

conserva quella, guarisci questa.

Davanti a Te sta la mia scienza e la mia ignoranza;

dove mi hai aperto, accoglimi al mio entrare;

dove mi hai chiuso, aprimi quando busso.

Fa’ che mi ricordi di Te,

che intenda Te, che ami Te. Amen!

                                                                       (De Trinitate, 15, 28, 51).

 

II

 

LA SPERANZA CHE È IN NOI

 

Nella prima parte di questa lettera abbiamo tentato di comprendere le attese e le speranze delle donne e degli uomini, nostri compagni di strada, riconoscendo come “filo rosso” la domanda sul senso della vita e della storia. Abbiamo cercato di interpretare quello che spesso ci capita di vivere spontaneamente o con eccessiva fretta. Abbiamo scoperto che tutti siamo in attesa di qualcuno che ci accolga e dia ragione alla nostra speranza.

 

Chi ha fatto l’esperienza della fede, riconosce che questo qualcuno capace di comprendere, accogliere e sostenere c’è. Ha un nome e un volto: è il Dio che in Gesù Cristo si fa vicino a ogni essere umano. Il rapporto con Dio dà senso alla nostra vita nel mondo. Come avviene per ogni esperienza veramente bella e positiva, sentiamo il bisogno di comunicarla agli altri in nome della fratellanza umana, perché la possibilità di incontrare Dio per mezzo di Gesù Cristo sia una speranza per tutti.

 

Gesù invita quanti lo hanno riconosciuto come Cristo e Signore ad ascoltare con attenzione e rispetto le domande che salgono dal cuore degli uomini e delle donne: “Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?” (Luca 11,11-12). Se non abbiamo ascoltato o ben interpretato le attese di quanti sono alla ricerca di Dio, forse ciò è avvenuto per la nostra eccessiva sicurezza o per la fretta di comunicare quanto ci sta a cuore.

 

A tanti uomini e donne che sono alla ricerca di una speranza per il loro cammino vorremmo raccontare ora l’esperienza che abbiamo fatto e facciamo di Gesù, l’unico “nome” che a noi dà speranza e vita. Le parole che proponiamo sono il frutto – oltre che del nostro incontro con lui – della storia di tante persone che hanno incontrato Dio in Gesù Cristo prima di noi. Sono persone note e ignote, che costituiscono la lunga catena dei testimoni di Gesù. Per tutti i suoi testimoni Gesù è una persona che ha vissuto, nella carne della sua umanità, le incertezze e le inquietudini che scopriamo in noi, prendendosi cura con coraggio della gente che ha incontrato.

 

Non abbiamo la pretesa di comunicare tutto quello che si può dire della fede cristiana. Per intraprendere un possibile percorso di fede la comunità ecclesiale possiede testi autorevoli, ben elaborati e sperimentati. Sarebbe inutile ripetere qui quello che si può trovare in essi. Desideriamo invece suscitare interesse, o almeno curiosità, in ogni persona che è alla ricerca di Dio, perché possa ripensare la figura e il messaggio di Gesù e approfondirli nell’ascolto delle testimonianze che ne parlano.

 

6. GESÙ 

 

La fede cristiana non è una delle tante visioni del mondo o interpretazioni della storia, personale e collettiva. Per un cristiano la fede è incontro con Gesù di Nazaret, condannato alla morte di croce dagli uomini, ma che Dio ha risuscitato dai morti, ribaltando la sentenza di condanna.

 

L’incontro con Gesù, che i primi discepoli riconoscono e proclamano Messia e Signore, fa nascere e alimenta la fede in lui. La testimonianza di tutti gli altri credenti in Gesù ci sostiene nella fatica di accettare il rischio di una decisione che attraversa l’esistenza. Nella persona e nella vicenda di Gesù Cristo il Dio lontano e invisibile si fa vicino a ogni essere umano, in un insperato e gratuito gesto d’amore. Contemplando il volto di Gesù e ascoltando le sue parole scopriamo chi siamo, intravediamo qual è la fonte ultima della nostra esistenza e verso quale meta tende il nostro cammino quotidiano.

 

Con forza, ma anche con trepidazione, ricordiamo il nostro convincimento: le dottrine si spiegano, le persone si incontrano; le teorie si discutono, le persone si riconoscono e si scelgono. Anche noi ci poniamo la domanda: possiamo incontrare oggi Gesù di Nazaret, come è avvenuto duemila anni fa per le donne e gli uomini nei villaggi della Galilea o a Gerusalemme? Possiamo pensare seriamente che nella sua esistenza terrena Gesù abbia percorso i sentieri della nostra vita quotidiana? È possibile stabilire un rapporto vitale con Gesù, che è vissuto in una cultura e in una trama di relazioni tanto diverse dalle nostre?

  

L’incontro con Gesù

 

Nello spazio e nel tempo, Gesù di Nazaret è lontano da noi. Eppure noi cristiani siamo convinti di poterlo riconoscere nostro contemporaneo, nel nostro vissuto e nelle nostre inquietudini, tanto da giustificare l’invito di affidarci a lui, sapendo che merita questa fiducia. Lo possiamo incontrare attraverso i suoi testimoni. La distanza tra Gesù e noi è colmata anzitutto dal racconto di quanti lo hanno incontrato prima di noi. È un racconto che ci raggiunge attraverso il tempo. Nel corso di venti secoli la memoria di quello che Gesù ha fatto e detto ci è stata consegnata attraverso la catena ininterrotta dei credenti, che risale fino ai testimoni oculari.

 

Il racconto dei primi testimoni di Gesù sta all’origine dei quattro Vangeli e degli altri testi del Nuovo Testamento. Si tratta della storia appassionata dei primi passi di quanti hanno riconosciuto in Gesù il Signore della loro esistenza. Attraverso la testimonianza di tanti che hanno pagato con il sangue la decisione di seguire Cristo, possiamo conoscere la sua vita e il suo messaggio. Possiamo interrogarli e ascoltarli, per verificare la loro esperienza e orientare la nostra esistenza.

 

Chi è Gesù? Su che cosa si fonda la sua pretesa di mettere in relazione ogni essere umano con Dio e di garantire la vita piena e definitiva persino contro il dolore, l’ingiustizia e la morte? I documenti più ampi e attendibili che parlano di lui, della sua opera e del suo messaggio, sono gli scritti della prima e seconda generazione cristiana.

 

Ai quattro Vangeli e agli Atti degli Apostoli, che hanno carattere narrativo, si aggiunge la testimonianza di san Paolo e di altri apostoli e dei loro discepoli, che utilizzano il genere epistolare per tenere viva la comunicazione tra le comunità cristiane. In questi documenti le parole si intrecciano con i fatti, nella trama della vita delle persone e delle comunità.

  

La novità di Gesù

 

La raccolta di scritti che formano il Nuovo Testamento porta all’inizio i quattro Vangeli, in cui si narra la vicenda di Gesù, che giunge al suo culmine negli eventi della condanna a morte e nella risurrezione. L’attività e l’insegnamento di Gesù sarebbero stati confinati nel ricordo di una piccola cerchia di parenti e amici, se un evento non avesse spezzato la trama normale di una biografia umana, fatta di vita, morte e sepoltura. E’ proprio secondo questa trama che si racconta, ad esempio, la storia di Giovanni soprannominato il Battista, messo a morte da Erode Antipa, uno dei figli di Erode il Grande (37-4 a.C.). La novità di Gesù, prima di essere un messaggio o una serie di azioni che suscitano curiosità e stupore, è il superamento della morte. Questo evento negli scritti cristiani è chiamato con vari termini: risurrezione, glorificazione, esaltazione.

 

Ovviamente non si spiegherebbe la condanna di Gesù da parte della suprema autorità religiosa e politica - il sommo sacerdote Caifa e il governatore romano Ponzio Pilato - senza la sua attività e il suo insegnamento dirompenti. Essi suscitano prima il sospetto, poi le accuse a suo carico, fino alla pena capitale. È pertanto legittimo chiedersi in che cosa consista la novità dell’azione di Gesù, l’originalità del suo insegnamento, fino al punto da provocarne la condanna alla morte di croce.

 

Gesù inizia la sua attività pubblica in Galilea, dopo aver lasciato il villaggio di Nazaret, dove ha trascorso gran parte della sua vita. Dai suoi compaesani è conosciuto come l’artigiano e il “figlio di Maria”. Quando, dopo la prima attività pubblica, rientra nel suo paese, la gente resta meravigliata della saggezza delle sue parole e dei gesti straordinari che si raccontano di lui. Essi infatti, conoscendone la famiglia e la formazione, non riescono a spiegarsi il suo successo come maestro e guaritore itinerante.

 

Gesù non ha frequentato corsi regolari presso qualche maestro di Sefforis o di Tiberiade, le due cittadine più importanti della Galilea. Quando parla in pubblico negli incontri della sinagoga non fa riferimento a nessun maestro autorevole o conosciuto, come gli altri predicatori. D’altra parte, neppure commenta i testi della Bibbia, come avveniva nelle scuole giudaiche. Gesù va a incontrare Giovanni il Battista, che molti consideravano un profeta riformatore, in quanto proponeva come segno di cambiamento in attesa del Messia l’immersione nel fiume Giordano. Nei villaggi della Galilea che percorre in lungo e in largo, proclama che il “regno di Dio” è arrivato e invita tutti ad accoglierlo cambiando modo di pensare e di vivere.

 

A conferma di questo annuncio, che segna una svolta nella storia dell’attesa biblica, Gesù accoglie la gente semplice dei villaggi, guarisce le persone malate e accetta di mangiare anche con quanti sono inadempienti o trasgressori delle norme tradizionali. Sullo sfondo del suo annuncio del regno di Dio, che irrompe nella storia umana con i suoi gesti e le sue prese di posizione, Gesù rilegge la tradizione biblica dell’alleanza concentrando il contenuto delle “dieci parole” - il “Decalogo” - nell’amore che abbraccia Dio e il prossimo. Dio, creatore del mondo e Signore della storia, per Gesù ha il volto di un Padre che si prende cura dei piccoli e benefica tutti i suoi figli, buoni e cattivi. Gesù dilata la categoria del prossimo fino ad abbracciare il nemico personale e sociale.

 

Per giustificare le sue scelte e il suo stile di vita, Gesù fa riferimento all’agire libero e gratuito del Padre. Egli parla di Dio e del suo modo di agire per mezzo delle “parabole”, brevi racconti che utilizzano in modo originale le immagini bibliche e le metafore popolari della semina e della mietitura, del vino e dei banchetti, del pastore e del gregge. La gente dei villaggi della Galilea accoglie con lieta sorpresa il modo di fare e l’insegnamento di Gesù.

  

La condanna a morte di Gesù

 

I capi, responsabili delle comunità che gravitano attorno alle sinagoghe, vedono con sospetto l’attività terapeutica di Gesù e il suo comportamento poco rispettoso del sabato e delle norme di purità rituale. Essi sono preoccupati del favore della gente. Gli abitanti dei villaggi della Galilea orientale, impressionati dai gesti di guarigione compiuti da Gesù, lo ascoltano volentieri anche quando mette sotto accusa il formalismo religioso degli osservanti. Tra i magistrati, che hanno i loro rappresentanti nel consiglio supremo di Gerusalemme - il Sinedrio - matura la convinzione che l’attività di Gesù sia pericolosa perché tocca l’identità religiosa del popolo di Israele e mette a rischio il difficile equilibrio con il sistema di potere controllato da Roma.

 

Da qui la decisione di approfittare di un viaggio di Gesù a Gerusalemme in occasione della festa di Pasqua per farlo arrestare e consegnarlo al rappresentante dell’Impero, affinché gli sia comminata una condanna esemplare che scoraggi i suoi sostenitori e i simpatizzanti. Gesù si rende conto del complotto che lo minaccia e che trova qualche connivenza anche tra i suoi discepoli. In occasione del pellegrinaggio di Pasqua a Gerusalemme, nel contesto della cena con il gruppo dei discepoli, egli dà un nuovo significato alle parole e ai gesti della mensa. Il gesto di spezzare e condividere il pane durante il pasto è il dono supremo della sua persona che va incontro alla morte. Allo stesso modo la coppa di vino, che si beve dopo il pasto, è il suo sangue versato per fondare la comunità dell’alleanza definitiva con Dio attesa dai profeti.

 

Alla fine Gesù, davanti ai suoi discepoli, prende l’impegno di non bere più il vino, segno di gioia e libertà, fino a quando non potrà bere il vino nuovo nel regno di Dio. Con queste parole di speranza, che chiudono la sua ultima cena nel clima della Pasqua ebraica di liberazione, Gesù si ricollega all’annuncio fatto nei villaggi della Galilea. Con la sua morte egli vuole dare la garanzia della fedeltà di Dio che realizza la sua sovranità a favore di tutti gli esseri umani. La novità e l’originalità dei gesti e delle parole di Gesù alla fine convergono nel dono che egli fa della sua vita per essere fedele a Dio come “il Figlio”, restando solidale con tutti i suoi fratelli.

 

Ancora oggi il suo messaggio e il suo comportamento correggono le nostre immagini distorte di Dio, sovvertono le nostre manie superstiziose, riempiono i nostri legami di accoglienza e di amore.

 

7. IL CRISTO

  

Secondo la testimonianza dei Vangeli e di san Paolo nella prima lettera ai Corinzi (5,7), la condanna di Gesù alla morte di croce è avvenuta in prossimità della festa ebraica della Pasqua, in una primavera degli anni trenta dell’era cristiana. A partire dalla morte di Gesù i suoi discepoli danno un nuovo significato alla celebrazione pasquale: non più la festa in cui si rivive la liberazione dei figli di Israele dall’Egitto, ma è la celebrazione della sua vittoria sulla morte. Essi proclamano apertamente che Gesù di Nazaret, condannato alla morte di croce dal prefetto romano Ponzio Pilato, è stato risuscitato da Dio. Grazie a questo intervento potente dall’alto, essi riconoscono apertamente che Gesù è il Cristo, colui che Dio ha “consacrato” e scelto per liberare il suo popolo, il Signore di tutti gli esseri umani.

 

Sul piano storico la missione di Gesù è un fallimento, perché egli è messo a morte dal rappresentante dell’imperatore di Roma, che occupa militarmente la terra di Israele. Il motivo della condanna di Gesù, scritta nel titulus della croce, dice: “Gesù Nazareno re dei Giudei”. Le autorità ebraiche avvertono questa iscrizione, voluta da Pilato, come un insulto alla propria identità di popolo libero consacrato a Dio, unico loro re. I fondatori del movimento di resistenza antiromana, che sfocerà nella guerra del 66-70, si rifiutavano di pagare le tasse agli occupanti romani, appunto perché sostenevano di non avere altro re se non Dio solo. Per i discepoli la crocifissione di Gesù è una prova terribile, uno scandalo di fronte a cui la reazione naturale è la fuga.

 

L’incontro col Risorto

 

I discepoli superano lo scandalo della morte di Gesù in croce, riservata ai ribelli e ai criminali, facendo appello all’iniziativa di Dio che lo ha risuscitato dai morti. La fede nella risurrezione non è estranea al modo di pensare degli ebrei suoi contemporanei. A contatto con la cultura persiana, a partire dal tempo dell’esilio nel quinto secolo a.C., essi avevano elaborato l’idea della risurrezione dei giusti, soprattutto dei martiri uccisi a causa della loro fedeltà alla legge di Dio, collocandola nell’orizzonte della loro fede tradizionale: Dio, che ha creato il mondo con la forza della sua parola, farà risorgere dalla polvere della terra quelli che sono morti, reintegrandoli nella loro condizione di viventi.

 

Nel caso di Gesù, però, i suoi discepoli non dicono che Dio lo risusciterà alla fine del mondo, come farà con i martiri e i giusti. Essi affermano che Dio lo ha già risuscitato, perché egli si è fatto vedere e li ha incontrati come il Signore che appartiene al mondo di Dio. Perciò concludono che Gesù non è solo il Messia promesso da Dio per liberare Israele, ma è il Messia che da sempre è in relazione con Dio. Gesù non è un altro Dio, concorrente con quello della tradizione biblica, ma è il Figlio di Dio in piena comunione di amore con il Padre.

 

Come è avvenuto che i fuggiaschi del Venerdì Santo sono diventati i coraggiosi testimoni del Risorto, pronti a dare la vita per lui? Che cosa è successo fra l’ora dell’abbandono di Gesù sulla croce e l’inizio sorprendente dello slancio missionario della Chiesa nascente? Secondo quanto riferiscono i racconti delle apparizioni del Risorto, Gesù si è presentato ad alcune donne e uomini, mostrandosi “a essi vivo, dopo la sua passione” (Atti degli Apostoli 1,3). Questi incontri sono avvenuti in luoghi e in tempi non facilmente armonizzabili tra loro. Una medesima sequenza, tuttavia, emerge in tutti i racconti, consentendoci di riconoscere i caratteri propri dell’incontro con il Signore risorto.

 

L’iniziativa è sempre del Risorto: è lui che appare. Al principio della fede cristiana non c’è l’emotività di un’ora estrema, ma l’azione di Dio che si offre all’uomo. La fede nasce dall’annuncio; essa ci è donata dal di fuori, attraverso l’ascolto della Parola che salva, in cui ci raggiunge il Verbo della vita. L’incontro col Risorto non è qualcosa che diviene nell’intimo dei discepoli, ma qualcosa che avviene a loro.

 

In tutti i racconti delle apparizioni è poi presente un processo di riconoscimento da parte dei discepoli, che li porta dal dubbio iniziale alla confessione gioiosa: “È il Signore!”. L’incontro con il Cristo che cambia la vita si compie attraverso una maturazione che rispetta la libertà dell’assenso e comprende il rischio del combattimento e la resa della fede.

 

Infine, dall’incontro col Signore vivente nasce la missione: le persone cui il Risorto si mostra non sono più le stesse dopo l’incontro con lui. La loro vita è cambiata: sono ormai i testimoni, coraggiosi e fedeli, del Cristo Gesù, gli innamorati apostoli della buona notizia. L’incontro è un’esperienza trasformante, che inaugura una vita nuova, piena di coinvolgimento e di passione.

 

Questa esperienza dei primi discepoli, che sfocia nel riconoscimento e nella proclamazione coraggiosa che Gesù è il Cristo, il Signore, suscita tensioni e alla fine provoca la rottura con la tradizione e la comunità ebraica. Paolo di Tarso, un ebreo persecutore dei cristiani nell’area siro-palestinese degli anni trenta, grazie all’iniziativa di Dio scopre che Gesù crocifisso è il suo Figlio. Attraverso questa esperienza di incontro con Gesù Cristo risorto Paolo si sente chiamato a portare il Vangelo a tutti, senza distinzione fra ebrei e greci, invitando ognuno a una scelta decisiva. È una scelta che ci riguarda tutti, anche oggi, perché la qualità della nostra vita si costruisce scegliendo tra una modalità egoistica di condurre l’esistenza e il dono totale di sé nell’amore verso Dio e verso gli altri, che spinge a tessere rapporti di solidarietà con i più deboli nell’orizzonte del Regno di Dio.

  

La risurrezione illumina le origini di Gesù

 

Nella sua attività pubblica Gesù è conosciuto come originario e abitante di Nazaret, dove vive la sua famiglia. Nazaret è un villaggio della Galilea collinare, nel settentrione della terra d’Israele. Qui Gesù passa quasi trent’anni, continuando il lavoro di artigiano di Giuseppe, che a Nazaret tutti conoscono come suo padre. Quando rientra nel suo paese, dopo la prima attività nella cittadina di Cafarnao sulla riva del lago di Galilea, la gente lo riconosce come “il figlio di Maria”. In effetti, Giuseppe compare solo nel racconto della nascita e nell’unico episodio di Gesù adolescente che, a dodici anni, sale a Gerusalemme per la festa di Pasqua.

 

Il racconto delle origini di Gesù è riportato nei Vangeli di Matteo e di Luca, che riferiscono della sua nascita a Betlemme da Maria, sposa di Giuseppe. Gesù nasce al tempo del re Erode, cioè prima del 4 a.C., anno della sua morte. Attraverso la narrazione della nascita di Gesù, gli evangelisti Matteo e Luca esprimono la fede della comunità cristiana che lo riconosce come il Messia, discendente di Davide, e il Figlio di Dio concepito “per opera dello Spirito Santo”. In questa prospettiva di fede, Giuseppe è il giusto che si preoccupa di compiere la volontà di Dio, assicurando a Gesù la discendenza davidica, e Maria è la credente, che si affida totalmente alla Parola del Signore.

  

La comunità dei discepoli

 

Fin dall’inizio della sua attività pubblica nella zona del lago di Galilea Gesù chiama alcune persone a condividere il suo progetto e il suo stile di vita. A questo nucleo originario di discepoli si aggiungono altri, uomini e donne, che lo seguono nei suoi spostamenti da un villaggio all’altro e lo accompagnano nei viaggi a Gerusalemme in occasione delle grandi feste. Tra i discepoli Gesù sceglie un gruppo di “dodici”, che rappresentano i figli di Giacobbe, capostipiti delle dodici tribù di Israele. I “dodici” discepoli sono chiamati “apostoli”, cioè “inviati”, perché condividono e prolungano la missione di Gesù. Nella tradizione dei Vangeli i dodici discepoli sono il prototipo della comunità cristiana, che sarà chiamata “chiesa” dopo la Pasqua di Risurrezione.

 

Ai discepoli Gesù dà uno statuto e traccia per essi un programma di vita. Nello stile dei profeti, egli proclama “beati”, fortunati e felici, i poveri e i derelitti, perché Dio, re giusto e fedele, interviene a loro favore. Egli invita i discepoli a condividere il suo destino, anche a costo di perdere la vita e i beni, per partecipare alla vita piena e definitiva promessa da Dio a quanti compiono la sua volontà.

 

In contrasto con il modo di pensare del suo ambiente, Gesù propone una nuova maniera di vivere la relazione di coppia. L’unione dell’uomo e della donna per formare un solo essere vivente corrisponde al progetto originario di Dio creatore. Anche i ruoli all’interno della comunità dei discepoli sono rovesciati rispetto al modo di pensare comune. Chi è più grande e il primo, diventa il servo di tutti e l’ultimo. Gesù nella comunità dei suoi discepoli si presenta come colui che serve fino al dono della sua vita.

 

Nelle “beatitudini” che aprono il discorso sul monte, Gesù inaugura il cammino dei discepoli e traccia il loro programma di vita:

“Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise allora a parlare e insegnava loro dicendo:

Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.

Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.

Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi” (Matteo 5,1-12).

 

Quale speranza suscita in noi oggi questo annuncio, illuminato dalla vita, dalla morte e dalla risurrezione di Gesù?


8. DIO PADRE, FIGLIO E SPIRITO

 

Nella tradizione evangelica è riportato il modo di pregare di Gesù, che si rivolge a Dio chiamandolo con l’appellativo familiare aramaico Abbà, cioè Padre. Sullo stile dei Salmi, egli loda e benedice il Padre, creatore del mondo e Signore della storia, perché sceglie come destinatari della sua rivelazione i “piccoli”, quelli che non possono rivendicare diritti e privilegi. A questi Gesù si presenta come il “Figlio”, l’unico che rende possibile l’incontro e la piena comunione con il Padre. Di fronte alla prospettiva della morte imminente Gesù trova la radice della sua libertà di Figlio nell’abbandono fiducioso al Padre.

 

Secondo la tradizione raccolta nel Vangelo di Luca la preghiera di Gesù, che benedice il Padre per la scelta dei piccoli, avviene sotto l’impulso dello Spirito Santo. In occasione del suo battesimo nel fiume Giordano, lo Spirito di Dio scende su Gesù e lo accompagna nella sua missione, che sarà caratterizzata dal “battesimo” nello Spirito Santo. Giovanni il Battista proclama: “Colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: ‘Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo’. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio” (Giovanni 1,33-34).

 

La tradizione del quarto Vangelo mostra Gesù che, alla sera di Pasqua, si presenta ai discepoli come il Signore risorto, incaricandoli di continuare la missione che egli ha ricevuto dal Padre. Con un gesto, che evoca la creazione dell’essere umano reso vivente dal soffio di Dio, Gesù comunica ai discepoli lo Spirito Santo per la remissione dei peccati. Così, il Risorto dà compimento alla promessa fatta ai discepoli prima della sua morte di inviare un altro Paraclito - “Consolatore” e “Difensore” -, lo Spirito Santo, Spirito di verità, per portare a compimento la sua rivelazione e testimonianza nel mondo. Secondo la tradizione dei primi tre Vangeli, ai discepoli che condividono il suo progetto e lo seguono nella persecuzione, Gesù promette il dono dello Spirito Santo che darà loro forza e sapienza per rendergli testimonianza davanti ai magistrati e alle autorità.

 

Dalle parole di Gesù, conservate e trasmesse nei Vangeli, si intuisce che egli vive un rapporto profondo e unico con Dio, il Padre, al punto che può presentarsi come “il Figlio”. Quando parla dello Spirito Santo, Gesù riconosce che viene da Dio, il Padre, come lui stesso è stato mandato dal Padre. Su questa esperienza di Gesù si innesta la fede in Dio Padre, Figlio e Spirito dei primi discepoli e delle comunità cristiane, fondate da san Paolo e dagli altri apostoli nelle città dell’impero romano.

  

“Io e il Padre siamo una cosa sola”

 

L’approfondimento della fede in Dio Padre, Figlio e Spirito, avviene nelle prime comunità cristiane che si confrontano con la radice ebraica, in cui si riconosce che Dio è “un solo Signore”. Nella tradizione del Vangelo di Giovanni si proclama apertamente che solo per mezzo di Gesù Cristo, il Figlio, si conosce l’unico Dio vivo e vero. Dio, che nessuno ha mai visto e udito, si fa vedere e ascoltare per mezzo di Gesù Cristo, il solo che lo ha visto e udito. Gesù non è un altro Dio, ma il Figlio che dice le parole udite dal Padre e compie le opere che il Padre gli ha mostrato e comandato di fare. Nel dialogo con i discepoli prima della sua morte, Gesù trascrive il suo rapporto con Dio in questa dichiarazione: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Giovanni 14,9).

 

Nella tradizione giovannea, attestata nella prima Lettera che porta il nome di Giovanni, si esplicita la rivelazione di Dio Padre in Gesù Cristo, il Figlio unico di Dio. Solo chi si lascia coinvolgere nel dinamismo dell’amore che viene da Dio scopre il volto del Padre. L’amore di Dio, che precede ogni risposta umana, si manifesta nella storia in Gesù Cristo, il Figlio unico inviato dal Padre, colui che affronta la morte come massima espressione del suo amore. Chi fa esperienza di questo amore riconosce che Dio è amore. Il sigillo e la conferma di questa esperienza di amore di Dio Padre, nel Figlio suo Gesù Cristo, è il dono permanente dello Spirito Santo.

  

Un solo Dio

 

Nel dialogo con le sue comunità san Paolo esprime la fede in Dio, Padre, Figlio e Spirito, che egli ha ricevuto dalla prima Chiesa e ha loro trasmesso. Nell’ambiente religioso greco-romano, dove a livello popolare si crede in una pluralità di dèi, san Paolo afferma la fede tradizionale cristiana: “Per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo grazie a lui” (1Corinzi 8,6). In questa dichiarazione, che si ispira al linguaggio della cultura greca, confluiscono sia la fede tradizionale ebraica sia quella cristiana: l’unico Dio è il Padre che si fa conoscere e opera per mezzo del Signore Gesù Cristo.

 

Alla fede in Dio, Padre, Figlio e Spirito, si richiama san Paolo quando parla dell’esperienza battesimale e dei doni spirituali, detti “carismi”. Per mezzo della fede battesimale i cristiani partecipano della vita di Gesù Cristo, il Figlio che il Padre ha inviato per liberare tutti i credenti. La fonte e la garanzia della condizione di libertà è il dono dello Spirito che ispira la preghiera filiale dei cristiani.

 

Nella prima lettera indirizzata ai cristiani di Corinto, che provengono da un’esperienza di vita moralmente disordinata, san Paolo ricorda che sono stati purificati, resi santi e giusti, grazie al bagno battesimale nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito di Dio. Di fronte al rischio di servirsi dei carismi per contrapporsi gli uni agli altri, Paolo ricorda ai cristiani che i doni di Dio sono diversi e molteplici e provengono dallo stesso Spirito, dallo stesso Signore e da un solo Dio, “che opera tutto in tutti” (12,6).

  

La Trinità, relazione di amore

 

Il Dio, che Gesù ci ha rivelato, non è solitario e chiuso in se stesso: è il Dio che è in se stesso dono e che si dona a noi, il Dio che è amore. Come attesta la prima lettera di Giovanni, “in questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati… E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui” (4,9-10. 16).

 

È l’amore la via che ci fa conoscere il Dio di Gesù: “Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (4,8). Da sempre Dio è amore: è colui che ama; colui che è amato e ricambia l’amore; è in persona il vincolo che unisce chi ama e chi è amato. Scrive sant’Agostino: “Le persone divine sono tre: la prima che ama quella che da lei nasce, la seconda che ama quella da cui nasce e la terza che è lo stesso amore” (De Trinitate 6, 5, 7). Questi tre sono uno: non tre amori, ma un unico, eterno e infinito amore, l’unico Dio che è amore. È ancora sant’Agostino ad affermare: “Vedi la Trinità, se vedi l’amore” (ib., 8, 8, 12). E aggiunge di quest’unico Dio, che è amore: “Ecco sono tre: l’Amante, l’Amato e l’Amore” (ib., 8, 10, 14), il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

 

La beata Elisabetta della Trinità testimonia con questa bellissima preghiera come la creatura possa essere resa partecipe del dialogo d’amore dei tre che sono uno:

 

Mio Dio, Trinità che adoro,

aiutami a dimenticarmi interamente di me per stabilirmi in Te,

in un’immobile quiete come se la mia anima fosse già nell’eternità;

che nulla possa turbare la mia pace

o farmi uscire da Te, mio immutabile Bene,

e ogni istante mi porti più dentro

nelle profondità del Tuo mistero.

Pacifica la mia anima, fanne il Tuo cielo,

la Tua dimora preferita e il luogo del Tuo riposo:

che io non Ti lasci mai solo,

ma sia totalmente in Te,

in tutto vigile nella fede, in totale adorazione,

nel completo abbandono alla Tua azione creatrice...

O miei Tre, mio Tutto, mia Beatitudine,

Solitudine infinita, Immensità in cui mi perdo,

mi consegno a Voi come una preda.

SeppelliteVi in me perché mi seppellisca in Voi,

in attesa di venire a contemplare nella Vostra luce

l’abisso delle Vostre grandezze. Amen!

(Elevazione alla Santissima Trinità, 21 novembre 1904)

 

9. LA CHIESA DI DIO

  

La vita del Dio Trinità, che è amore, si partecipa agli uomini radunandoli in una comunità, che è la Chiesa. L’espressione “Chiesa di Dio” viene dalla tradizione biblica, dove designa l’assemblea di Israele convocata da Dio ai piedi del monte Sinai per ricevere lo statuto dell’alleanza. Nella tradizione paolina la “Chiesa di Dio” è l’insieme dei credenti battezzati, dispersi nelle piccole comunità del mondo greco-romano. Gli autori dei Vangeli partono dall’esperienza della Chiesa nata nella prima missione cristiana per cercarne le radici e le ragioni nelle parole e nelle azioni di Gesù. Nella tradizione evangelica il gruppo dei dodici e dei discepoli è presentato come il prototipo della comunità cristiana o Chiesa, alla quale sono destinati i quattro Vangeli.

 

La comunità dei fratelli

 

Nel Vangelo di Matteo, Gesù parla esplicitamente della sua “Chiesa”, che egli fonderà sulla fede di Pietro. La Chiesa è la comunità dei credenti che riconoscono Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente. In essa Chiesa l’autorità è esercitata nel nome di Gesù per la salvezza dei credenti, che sono tutti fratelli, perché figli del Padre che è nei cieli. L’accoglienza dei piccoli, la correzione fraterna e il perdono stanno alla base dei rapporti nella comunità ecclesiale. Alla Chiesa Dio affida il suo regno e chiede l’attuazione della sua volontà come l’ha rivelata Gesù, il Figlio. Essa è aperta a tutti i popoli della terra, chiamati a diventare discepoli di Gesù.

 

Secondo Luca, autore del terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli, la Chiesa è una comunità “apostolica”, perché fondata sui dodici apostoli, rappresentanti di tutto Israele: nella sua vita e nella sua storia trovano compimento le promesse di salvezza fatte da Dio al popolo eletto. Con la forza dello Spirito Santo i discepoli sono inviati a rendere testimonianza a Gesù sino agli estremi confini della terra.

 

Nella festa di Pentecoste, il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua di Risurrezione, mediante il dono dello Spirito Santo, che era stato promesso da Gesù risorto, si manifesta la Chiesa. L’autore degli Atti degli Apostoli ne traccia un quadro ideale. Tutti quelli che accolgono la Parola di Dio, proclamata dagli apostoli, e si fanno battezzare nel nome del Signore Gesù formano la comunità dei credenti, che sono “perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (2,42), e realizzano una comunità di amici e fratelli, che forma “un cuore solo e un’anima sola” (4,32).

 

La comunità inviata in missione

 

L’autore degli Atti degli Apostoli ricostruisce la tappe della prima missione della Chiesa nel mondo ebraico, presentandone i protagonisti e il metodo. Dio sta all’origine della missione cristiana. Per mezzo di Gesù Cristo, il Figlio “inviato” dal Padre, il dono dello Spirito Santo abilita tutti i credenti a proclamare il Vangelo della salvezza a ogni creatura umana, senza distinzione di religione, etnia e cultura. Destinatari della missione sono tutti gli esseri umani, da Israele ai popoli pagani.

 

La missione si attua mediante l’annuncio e la testimonianza resa con la parola e con la vita. Essa corrisponde alla volontà di Dio, che è stata profeticamente annunciata nella storia di Israele - testimoniata nei libri dell’Antico Testamento - e si compie per mezzo di Gesù Cristo e il dono dello Spirito Santo. Il contenuto dell’annuncio è Gesù di Nazaret, condannato a morte dagli uomini, ma risuscitato da Dio: in lui si compiono le promesse divine, presenti nelle Sacre Scritture, e si apre l’accesso alla salvezza a tutti i possibili cercatori di Dio. L’annuncio sfocia nell’invito alla conversione per ricevere il perdono dei peccati e il dono dello Spirito Santo, garanzia della salvezza definitiva, cioè di una vita piena e felice nel tempo e per l’eternità.

 

La comunità dei credenti in Gesù Cristo

 

La Chiesa di Dio è la “santa convocazione” di quanti hanno accolto il Vangelo di Gesù Cristo e vivono, grazie all’azione interiore dello Spirito Santo, nella fede, nella carità e nella speranza, in attesa della manifestazione gloriosa del Signore. Partendo dall’esperienza della “cena del Signore”, dove i cristiani fanno memoria di Gesù morto e risorto, san Paolo presenta la comunità dei cristiani come “corpo di Cristo”. Tutti i credenti che mangiano l’unico pane che è Cristo, formano, nella comunione con lui, un solo corpo. Essi sono stati battezzati in un solo Spirito per formare l’unico corpo di Cristo.

 

Lo Spirito donato da Dio per mezzo di Gesù risorto è la fonte dei diversi carismi e compiti, che esprimono e realizzano la vitalità dell’unica Chiesa, corpo di Cristo. L’amore comunicato dallo Spirito Santo tiene uniti tutti i membri della Chiesa. Per la nascita e la crescita della Chiesa, Dio ha stabilito il ministero degli apostoli, dei profeti e dei maestri. Nella tradizione di san Paolo questa varietà di ministeri al servizio della Parola e della guida della Chiesa è donata dal Signore risorto perché tutti i credenti partecipino alla crescita del suo corpo nell’unità e nell’amore.

 

Nella vita della Chiesa la fede dei suoi membri assume diverse forme, legate agli stati di vita e ai doni ricevuti da Dio. Queste forme manifestano la ricchezza e la varietà dell’esperienza cristiana, radicata nella partecipazione alla vita dell’unico Signore Gesù, il Cristo, capo della Chiesa edificata sulla parola degli “apostoli e profeti”. Mediante la proclamazione del Vangelo tutti i popoli sono chiamati a far parte di questa Chiesa, corpo di Cristo.

 

Nella stessa tradizione di san Paolo si vive l’esperienza della Chiesa come famiglia di Dio, guidata dai pastori che rendono viva e attuale la tradizione dell’apostolo. Essi esercitano un ruolo di sorveglianza (“episcopé”) e saranno chiamati vescovi, con caratteristiche che si preciseranno sempre di più sul fondamento di ciò che è già presente nelle comunità apostoliche delle origini.

 

Entrare nella Chiesa mediante la fede in Gesù e la conversione del proprio cuore, testimoniate nel battesimo, acquisendo atteggiamenti di amore verso tutti; accettare la guida dei pastori che annunciano la Parola di Dio e offrono il dono dei sacramenti, in cui scorre per noi la vita divina offerta in Gesù Cristo, ci garantisce una vita salvata, cioè libera dalle idolatrie di questo mondo e partecipe nella fede e nella speranza della gioia dell’eternità divina.

  

La comunità di amici e la “sposa dell’Agnello”

 

Secondo il Vangelo di Giovanni i credenti in Gesù Cristo, Figlio di Dio, formano una comunità di amici, tenuti insieme, come tralci nella vite, dal comandamento nuovo dell’amore, che ha la fonte e il modello nel dono che Gesù fa della sua vita. Come Gesù i discepoli sono consacrati mediante l’amore e lo Spirito Santo, per essere inviati nel mondo. L’unità di tutti i credenti si fonda sulla preghiera di Gesù, che chiede al Padre che essi siano una cosa sola, partecipando allo stesso dinamismo di amore che costituisce la comunione tra lui e il Padre.

 

Per l’autore dell’Apocalisse la comunità dei fedeli segue Gesù, l’Agnello ucciso ma ora vivo, senza compromessi con il potere idolatrico, fino al martirio. Sullo sfondo della nuova creazione, il profeta di Patmos immagina la Chiesa come una sposa pronta per le nozze dell’Agnello. Essa è paragonata alla nuova Gerusalemme che scende dal cielo, per essere la dimora di Dio tra gli uomini.

 

Proprio in quanto è la sposa dell’Agnello, la Chiesa è necessaria per incontrare e accogliere Cristo nel cuore e nella vita. Nella comunità che ascolta e proclama la sua parola, che celebra i sacramenti della salvezza, che vive e testimonia la carità, è lui a rendersi presente, nonostante i peccati e le contro-testimonianze dei figli della Chiesa. Una comunità dal volto umano, accogliente, viva nella fede e tale da irradiare la gioia del Vangelo è veramente, in rapporto al Signore Gesù, come la luna nei confronti del sole: essa raccoglie da Cristo, vero Sole, i raggi della luce che illumina il mondo e li offre generosamente nella notte del tempo. Così la percepiva e la rappresentava la fede dei più antichi scrittori cristiani:

 

Questa è la vera luna.

Dall’intramontabile luce dell’astro fraterno

ottiene la luce dell’immortalità e della grazia.

Infatti la Chiesa non rifulge di luce propria,

ma della luce di Cristo.

Trae il suo splendore dal sole della giustizia,

per poter poi dire:

Io vivo, però non son più io che vivo,

ma vive in me Cristo!

 

(Sant’Ambrogio, Hexaemeron 4, 8, 32).

 

10. LA VITA SECONDO LO SPIRITO

 

Nella tradizione biblica lo “spirito” è la forza vivificante di Dio, che ispira i profeti e anima la vita dei fedeli che aderiscono all’alleanza. Se ne attende un’effusione abbondante per gli ultimi tempi. I primi credenti in Gesù Cristo sono convinti che la sua risurrezione inaugura i tempi ultimi con l’effusione dello Spirito. San Paolo parla dello “Spirito di Dio”, considerandolo al contempo dono di Gesù risorto ai credenti.

  

Lo Spirito di Cristo

 

Il dono dello Spirito da parte di Dio fa comprendere e accogliere ai credenti il suo progetto salvifico, che si manifesta in Gesù, il Cristo crocifisso. Lo Spirito plasma l’identità e l’agire dei discepoli, che proprio in quanto segnati dalla sua opera sono chiamati a vivere in modo “spirituale”, nella sequela di Cristo.

 

Lo Spirito suscita e alimenta quelle disposizioni profonde che sono conformi al progetto di Dio, in antitesi con quelle della “carne”, ossia con un’esistenza chiusa in se stessa ed estranea al progetto di Dio. È lo Spirito a far penetrare nel cuore dei credenti l’amore di Dio, che diventa fonte dell’amore fraterno. Lo Spirito di Dio suscita in chi crede l’atteggiamento di confidenza filiale di Gesù, che si esprime nell’invocazione Abbà, “Padre”. Anche nelle situazioni di sofferenza lo Spirito ispira e alimenta la preghiera dei credenti in sintonia con il disegno salvifico di Dio.

 

Lo Spirito di Cristo Signore è garanzia della libertà dei discepoli nei confronti della vecchia esistenza ed è fonte di un nuovo dinamismo di vita caratterizzato dall’amore. Effuso nel battesimo, costituisce i credenti in una comunità di persone di pari dignità, facendo superare ogni discriminazione etnica o sociale. La comunità animata dallo Spirito per mezzo di doni (o “carismi”) cresce in modo armonico e unitario con la partecipazione di tutti.

 

È lo Spirito comunicato dal Risorto la fonte interiore e permanente della libertà del cristiano. Essa è prima di tutto liberazione dalla schiavitù del peccato e della morte per l’iniziativa gratuita di Dio attuata in Cristo: è “libertà da” tale schiavitù e “libertà per” donarsi a Dio e agli altri, perché lo Spirito comunica all’intimo dei cuori la capacità di amare secondo la volontà del Padre, rivelata in Gesù.

 

La “legge”, sintesi delle esigenze etiche e relazionali, cessa di essere una norma esterna perché viene a coincidere con la “legge dello Spirito”, donata da Dio. Si stabilisce così una sintonia tra le aspirazioni profonde dell’essere umano, che cerca la propria realizzazione nelle relazioni giuste e felici con le persone, e le esigenze etiche concentrate nell’amore.

 

I doni dello Spirito

 

Lo Spirito Santo, dato ai credenti nel battesimo e negli altri sacramenti, fa di essi l’unico corpo di Cristo e comunica loro i vari doni o carismi. Si può parlare di doni dello Spirito solo in un contesto di fede, in cui si riconosce che Gesù è il Signore. Poiché tutti i credenti, in forza dello Spirito, riconoscono Gesù Cristo come il Signore, le differenti manifestazioni dello Spirito si impiantano su una base condivisa, e quindi su un’eguale dignità.

 

Si deve poi riconoscere che all’origine dei vari e molteplici doni spirituali c’è sempre un solo Dio e Signore che opera per mezzo dell’unico Spirito. Perciò non hanno senso concorrenze o contrapposizioni nella manifestazione e nell’esercizio dei vari carismi. Nella prima lettera ai Corinzi, san Paolo paragona la comunità dei credenti al corpo, che “pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra pur essendo molte, sono un corpo solo” (12,12). Egli conclude il confronto tra la comunità cristiana e il corpo con la dichiarazione: “Voi siete corpo di Cristo” (12,27). Tutti i cristiani infatti sono stati immersi in un solo Spirito per formare un solo corpo.

 

Il criterio ultimo per valutare i carismi suscitati dallo Spirito nella comunità è l’amore. Ce lo fa capire san Paolo nell’elogio dell’amore contenuto nel capitolo 13 della prima lettera ai Corinzi, quando dice che anche le esperienze mistiche più prestigiose e perfino gli atti di eroismo più grandi sono privi di valore senza l’amore (che in greco è detto “agàpe” ed è per lo più tradotto col termine “carità”):

 

“Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.

E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.

E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.

La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.

La carità non avrà mai fine...

Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!” (13,1-7. 13).

 

Il dono dello Spirito Santo, che Gesù risorto fa ai credenti, diventa in essi la fonte dell’amore di Dio e li rende capaci di attuare la loro fede in un atteggiamento di donazione reciproca. Lo Spirito di Dio fa nascere da un lato la fede in lui e dall’altro l’amore verso il prossimo. La maturità spirituale dei cristiani si misurerà, allora, sulla qualità delle loro relazioni d’amore, rese possibili dai frutti dello Spirito: “amore, gioia, pace, magnanità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Galati 5,22). La libertà cristiana trova nella carità la sua verifica: essa mette in moto decisioni e comportamenti responsabili e si orienta alla realizzazione di un progetto in cui l’essere umano si gioca personalmente in una costante disponibilità al servizio.

 

 La promessa della vita piena

 

Lo Spirito donatoci da Gesù ci rende dunque partecipi della vita divina nel tempo e per l’eternità. Ci chiediamo: accogliendolo nel nostro cuore, che cosa ci è dato sperare? Nel libro dell’Apocalisse, il profeta di Patmos descrive l’ultimo atto del dramma della salvezza come “nuova creazione”. L’idea della nuova creazione deriva dalla tradizione biblica, dove i profeti invitano a dimenticare il passato e a guardare alle cose nuove che Dio sta per creare.

 

San Paolo riprende questo linguaggio per esprimere la consapevolezza che i credenti, uniti mediante il battesimo a Gesù Cristo, sono una “nuova creatura”. L’esperienza della novità di vita nello Spirito, fondata sulla iniziativa radicale di Dio, prefigura e anticipa la comunione piena e definitiva con lui che chi crede attende nella speranza. Nella prospettiva di san Paolo, anche l’attuale condizione del creato è associata al destino dell’essere umano, che lo trascina con sé nella sua storia di peccato. Ma in forza della stessa solidarietà, il creato attende la liberazione dalla sua schiavitù assieme agli esseri umani chiamati a entrare nella gloria di Dio.

 

Nella visione dell’Apocalisse, espressa col linguaggio evocativo dei simboli, il disegno di Dio sulla storia umana è racchiuso in un rotolo, che solo Gesù Cristo, il messia discendente di Davide, ucciso ma vivo, è in grado di interpretare e di realizzare. Gesù Cristo è il rivelatore e il redentore universale che inaugura la grande liturgia cosmica, in cui tutti gli esseri creati riconosceranno l’assoluta signoria di Dio. Con la sua morte e risurrezione, egli non solo vince le potenze del male e della morte, ma inaugura il tempo e la condizione definitiva della salvezza per tutti quelli che lo seguono anche a costo di perdere la vita fisica. Dopo la vittoria finale sulle forze del male si presenterà la “nuova creazione”, che comprenderà il cielo e la terra, mentre il “mare”, simbolo del caos, scomparirà per sempre.

 

In questa cornice si colloca la visione della “Gerusalemme celeste”, la “fidanzata e sposa” dell’Agnello, che rappresenta il compimento del disegno della salvezza. In essa si realizzerà la dimora definitiva di Dio con gli uomini. La morte, fonte di ogni dolore, sarà eliminata per sempre. Dio accoglierà gli esseri umani come figli chiamati a partecipare per sempre alla sua vita d’amore. Questo destino è prefigurato nella donna Maria, la madre del Messia.

  

Maria madre della speranza

 

Nella tradizione evangelica Maria, la vergine madre di Gesù, si presenta come la donna credente che - coperta dall’ombra dello Spirito - si apre al dono della salvezza definitiva, inaugurato dal suo Figlio. Ella accoglie la parola dell’angelo inviato da Dio con l’adesione pronta e fedele dei grandi testimoni della tradizione biblica. Nel canto del Magnificat, Maria esalta la potenza salvifica di Dio, il santo e il misericordioso, che nel suo figlio Gesù porta a compimento la promessa fatta ad Abramo e alla sua discendenza. Come umile serva del Signore, Maria, la “figlia di Sion”, si colloca nella storia del suo popolo, Israele, che, a partire dall’esodo e dal cammino nel deserto, fa esperienza dell’agire potente di Dio. Il Magnificat, sintesi della storia della salvezza, è un canto di speranza, di cui Maria si fa voce.

 

Alla nascita di Gesù a Betlemme, mentre i pastori riconoscono nel bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia il Messia e il Salvatore, Maria conserva e medita nel suo cuore quanto le è stato annunciato e va realizzandosi. La stessa immagine di Maria compare a conclusione dell’episodio di Gesù dodicenne che, in occasione di un pellegrinaggio a Gerusalemme per la festa di Pasqua, si ferma nel tempio per discutere con i maestri della Legge. Maria e Giuseppe non comprendono le parole di Gesù che rivendica il suo diritto e dovere di dedicarsi alle cose del Padre suo. Il racconto si chiude con una scena paradossale: Gesù ritorna a Nazaret, dove rientra nel suo ruolo di figlio sottomesso, mentre Maria “conserva tutte queste cose nel suo cuore” (Luca 2,51). La madre di Gesù vive nell’attesa del pieno svelamento dell’identità di suo Figlio nella Pasqua di Risurrezione.

 

Maria, in quanto è la credente, che accoglie e conserva nel cuore la parola di Dio, è il prototipo dei discepoli e della Chiesa intera. Quest’identità della Madre di Gesù si trova anche nella tradizione trasmessa nel Vangelo di Giovanni, a partire dal racconto delle nozze di Cana. Con il dono del vino buono e abbondante, Gesù inaugura la nuova alleanza, fondata su nuove relazioni di amore. Con discrezione, ma anche con determinazione, la Madre entra nella prospettiva della nuova alleanza, richiamando l’attenzione del Figlio sul bisogno venutosi a creare e invitando i servi a fare quello che lui dirà loro. A Cana la Madre anticipa l’ora della rivelazione della gloria di Gesù, che si compirà con la sua morte e risurrezione a Gerusalemme.

 

La Madre è presente nella scena centrale della crocifissione di Gesù. Prima delle parole “tutto è compiuto”, Gesù le rivela una nuova identità, affidandola come madre al discepolo amato, che l’accoglie come un dono prezioso. Ai piedi della croce nasce la comunità dei credenti, rappresentata dal discepolo e dalla Madre di Gesù. Nel dolore della sua morte avviene il parto, la nascita della nuova creatura, che Gesù ha promesso ai discepoli nel discorso di addio.

 

In questo orizzonte si colloca anche la visione del capitolo 12 dell’Apocalisse, che presenta il destino finale dell’umanità mediante il grande segno nel cielo, dove compare una donna vestita di sole che partorisce un figlio destinato a regnare come Messia. Per essere sottratto alla minaccia di morte del grande drago, il figlio della donna è portato nel mondo di Dio. Le doglie del parto e il rapimento del figlio presso Dio alludono al mistero pasquale di Gesù, che si prolunga nella storia dei suoi testimoni. Essi sono i figli della donna contro i quali ora combatte il drago.

 

Nel dramma dell’Apocalisse la figura della madre del Messia si sovrappone a quella di Israele e della Chiesa, sullo sfondo della lotta primordiale tra il serpente antico e la discendenza della donna. Maria è la primizia e l’immagine della Chiesa che vive nell’attesa della salvezza finale. In lei Dio ha fatto risplendere per il suo popolo, pellegrino sulla terra, “un segno di consolazione e di sicura speranza”. Ecco come un figlio della Chiesa dei nostri tempi si rivolge a Maria, la madre di Gesù, figura ideale per ogni donna e per ogni uomo:

 

Santa Maria, donna dei nostri giorni,

liberaci dal pericolo di pensare

che le esperienze spirituali vissute da te duemila anni fa

siano improponibili oggi per noi…

Facci comprendere che la modestia, l’umiltà, la purezza

sono frutti di tutte le stagioni della storia,

e che il volgere dei tempi non ha alterato

la composizione chimica di certi valori

quali la gratuità, l’obbedienza, la fiducia,

la tenerezza e il perdono.

Sono valori che tengono ancora

e che non andranno mai in disuso.

Ritorna, perciò, in mezzo a noi, e offri a tutti

l’edizione aggiornata di quelle grandi virtù umane

che ti hanno reso grande agli occhi di Dio.

 

                   (Preghiera a Maria del vescovo Tonino Bello).

 

 III

   

COME INCONTRARE IL DIO DI GESÙ CRISTO

 

Abbiamo cercato di testimoniare la speranza che è in noi. Abbiamo presentato Gesù, la sua vita, morte e risurrezione. Abbiamo parlato del volto del Padre suo e del dono del suo Spirito. Per noi cristiani, Gesù non è una dottrina astratta. È via, è vita, è verità che illumina il nostro cuore, anticipo e promessa della vita eterna. Seguendo Lui, il più umano degli uomini, il Figlio eterno venuto in mezzo a noi, ci sentiamo aiutati ad affrontare la vita e le sue sfide come figli di Dio, fratelli e sorelle tra di noi.

 

La terza parte della nostra “Lettera” cerca di aiutare il “cercatore di Dio” a pensare, progettare e vivere esperienze concrete per giungere all’incontro con il Dio vivente, così come Gesù lo ha reso a noi possibile. In quest’impresa, siamo rassicurati dalla presenza di tanti testimoni nella storia della Chiesa. Essi, condotti dallo Spirito di Gesù e dalla mano sapiente dei pastori, i fratelli a cui lo Spirito stesso ha affidato la responsabilità di governare il cammino verso la verità, ci aiutano a cogliere e interpretare la verità nella vita quotidiana e ad aprirci al dono di Dio.

 

Tra le righe del discorso, vorremmo che ciascuno vedesse affiorare il volto della comunità, il volto della Chiesa, madre dei credenti, che sostiene e incoraggia il cammino di tutti. È lei che ci ha trasmesso la buona notizia di Gesù il Signore e ci aiuta a interpretare le inquietudini che attraversano il nostro cuore.

 

Cerchiamo allora di ripensare il cammino quotidiano del cristiano, lasciandoci condurre per mano da chi l’ha sperimentato prima di noi. Anche il ricordo delle esigenze a cui essere fedeli, per una qualità di vita secondo il progetto di Dio, risponde a quell’interrogativo profondo che affiora quando ci lasciamo interpellare da impegni alti.

 

In quest’ultima parte, dunque, tentiamo di proporre la “mappa” di un’esistenza vissuta secondo lo Spirito di Gesù, per restituire fiducia alla vita quotidiana e ricordare le condizioni per la sua autenticità. Chi sosterrà il nostro sforzo? Proprio dal vissuto dei nostri fratelli e sorelle nella fede affiora la risposta: la preghiera, la parola di Dio, i sacramenti, il servizio, l’attesa della casa futura, sono le esperienze concrete in cui è possibile incontrare il Dio di Gesù Cristo.

 

Certo, siamo costretti a trascrivere “parole”. Sappiamo però che dietro di esse ci sono persone e fatti: i tanti discepoli di Gesù, testimoni di santità, le tante donne e uomini che hanno dato speranza ad altri nella storia. Ci sono anche i nostri volti, che le parole interpretano e forse… abbelliscono. Ci sei anche tu che stai leggendo, sollecitato a rivisitare più intensamente la tua vita per diventare un “volto” che si fa “parola”, proposta per tutti.

 

11. LA PREGHIERA

  

Perché pregare? La risposta è semplice: per vivere. Sì: per vivere veramente, bisogna pregare. Perché vivere è amare: una vita senza amore non è vita. È solitudine vuota, è prigione e tristezza. Vive veramente solo chi ama: e ama solo chi si sente amato, raggiunto e trasformato dall’amore. Come la pianta non fa sbocciare il suo frutto se non è raggiunta dai raggi del sole, così il cuore umano non si schiude alla vita vera e piena se non è toccato dall’amore. Pregando, ci si lascia amare da Dio e si nasce all’amore, sempre di nuovo. Perciò, chi prega vive veramente, nel tempo e per l’eternità.

 

Come pregare?

 

Molti pensano di non saper pregare. Molti domandano come pregare. Anche in questo caso la risposta è immediata: bisogna dare un po’ del proprio tempo a Dio. All’inizio, l’importante non sarà che questo tempo sia tanto, ma che glielo si dia fedelmente. È necessario fissare un tempo da dare ogni giorno al Signore, e donarglielo con fedeltà, quando ce la sentiamo e anche quando non ce la sentiamo. Bisogna cercare un luogo tranquillo, dove se possibile ci sia qualche segno che richiami la presenza di Dio (una croce, un’icona, la Bibbia), o entrare in una chiesa e fermarsi davanti al tabernacolo, dove c’è la presenza di Cristo nell’Eucaristia. Basta raccogliersi in silenzio e invocare lo Spirito Santo, perché sia lui a gridare in noi: “Abbà, Padre!”. Portiamo a Dio il nostro cuore, anche se è in tumulto. Non dobbiamo aver paura di dirgli tutto, non solo le difficoltà e il dolore, il peccato e l’incredulità, ma anche la gioia e la speranza, e persino la ribellione e la protesta, se abitano dentro di noi.

 

Tutto va posto nelle mani di Dio, lodandolo e ringraziandolo per i suoi doni. Bisogna ascoltare il suo silenzio, senza pretendere di trovare subito risposte. È necessario perseverare, senza pretendere di afferrare Dio, ma lasciandolo penetrare nella nostra vita e nel nostro cuore, toccandoci l’anima. Bisogna ascoltare la sua Parola, aprendo la Bibbia, meditandola con amore, lasciando che Gesù parli al cuore. Nei Salmi troveremo espresso tutto ciò che vorremmo dire a Dio; ascoltando gli apostoli e i profeti impareremo ad amare la storia del popolo eletto e della Chiesa nascente e faremo esperienza della vita vissuta nell’orizzonte dell’alleanza con Dio. Dopo aver ascoltato la Parola di Dio, dovremo camminare ancora a lungo sui sentieri del silenzio, lasciando che sia lo Spirito a unirci a Cristo, Parola eterna del Padre. Lasciamo che sia Dio Padre a plasmarci con tutte e due le sue mani, il Verbo e lo Spirito Santo.

  

Il cammino della preghiera

 

All’inizio, potrà sembrare che il tempo per tutto questo sia troppo lungo e che non passi mai: bisogna perseverare con coraggio e disponibilità, dando a Dio tutto il tempo che siamo in grado di dargli. Di appuntamento in appuntamento la nostra fedeltà sarà premiata, e vedremo pian piano crescere in noi il gusto della preghiera. Quello che all’inizio ci sembrava irraggiungibile, diventerà sempre più facile e bello. Capiremo allora che ciò che conta non è avere risposte, ma mettersi a disposizione di Dio: ciò che porteremo nella preghiera sarà poco a poco trasfigurato.

 

Così, quando ci troveremo a pregare con il cuore in tumulto, se persevereremo, ci accorgeremo che dopo aver a lungo pregato non avremo trovato risposte alle nostre domande, ma che le stesse domande si saranno sciolte come neve al sole. Nel nostro cuore entrerà la pace di chi si affida nelle mani di Dio e si lascia condurre docilmente da lui, là dove lui vuole.

 

Non mancheranno in tutto questo le difficoltà: a volte, non riusciremo a far tacere il chiasso che è intorno e dentro di noi; a volte sentiremo la fatica e perfino il disgusto di metterci a pregare; a volte, la nostra sensibilità scalpiterà e qualunque atto ci sembrerà preferibile allo stare in preghiera davanti a Dio, a “tempo perso”. In realtà, sono state queste le prove di tanti credenti e persino di molti grandi santi. Bisogna solo avere fede: l’unica cosa che possiamo veramente dare a Dio è la prova della nostra fedeltà. Con la perseveranza salveremo la preghiera e soprattutto la nostra vita.

 

Non dobbiamo avere paura delle prove e delle difficoltà nella preghiera: Dio è fedele e non ci porrà mai davanti a una prova senza darci la via d’uscita; non ci esporrà mai a una tentazione senza darci la forza per sopportarla e vincerla. Lasciamoci amare da Dio: come una goccia d’acqua che evapora sotto i raggi del sole, sale in alto e ritorna alla terra come pioggia feconda o rugiada consolatrice, così lasciamo che tutto il nostro essere sia lavorato da Dio, plasmato dall’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, assorbito in loro e restituito alla storia come dono fecondo.

 

Lasciamo che la preghiera faccia crescere in noi la libertà da ogni paura, il coraggio e l’audacia dell’amore, la fedeltà alle persone che Dio ci ha affidato e alle situazioni in cui ci ha posto, senza cercare evasioni o consolazioni a buon mercato. Impariamo, pregando, a vivere la pazienza di attendere i tempi di Dio, che non sono i nostri tempi, e a seguire le vie di Dio, che spesso non sono le nostre vie.

  

La preghiera sorgente d’amore

 

Un dono particolare che viene dalla fedeltà alla preghiera è l’amore agli altri e il senso della Chiesa: più si prega, più si prova misericordia per tutti; più vorremo aiutare chi soffre, più avremo fame e sete di giustizia, specie per i più poveri e deboli. Pregando, sentiremo come è bello essere nella barca di Pietro, docili alla guida dei pastori della Chiesa, solidali con tutti, sostenuti dalla preghiera comune, pronti a servire gli altri con gratuità, senza nulla chiedere in cambio.

 

Pregando, sentiremo crescere la passione per l’unità della Chiesa e di tutta la famiglia umana. La preghiera è la scuola dell’amore, perché è in essa che possiamo riconoscerci infinitamente amati e nascere sempre di nuovo alla generosità che prende l’iniziativa del perdono e del dono senza calcolo, al di là di ogni misura di stanchezza.

 

Pregando, s’impara a pregare e si gustano i frutti dello Spirito, che fanno vera e bella la vita. Pregando, si diventa amore, e la vita acquista il senso e la bellezza per cui è stata voluta da Dio. Pregando, si avverte sempre più l’urgenza di portare il Vangelo a tutti, sino agli estremi confini della terra. Pregando, si scoprono i doni infiniti dell’Amato e si impara sempre più a rendere grazie a lui in ogni cosa. Pregando, si vive. Pregando, si ama. Pregando, si loda. E la lode è la gioia e la pace più grande del nostro cuore inquieto, nel tempo e per l’eternità.

 

12. L’ASCOLTO DELLA PAROLA DI DIO

  

C’è un profondo bisogno di amore in ciascuno di noi, così spesso prigionieri delle nostre solitudini. È il bisogno di una parola di vita che vinca le nostre paure e ci faccia sentire amati. Il profeta Amos descrive con efficacia questa situazione: “Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore Dio - in cui manderò la fame nel paese; non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare le parole del Signore” (8,11). E sant’Agostino - che quella Parola ha incontrato, fino a farne la ragione di tutta la sua vita - così presenta la risposta del Dio vivente al nostro bisogno: “Da quella città il Padre nostro ci ha inviato delle lettere, ci ha fatto pervenire le Scritture, onde accendere in noi il desiderio di tornare a casa” (Commento ai Salmi, 64, 2-3).

 

Se si arriva a comprendere - come è capitato a tanti credenti di ieri e di oggi - che la Bibbia è questa “lettera di Dio”, che parla proprio al nostro cuore, allora ci si avvicinerà a essa con la trepidazione e il desiderio con cui un innamorato legge le parole della persona amata. Allora, Dio, che è insieme paterno e materno nel suo amore, parlerà proprio a ciascuno di noi e l’ascolto fedele, intelligente e umile di quanto egli dice sazierà poco a poco il nostro bisogno di luce, la tua sete d’amore. Imparare ad ascoltare la voce di Dio che parla nella Sacra Scrittura è imparare ad amare: perciò, l’ascolto delle Scritture è ascolto che libera e salva.

  

Il Dio che parla

 

Solo Dio poteva rompere il silenzio dei cieli e irrompere nel silenzio del cuore: solo lui poteva dirci - come nessun altro - parole d’amore. Questo è avvenuto nella sua rivelazione, dapprima al popolo eletto, Israele, e poi in Gesù Cristo, la Parola eterna fatta carne. Dio parla: attraverso eventi e parole intimamente connessi, egli comunica se stesso agli uomini. Messi per iscritto sotto l’ispirazione del suo Spirito, questi testi costituiscono la Sacra Scrittura, la dimora della Parola di Dio nelle parole degli uomini. Il Signore dice ciò che fa e fa ciò che dice. Nell’Antico Testamento annuncia ai figli d’Israele la venuta del Messia e l’instaurazione di una nuova alleanza; nel Verbo fatto carne compie le sue promesse oltre ogni attesa.

 

Antico e Nuovo Testamento ci narrano la storia del suo amore per noi, secondo un cammino con cui Dio educa il suo popolo al dono dell’alleanza compiuta: l’Antico Testamento si illumina nel Nuovo e il Nuovo è preparato nell’Antico. Perciò, i discepoli di Gesù amano le Scritture che lui stesso ha amato, quelle che Dio ha affidato al popolo ebraico, e che essi leggono nella luce di lui, crocifisso e risorto. Il compimento della rivelazione, infatti, è Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo per noi, la Parola unica, perfetta e definitiva del Padre, il quale in lui ci dice tutto e ci dona tutto. Nutrirsi della Scrittura è nutrirsi di Cristo: “L’ignoranza delle Scritture - afferma san Girolamo - è ignoranza di Cristo” (Commento al Profeta Isaia, PL 24,17).

 

Chi vuole vivere di Gesù deve ascoltare, allora, incessantemente le divine Scritture. È in esse che si rivela il volto dell’Amato. Ed è lo Spirito Santo, che ha guidato il popolo eletto ispirando gli autori delle Sacre Scritture, ad aprire il cuore dei credenti all’intelligenza di quanto è in esse contenuto. Perciò, nessun incontro con la Parola di Dio andrà vissuto senza aver prima invocato lo Spirito, che schiude il libro sigillato, muovendo il cuore e rivolgendolo a Dio, aprendo gli occhi della mente e dando dolcezza nel consentire e nel credere alla verità. È lo Spirito a farci entrare nella verità tutta intera attraverso la porta della Parola di Dio, rendendoci operatori e testimoni della forza liberante che essa possiede.

 

La casa della Parola

 

Nella sua Parola è Dio stesso a raggiungere e trasformare il cuore di chi crede: “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (Ebrei 4,12). Affidiamoci, allora, alla Parola: essa è fedele in eterno, come il Dio che la dice e la abita. Perciò, chi accoglie con fede la Parola, non sarà mai solo: in vita, come in morte, entrerà attraverso di essa nel cuore di Dio: “Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio” (San Gregorio Magno).

 

Alla Parola del Signore corrisponde veramente chi accetta di entrare in quell’ascolto accogliente che è l’obbedienza della fede. Il Dio, che si comunica al nostro cuore, ci chiama ad offrirgli non qualcosa di nostro, ma noi stessi. Questo ascolto accogliente rende liberi: “Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8,31-32).

 

Per renderci capaci di accogliere fedelmente la Parola di Dio, il Signore Gesù ha voluto lasciarci - insieme con il dono dello Spirito - anche il dono della Chiesa, fondata sugli apostoli. Essi hanno accolto la parola di salvezza e l’hanno tramandata ai loro successori come un gioiello prezioso, custodito nello scrigno sicuro del popolo di Dio pellegrino nel tempo. La Chiesa è la casa della Parola, la comunità dell’interpretazione, garantita dalla guida dei pastori a cui Dio ha voluto affidare il suo gregge. La lettura fedele della Scrittura non è opera di navigatori solitari, ma va vissuta nella barca di Pietro.

 

Accogliere la Parola nel silenzio e nella contemplazione

 

È l’amore il frutto che nasce dall’ascolto della Parola: “Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi” (Giacomo 1,22). Chi si lascia illuminare dalla Parola, sa che il senso della vita consiste non nel ripiegarsi su se stessi, ma in quell’esodo da sé senza ritorno, che è l’amore. L’ascolto costante della Sacra Scrittura ci fa sentire amati e ci rende capaci di amare, dando gioia e speranza al nostro cuore: se ci consegniamo senza riserve al Dio che ci parla, sarà lui a donarci agli altri, arricchendoci di tutte le capacità necessarie per metterci al loro servizio.

 

La Parola è guida sicura perché - fra i rumori del mondo - ci conduce a impegnarci per gli altri sui passi di Gesù, a riconoscere negli altri la sua voce che chiama: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Matteo 25,40). Chi ama la Parola, sa quanto sia necessario il silenzio, interiore ed esteriore, per ascoltarla veramente, e per lasciare che la sua luce ci trasformi mediante la preghiera, la riflessione e il discernimento: nel clima del silenzio, alla luce delle Scritture, impariamo a riconoscere i segni di Dio e a riportare i nostri problemi al disegno della salvezza che la Scrittura ci testimonia.

 

Certo, il silenzio necessario all’ascolto non è mutismo, ma espressione di un amore che supera ogni parola. Solo l’amore apre alla conoscenza dell’Amato, come è stato per il discepolo, che ha posato il suo capo sul petto del Signore nell’ultima cena: “Poteva comprendere il senso delle parole di Gesù, soltanto colui che riposò sul petto di Gesù” (Origene, In Joannem, 1,6: PG 14,31). Anche noi dobbiamo poggiare il capo sul cuore di Cristo e ascoltare le sue parole, lasciando che esse parlino al nostro cuore e lo facciano ardere del suo amore.


13. I SACRAMENTI, LUOGO DELL’INCONTRO CON CRISTO

  

Forse ci sarà capitato di entrare in una chiesa, magari nel tentativo di dare un nome alla nostra ricerca interiore. Anche vuoto, l’ambiente evoca una presenza e favorisce l’interiorità. Ma ogni chiesa si anima soprattutto quando da edificio di pietra diviene Chiesa di volti: “Avvicinandovi a lui, pietra viva, (…) quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale” (1Pietro 2,4-5).

 

Per questo, la manifestazione più significativa della Chiesa avviene ogni domenica, giorno del Signore, memoria viva della risurrezione di Cristo, quando la comunità si raduna per la celebrazione dell’Eucaristia. La Messa domenicale è il grazie settimanale, condiviso da ognuno, per il dono della fede, dell’amore e della speranza più forte di ogni morte. L’Eucaristia, cioè il rendimento di grazie, ci fa Chiesa e manifesta la Chiesa nella varietà e ricchezza dei doni che la compongono.

  

Il buon sapore di una vita donata

 

Quando diciamo che non ci sono più i buoni sapori di un tempo, in realtà stiamo constatando una sorta di smarrimento del senso profondo delle cose. Mangiare pane profumato di forno o bere vino che sa di uva è come ritrovare l’autenticità in noi stessi e nelle nostre relazioni. Se poi lo si fa a tavola con gli amici, davvero qualcosa cambia nell’esistenza.

 

Nella notte del tradimento, quando all’orizzonte si sta profilando la condanna a morte per Gesù, egli non rinuncia a porre un segno di luce nelle tenebre che avvolgono i cuori. A tavola con gli amici, nei giorni in cui si ricorda il passaggio di liberazione sperimentato dal popolo ebraico nell’esodo dall’Egitto, prende del pane, lo spezza e invita a mangiarlo: è il suo corpo! Quindi, prende un calice e invita a bere il vino versato: è il suo sangue! Gesti che i suoi non capiscono subito.

 

Quando lo vedranno appeso al legno della croce, cominceranno a comprendere che il pane spezzato e il vino versato sono segni profetici del dono di sé. Ma ne è valsa la pena? Solamente incontrandolo risorto si convinceranno, grazie al dono del suo Spirito, che egli aveva proprio ragione: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Giovanni 12, 24). Quando nella cena li aveva invitati a fare questo in sua memoria, voleva che partecipassero al suo stesso dono d’amore attraverso il gesto del mangiare e del bere.

 

Ecco perché, fin da subito, i cristiani si radunano ogni domenica a celebrare la memoria viva - o, come si dice, il memoriale - della sua Pasqua di morte e di risurrezione, nel segno del pane che è il suo corpo e del vino che è il suo sangue. Mangiano, cioè entrano in comunione profonda con lui e tra loro, per avere la forza di entrare nel senso del vivere, nel buon sapore dell’esistenza: “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà” (Marco 8,35).

 

I sacramenti e la vita nuova in Cristo

 

Scommettere su questo stile di vita offerta in dono non è frutto della generosità di un momento: tutta l’esistenza è chiamata a plasmarsi diversamente, anche perché fuori e dentro di noi c’è una spinta, che ci trascina verso l’egoismo, la prevaricazione, il tornaconto individuale. Gesù, decidendo di condividere il peso di questa realtà di male con noi, si è messo in fila con in peccatori e si è immerso nel fiume Giordano per ricevere il battesimo di Giovanni Battista.

 

I cristiani riprendono questo battesimo con un senso nuovo. Immergono chi viene battezzato nell’acqua del fonte battesimale, o gli bagnano il capo, a significare l’unione al Cristo stesso, nell’atto del suo entrare nel sepolcro in solidarietà con le nostre morti e del nostro uscirne con lui, partecipi della sua vittoria sulla morte. Una volta per tutte, in maniera indelebile, nel battesimo la nostra esistenza è saldamente unita a quella del Cristo e a quella di tutti gli altri cristiani; diventiamo un corpo unico, il corpo di Cristo che è la Chiesa: corpo donato, vita vissuta nella logica evangelica del seme consumato per dare frutti d’amore.

 

Tutti i sacramenti sono partecipazione della nostra vita a quella di Cristo. Essi rinviano al cuore incandescente del Vangelo, alla Pasqua di Cristo che va fino in fondo nel dono di sé e così vince la morte. Attraverso i sacramenti, la vita nei suoi vari passaggi (nascita e morte, salute e malattia, amore di coppia e servizio alla comunità, peccato e perdono…) viene inserita nell’evento pasquale di Gesù, da cui riceve forza e senso. È Cristo stesso mediante i sacramenti a entrare nella nostra vita, agendo in essa con la potenza del suo amore. Lo esprime incisivamente questo bel testo di un antico scrittore cristiano:

 

“Sebbene tale ufficio [la celebrazione dei sacramenti] appaia esercitato per mezzo di uomini, l’azione tuttavia è di colui che è autore del dono ed è egli stesso a compiere ciò che ha istituito. Noi compiamo il rito, egli concede la grazia. Noi eseguiamo, egli dispone. Ma suo è il dono, anche se nostra è la funzione. Noi laviamo i piedi del corpo, ma egli lava i passi dell’anima. Noi immergiamo il corpo nell’acqua; egli rimette i peccati. Noi immergiamo; egli santifica. Noi sulla terra imponiamo le mani; egli dal cielo dona lo Spirito Santo” (San Cromazio di Aquileia, Sermone XV: La Lavanda dei piedi, 6).

 

Esprimiamo questo incontro della nostra vita con l’azione potente di Dio nel rito, esperienza di cui l’umanità non ha mai fatto a meno. C’è bisogno infatti di dare valore alle cose della vita con il linguaggio della gioia e della festa, del ritrovarsi insieme e del condividere: parole e silenzi, musiche e canti, vesti e segni, tutto concorre a esprimere quanto è più grande di noi, eppure ci avvolge. I riti esprimono l’indicibile e l’ineffabile, l’essenziale invisibile agli occhi che rimanda al mistero stesso di Dio.

 

Così, il battesimo è lo schiudersi del senso profondo di tutta l’esistenza, l’ingresso nella partecipazione alla vita stessa del Dio, che è Amore. Proprio per questo non riguarda unicamente il bambino, ma chiama in causa tutta la comunità e interpella ogni cristiano sul modo in cui vive il dono ricevuto nel proprio battesimo. A sua volta, l’Eucaristia - memoriale della Pasqua di Gesù - va compresa e vissuta come il culmine e la fonte dell’intera esistenza cristiana e della vita della Chiesa.

 

In modo analogo, la confermazione o cresima - in quanto è l’atto in cui Dio viene a confermare col dono del suo Spirito Santo il battezzato - va colta come una grazia per tutti, perché attraverso la forza della testimonianza data al cresimato raggiunge l’intera comunità dei credenti e può vivificare ogni rapporto umano. Battesimo, confermazione ed Eucaristia costituiscono i sacramenti dell’iniziazione cristiana, quelli che ci consentono di divenire cristiani e di crescere nella vita teologale della fede, della speranza e della carità.

 

A essi si aggiungono i sacramenti di guarigione - la penitenza, che dà il perdono dei peccati e ci riconcilia con Dio e con la Chiesa, e l’unzione degli infermi, che fortifica nella debolezza della malattia e dona vigore spirituale - e i sacramenti del servizio della comunione, l’ordine sacro e il matrimonio. Questi ultimi due edificano la comunità cristiana rispettivamente attraverso il ministero dell’unità - vissuto nel servizio della Parola, nella liturgia e nella guida pastorale - e attraverso la costruzione di quella cellula vitale del popolo di Dio e dell’umanità, che è la famiglia.

 

L’incontro, poi, con i differenti cammini religiosi, oggi reso come mai prima possibile dal villaggio globale in cui viviamo, è invito al confronto con altre ritualità. Esse dicono gli aneliti sinceri dell’uomo in cerca di Dio e di Dio alla ricerca dell’uomo. Dal momento che nella Pentecoste lo Spirito del Signore ha riempito l’universo, il cristiano può leggere in questa ritualità diffusa dei frammenti preziosi, come “bagliori della Verità che tutti illumina” (Concilio Vaticano II, Nostra aetate 2), che manifestano “una segreta presenza di Dio” (Ad gentes 9). L’unico Padre rivelatoci da Gesù nella sua Pasqua è il Dio verso il quale l’umanità intera è incamminata. Nell’atto del celebrare i sacramenti, pertanto, la Chiesa afferma sì la sua fede, ma dà anche voce all’attesa del mondo e della storia, pregusta cieli e terra nuovi nell’impegno condiviso per una vita vivibile e buona per tutti.

 

14. IL SERVIZIO

  

Una delle vie per vivere la memoria di Gesù e sentirsi membra del suo corpo, che è la Chiesa, consiste nel fare a nostra volta quello che lui ha fatto: servire e amare.

  

Tanti modi per servire

 

Sono tanti i modi e le vie che i cristiani hanno oggi per realizzare la memoria di Gesù attraverso il servizio al prossimo. La Chiesa ne indica principalmente tre: far conoscere il suo Vangelo, vivere il servizio della preghiera, sentirsi responsabili degli altri, prendendosi cura con particolare attenzione dei più poveri e bisognosi. Diversi sono i servizi e diverse le competenze, ma la responsabilità è unica: seguire Gesù. Gesù infatti continua la sua presenza in mezzo a noi e in noi attraverso il suo Spirito, che ci rende capaci di realizzare la missione che ci affida.

 

Il servizio nei confronti dei fratelli si è dall’inizio concretizzato in un compito molto importante: la cura del corpo di Cristo, che è la Chiesa, la comunità dei cristiani. È Gesù che dall’inizio del suo ministero ha chiamato alcuni discepoli perché stessero con lui e per mandarli a predicare. Egli li chiamò ed essi lo seguirono. Di loro formò un gruppo stabile, un “collegio”, alla cui testa pose Pietro. Lo stare con Gesù e il venire inviati da lui caratterizza il sacerdozio ministeriale nella Chiesa: il fondamento, la radice profonda dell’essere dei preti sta proprio qui. È restando uniti a Cristo, che i vescovi e i presbiteri insieme a loro guidano il popolo di Dio e conducono i fedeli sul cammino del Figlio verso il Padre.

 

Altri servizi sono affidati ai cristiani: tutti sono chiamati a farsi servi per amore, mettendo a disposizione degli altri con gratuità quanto hanno gratuitamente ricevuto da Dio. È la fantasia dello Spirito ad aiutarci a dare concretezza al comandamento dell’amore che Gesù ci ha lasciato come segno distintivo della nostra identità di suoi discepoli. Come insegna un’antica preghiera, “Cristo non ha mani, ha soltanto le nostre mani per fare il suo lavoro oggi. Cristo non ha piedi, ha soltanto i nostri piedi per guidare gli uomini a sé. Cristo non ha labbra, ha soltanto le nostre labbra per parlare agli uomini oggi. Noi siamo l’unica Bibbia, che tutti i popoli leggano ancora. Noi siamo l’ultimo appello di Dio scritto in parole ed opere”.

 

Il nostro vivere quotidiano come servizio offerto a Dio

 

L’apostolo Paolo si spinge ancora più lontano, nello sviluppo di questa “logica del servizio”: partecipando nella fede all’opera di annuncio e diffusione dell’amore di Dio per gli uomini, noi siamo in grado di trasformare tutta la nostra vita in un “sacrificio vivente”, in un grande gesto continuo di preghiera e di ringraziamento a Dio (cf. Romani 12,1). Il nostro lavoro, l’amore e gli affetti che danno calore e senso alla vita, i molti impegni che riempiono l’esistenza quotidiana possono essere trasfigurati, e assumere così un significato nuovo, se vissuti come luogo in cui rendere visibile l’amore, con cui siamo amati da Dio.

 

In un mondo in cui le logiche che legano gli uomini tra loro conoscono spesso il dramma del peccato e della distorsione, divenendo alienanti e disumane, servire Dio e gli altri risulta per molti aspetti faticoso: è questa fatica, tuttavia, che è stata fatta propria dal Figlio di Dio incarnato, che ha donato così nuova dignità alle opere e ai giorni degli uomini. In comunione con colui che ha lavorato con mani d’uomo e ha amato con cuore d’uomo, il cristiano riconosce nella fatica quotidiana lo strumento con il quale intervenire sulla trasformazione della realtà per conformarla al progetto di Dio, in costante relazione e dialogo con l’intera famiglia umana.

 

Nell’attesa dei cieli nuovi e della terra nuova, il cristiano sa di servire la causa di Dio nella causa dell’uomo. Umanizzare il mondo è servire il Signore, che vi è entrato e vi opera in vista della finale “ricapitolazione” di tutte le cose in Dio. Offerta a Dio nella fatica dei giorni, la nostra vita può divenire la via di una comunione sempre più profonda con il Cristo, redentore dell’uomo.

  

Collaboratori della gioia di tutti

 

Chiamato a servire, nell’impegno di ogni giorno, nella specificità dei servizi d’amore cui Dio lo chiama, il cristiano non deve mai perdersi d’animo, né cedere alla tentazione della disperazione e dello scetticismo. Il segreto che gli permette di mantenere intatta la sua capacità di leggere giorno dopo giorno i segni della salvezza di Dio, che è all’opera, sta nell’incontro fedele e perseverante con Cristo, sorgente di vera gioia.

 

Questa gioia dell’incontro col Signore accompagna la vita del cristiano: anche nella prova e nella persecuzione i discepoli restano “pieni di gioia e di Spirito Santo” (Atti 13,52). La gioia è un frutto dello Spirito, conseguenza del dimorare in Dio nella preghiera e nella celebrazione del suo amore per noi, sperimentato nella fede e nella speranza: “Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1Tessalonicesi 5,16-18). La gioia si coniuga così alla carità, vissuta nel portare con Cristo il peso della sofferenza propria e altrui. Servire è farsi collaboratori della gioia di tutti: “Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Corinzi 1,24).

 

Lo spirito delle beatitudini è la caratteristica inconfondibile della vita cristiana: in chi lo vive è Cristo che vive, perché è Gesù il povero, il sofferente, il mite, il puro di cuore, l’affamato di giustizia e l’operatore di pace, e nessun altri al di fuori di lui è in grado di trasformare nella gioia e nella pace dell’amore il dolore, che devasta la terra. Le beatitudini sono al tempo stesso l’annuncio e il dono della vita nuova che i cristiani portano nel mondo, il criterio e la misura della loro credibilità, la promessa delle meraviglie che la sequela di Gesù opera nella nostra debolezza, secondo una logica che la fede comprende, ma che appare perfino sconvolgente agli occhi del mondo. Ecco come le riporta l’evangelista Luca:

 

“Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio.

Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati.

Beati voi, che ora piangete, perché riderete.

Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti” (6,20-24).

 

Il dialogo, stile del servizio

 

Lo stile proprio del servizio è il dialogo, quel linguaggio dell’amore, in cui l’amore stesso si manifesta come attenzione e disponibilità agli altri. La fatica di amare si riflette perciò inevitabilmente nelle resistenze e nei rischi propri del dialogo. Come la gratuità dell’amore viene inaridita dalla possessività, così il dialogo non esiste realmente lì dove non sia suscitato da un’iniziativa gratuita, libera dal calcolo. Nulla si oppone di più all’autenticità del dialogo che la strategia o il tatticismo: dove il dialogo è strumento per dominare l’altro o per usarlo ai propri fini, lì cessa di esistere. Il dialogo ha la dignità del fine e non del mezzo: esso vive di gratuità e si propone come un’offerta di incontro che sgorga dalla gioia di amare.

 

Per dialogare veramente è, poi, necessario unire alla gratuità l’accoglienza dell’altro: il dialogo non si sviluppa lì dove la dignità dell’altro non è rispettata e accolta. Il dialogo ha bisogno dello scambio, in cui il dare e il ricevere sono misurati dalla gratuità e dall’accoglienza di ciascuno dei due. La massificazione - che ignora l’originalità dell’altro - esclude ogni dialogo, e quindi ogni autentico atteggiamento di servizio.

 

Chi pensa di non aver bisogno degli altri resterà nella solitudine di una vita senza amore. Chi si mette alla scuola dell’altro e si fa servo per amore, offrendo se stesso in dono, costruisce legami di pace e fa crescere intorno a sé la comunione. Anche nel Dio tre volte santo il Padre è eterna gratuità e il Figlio eterna accoglienza: l’eterno Amato davanti all’eterno Amante ci insegna come anche il ricevere sia divino! Veramente la gratitudine di chi si lascia amare è essenziale all’amore, almeno quanto la gratuità che ne è la sorgente.

 

Il dialogo, infine, è autentico quando si presenta come un’esperienza liberante, aperta agli altri, inclusiva e mai esclusiva dei loro bisogni e delle loro inquietudini. L’incontro dei due deve rendere possibili altri incontri: esso proietta fuori del cerchio dello stare a guardarsi negli occhi, verso il vasto mondo della solidarietà.

 

Solo così nell’esperienza del dialogo l’accoglienza e il dono di sé all’altro non si oppongono fra di loro, ma sono in certo modo l’uno la forza e l’autenticità dell’altro: ciò che è donato e ricevuto nel dialogo fra i due, esige di essere ancora offerto in sempre nuovi itinerari di amore e di servizio. Dialogando, si sprigionano le energie nascoste dell’amore, e l’esistenza, lungi dal chiudersi in se stessa, si proietta fuori di sé, facendosi servizio e dono. Quest’apertura all’esterno non solo non mortifica la comunione di coloro che dialogano, ma la rende vera e gioiosa.

  

Oltre la fatica di amare

 

La fatica del servizio è la fatica stessa di amare: essa deve vincere la possessività, la chiusura egoistica e l’egoismo al plurale, che fa dei due un’isola. Perciò, la scuola del servizio è la scuola dell’amore: si comprende, allora, come si possa vivere un’esistenza piena servendo gli altri e dialogando con loro, solo se si riconosce di essere stati interpellati e amati per primi da un Altro. Come scrive sant’Agostino, “non c’è maggior invito ad amare, che prevenire nell’amore” (De catechizandis rudibus 4): così Dio ci ha insegnato ad amare!

 

La rivelazione del mistero trinitario di Dio, culminante nell’offerta della Croce, in cui il Figlio abbandonato ci “amò sino alla fine” (Giovanni 13,1), è per la fede dei cristiani il luogo dove è possibile accorgersi di essere stati amati per primi, avvolti nel dialogo della carità divina. La fede nel Dio amore si offre come il fondamento più sicuro di uno stile di vita plasmato dal servizio.

 

Dialogando con Dio e in Dio Trinità d’amore si risponde al primo Amore, nello Spirito che ci è stato donato, sull’esempio e in unione con Gesù. Dialogando con gli altri si testimonia loro di aver creduto all’amore: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13,35). Con il dialogo dell’amore, vissuto con Dio e al proprio interno, la comunità cristiana - in particolare quella familiare - diventa icona della Trinità, riflesso nel tempo del dialogo eterno d’amore delle tre persone divine.

 

Senza dialogo di adorazione e di intercessione con il Dio vivo e di sollecitudine e di amicizia verso la comunità degli uomini, la Chiesa non potrà annunciare credibilmente quanto le è stato rivelato e donato. Anche per questo Gesù ha dialogato col Padre, per insegnarci a dialogare con lui e fra noi, e insieme con tutti coloro cui ci ha inviati a portare la buona novella del suo amore infinito. Ce ne dà testimonianza il discorso di addio riportato nel Vangelo di Giovanni, che impegna i credenti in Cristo a costruire ponti di dialogo con Dio, fra di loro e con tutti, affinché il mondo creda. Eccone qualche passaggio:

 

“Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi… Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Giovanni 17,11.17-21).

 

15. LA VITA ETERNA

  

La morte è di casa nell’esistenza quotidiana. Bussa continuamente alla porta della vita. Dobbiamo tutti fare i conti con essa e con i suoi segni inquietanti. Oggi forse essa è presente ancora più abbondantemente di un tempo nella nostra vita, grazie alle comunicazioni e ai mezzi di informazione del villaggio globale. L’abbiamo però ridotta a spettacolo o a fatto privato, cercando di interpretarla perfino come segno di una debolezza che, presto o tardi, ci auguriamo di riuscire a eliminare o almeno ridurre.

 

Soprattutto abbiamo esorcizzato il suo pensiero. Della morte non si deve parlare. Chi lo fa, rompe una convenzione. Quasi ci convinciamo che parlare della morte porti male: meglio tacere, lasciar perdere o, al massimo, prenderne le distanze. Le informazioni relative a fatti di morte vanno dosate con notizie leggere e poco impegnative.

 

L’esperienza cristiana più autentica, però, ci chiede di essere attenti alla morte, per essere signori della nostra vita, secondo l’orizzonte globale che la fede ci offre. Solo dalla parte della morte possiamo, infatti, comprendere la nostra vita: quella che costruiamo a fatica nell’oggi e quella che si spalanca sulla nostra esistenza, come dono imprevedibile di un amore che vince anche la morte e ci immerge in una pienezza di vita al di là della vita.

  

La speranza ultima e quella penultima

 

La speranza è la “buona notizia” che il Vangelo ci consegna. Lo ha ricordato Papa Benedetto XVI nell’Enciclica Spe salvi: “Il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova” (n. 2).

 

La prospettiva che illumina la vita, anche nel duro confronto con la morte, è appunto la speranza dischiusa dalla resurrezione di Cristo. Non si tratta soltanto di un’aspettativa che nasce quando siamo costretti a misurarci con un limite che sembra invalicabile o quando avvertiamo la necessità di spalancare il presente verso orizzonti più rassicuranti. Nell’esperienza cristiana, la speranza è una dimensione irrinunciabile, fondata nell’incontro stesso col Signore Gesù: è lui risorto da morte a illuminare il presente e ad aprire il nostro sguardo verso un futuro affidabile e bello.

 

L’atto del morire, letto con gli occhi della speranza dell’incontro con Gesù risorto, si schiude a orizzonti che vanno oltre il limite della morte stessa: come il Cristo è passato dalla morte alla vita, così la morte, che egli ha fatto sua, viene rivelata come passaggio a una nuova condizione di esistenza, cammino pasquale verso il futuro aperto da lui, vincitore della morte. Il Nuovo Testamento concepisce questa vita, inaugurata con la morte, come un “essere con Cristo”, che suggellerà la sequela di lui vissuta in vita per vie misteriose, non evidenti agli occhi degli uomini.

 

La fede cristiana riconosce nella Pasqua l’atto col quale il Dio della vita ha vinto il potere della morte: “Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Romani 6,9). Sarà il Cristo a introdurci nella vita senza tramonto: il suo sguardo renderà la persona trasparente a se stessa, facendole assumere piena coscienza del modo in cui essa si è situata nella storia dell’amore. Il Cristo giudice non è, dunque, l’arbitro dispotico e accecato dall’ira di alcune rappresentazioni infelici, ma il volto della misericordia di Dio, che trapassa la coscienza personale e le dà il coraggio della verità su se stessa. Nell’incontro col Crocifisso risorto ritroviamo così l’esperienza più autentica della vita, il suo vero sigillo.

 

Il destino finale

 

Viene spontaneo chiederci che cosa capiterà a ciascuno di noi dopo la morte. Essa conclude l’avventura della vita o spalanca a trasformazioni del nostro esistere, imprevedibili con gli strumenti della nostra capacità riflessiva? I cristiani, quando si interrogano sull’esito della vita dopo la morte, si riferiscono a tre possibilità diverse: l’inferno, il paradiso, il purgatorio. Oggi ci sembra strano utilizzare queste espressioni, che suonano superate. Eppure dobbiamo riscoprirle nel loro significato autentico, per riempire di speranza e di responsabilità la nostra esistenza.

 

Il destino finale dell’uomo e della storia coincide con la carità infinita che ne è l’origine: Dio “vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1Timoteo 2,4). “Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 8,38-39). Ne consegue che l’inferno ci sarà solo per chi avrà voluto, in modo libero e consapevole, edificare la sua vita lontano da Dio.

 

L’inferno è la tristezza di non poter più amare, è il rimpianto infinito di non poter più vivere la gratitudine, senza la quale lo stesso dono è perduto. La possibilità dell’inferno è la stessa della nostra libertà: un Dio che ci ama e rispetta la nostra libertà non può salvarci senza una qualche partecipazione della nostra volontà. Diversamente, il suo amore sarebbe un’imposizione e un inganno!

 

Nella prospettiva della passione e morte di Gesù si trova una luce anche sul purgatorio: esso è la possibilità di una purificazione nella morte e oltre la morte, che ci consente di completare in noi ciò che manca alla piena assimilazione a Cristo e alla vita divina che lui ci ha offerto. Pregare per i defunti vuol dire aiutarli in questo cammino che l’amore del Dio di misericordia offre a chi non gli ha chiuso del tutto il cuore in vita, ma non è ancora stato reso perfetto per entrare nella bellezza dell’amore infinito della Trinità.

 

La Pasqua di Gesù ci aiuta infine a comprendere qualcosa della realtà del paradiso: il termine significa “giardino”, e trova il suo modello biblico nell’Eden dell’inizio. L’immagine, usata volentieri dai profeti, è ripresa da Gesù: “Oggi con me sarai nel paradiso” (Luca 23,43). Colui che ha cercato di vivere la propria vita nell’amore, partecipa dell’evento eterno dell’amore delle tre persone divine, lasciandosi amare dal Padre nell’accoglienza del Figlio, unito a lui nello Spirito Santo.

 

Il paradiso è dunque un’immagine per dire il compimento della nostra esistenza come relazione piena con Dio e con tutte le persone che abbiamo amato e che ci hanno amato. Sant’Agostino lo esprime in questo modo: “Là nessuno ci sarà nemico, là non perderemo mai nessun amico” (Discorso 256). Davvero l’annuncio cristiano del paradiso è bella notizia: ci aiuta a vivere con speranza e responsabilità la nostra vita, perché non siamo esseri viventi il cui orizzonte è la morte, ma esseri mortali il cui orizzonte è la vita. L’ultima parola non sarà della morte, ma della vita: il Dio della vita alla fine trionferà e introdurrà i redenti nello splendore della sua gloria senza fine.

 

Per l’approfondimento dei contenuti della Lettera:

 

- Catechismo della Chiesa Cattolica (1997).

- Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica (2005).

- Catechismi della Conferenza Episcopale Italiana, in particolare:

            * Venite e vedrete. Catechismo dei giovani (1997).

            * La verità vi farà liberi. Catechismo degli adulti (1995).

Inoltre, fra i libri di introduzione alla fede:

J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico (1968 -2005).

W. Kasper, Introduzione alla fede (1973).

K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede (1977).

H. Urs von Balthasar, Il credo. Meditazioni sul credo apostolico (1992).

N. Bussi, Il mistero cristiano. Breve introduzione allo studio e alla presentazione del cristianesimo (1992).

B. Forte, Piccola introduzione alla fede (1992).

 

INDICE

 

I - LE DOMANDE CHE CI UNISCONO

 

1. FELICITÀ E SOFFERENZA

2. AMORE E FALLIMENTI

3. LAVORO E FESTA

4. GIUSTIZIA E PACE

5. LA SFIDA DI DIO

  

II - LA SPERANZA CHE È IN NOI

 

6. GESÙ

7. IL CRISTO

8. DIO PADRE, FIGLIO E SPIRITO

9. LA CHIESA DI DIO

10. LA VITA SECONDO LO SPIRITO

  

III - COME INCONTRARE IL DIO DI GESÙ CRISTO

 

11. LA PREGHIERA

12. L’ASCOLTO DELLA PAROLA DI DIO

13. I SACRAMENTI, LUOGO DELL’INCONTRO CON CRISTO

14. IL SERVIZIO

15. LA VITA ETERNA

 

(fonte: sito di Toscana Oggi)

 

Lettera dell’Arcivescovo di Firenze alle famiglie - Pasqua 2009

 

Carissimi e carissime,

            vorrei dedicare l’annuale dialogo, in occasione della benedizione delle famiglia, a riflettere sul posto che la parola di Dio deve avere nelle nostre case. Mi spinge a farlo il fatto che nello scorso mese di ottobre il Papa ha riunito un’assemblea del Sinodo dei Vescovi su questo tema: “La parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”.

            Si potrebbe pensare che il problema non riguardi le famiglie, ma trovi la sua giusta collocazione nelle celebrazioni liturgiche nelle chiese o nelle riunioni di catechesi organizzate dalle parrocchie e negli itinerari formativi proposti da associazioni e movimenti cattolici. Un po’ di ragione c’è in queste affermazioni, perché il luogo proprio della proclamazione e dell’ascolto della parola di Dio, come vedremo, è la Chiesa. Ma non dobbiamo dimenticare che anche la famiglia è un’esperienza di Chiesa e quindi, come tale, un luogo in cui far risuonare la parola di Dio. Non si può infatti pensare che la famiglia sia una realtà di vita in cui realizzare la nostra fedeltà al vangelo di Gesù ed escludere da tale contesto la parola che mi annuncia questo vangelo.

            Ma, prima di continuare, è forse opportuno chiarire anzitutto cosa sia la parola di Dio di cui stiamo parlando.

 

Che cos’è la parola di Dio?

            Qualcuno la identica con la Bibbia, la Sacra Scrittura. Questo è vero, ma si tratta di una risposta non precisa o almeno incompleta. In realtà quando parliamo di parola di Dio ci riferiamo a una realtà complessa, che ha inizio nell’atto stesso con cui Dio si rivela. In questo primo senso, parola di Dio sono le parole e le azioni con cui Dio si è manifestato anzitutto ai padri del popolo di Israele, ai quali egli si lega in un vincolo di alleanza, poi a Mosé e a quanti con lui hanno condotto il popolo attraverso l’esodo dall’Egitto verso la terra promessa, dando allo stesso popolo una precisa identità grazie alla legge, quindi ai profeti che richiamavano al popolo la fedeltà all’alleanza con Dio e infine ai sapienti che riflettevano su come il riferimento a Dio illumina la vita nel suo significato più profondo e nei comportamenti quotidiani. Al culmine di questa storia di rivelazione si pone la venuta dello stesso Figlio di Dio che si fa uomo, parola di Dio fatta carne, che con la sua vita e soprattutto con la sua morte e risurrezione diventa rivelazione suprema di Dio e del suo amore per l’umanità. La rivelazione della parola divina continua poi nell’esperienza e nell’insegnamento degli apostoli, che Gesù invia nel modo per comunicare a tutti gli uomini il vangelo della salvezza.

            La parola di Dio come sua rivelazione lungo la storia non si concentra però nel solo momento in cui viene comunicata, ma costituisce da subito una tradizione, che la fa conoscere oltre la stretta cerchia di coloro che ne sono i primi destinatari, attraversando i luoghi e i tempi, di generazione in generazione. La rivelazione diventa tradizione, in cui la parola di Dio continua a risuonare per chi si dispone al suo ascolto e si realizza come parola per tutti. Questa catena di tradizione forma la fede del popolo ebraico prima e della Chiesa nascente poi. È questo un secondo significato della espressione parola di Dio, che non è meno importante del primo, perché fa sì che la parola detta o mostratasi una volta possa esserlo per sempre.

 

La Bibbia, la nostra storia

All’interno di questo cammino si sentì presto l’esigenza di fissare con sicurezza le tradizioni che si andavano assommando e a ciò venne in soccorso la scrittura. Dapprima in brevi narrazioni o raccolte di detti, poi in forma sempre più articolata in veri e propri libri, tanto nel popolo d’Israele quanto nella Chiesa dei primi tempi, si formarono raccolte di libri che andarono a costituire una Scrittura ritenuta sacra, perché accolta nella fede non solo come un’opera che certifica la parola di Dio tramandata ma che è portatrice di una sicura verità perché scritta per illuminazione dello stesso Spirito di Dio. La Scrittura viene così a porsi al centro stesso della tradizione e ne costituisce la testimonianza autentica e il nucleo fondante, cui far riferimento per dare certezza alla parola della fede. Si compilarono così i libri che narravano le origini del popolo d’Israele, all’interno delle origini della terra e dell’umanità, e le leggi che lo reggevano. Gli ebrei definiscono questi primi cinque libri “Legge”; nella tradizione cristiana si chiameranno “Pentateuco”, un termine di derivazione greca che equivale a “cinque rotoli (libri)”. A seguire vennero le narrazioni storiche sull’origine e gli sviluppi della monarchia in Israele e in Giuda e i libri che raccolgono le parole pronunciate dai profeti a nome di Dio, nel loro insieme denominati “Profeti”, che nella tradizione cristiana saranno suddivisi tra “Storici” e “Profeti”. Infine abbiamo la raccolta degli altri “Scritti”, in cui si ritrovano per lo più testi di saggezza e di preghiera; nella classificazione cristiana saranno chiamati “Sapienziali”. Tutti questi libri costituiscono la Bibbia degli ebrei, che la Chiesa ha ricevuto da Gesù e che venera come parola di Dio, costituendo per essa l’Antico o Primo Testamento. Nella comunità cristiana dei primi tempi ad esso si aggiunse ben presto un Nuovo Testamento, che comprende i “Vangeli”, dedicati alla narrazione della vicenda storica di Gesù di Nazaret, cui si affiancano gli “Atti degli Apostoli”, dove si parla dei primi passi dell’evangelizzazione. Vengono anche raccolte le “Lettere” dei primi apostoli, in particolare di Paolo, che illustrano problemi di dottrina e di vita cristiana. A chiudere il Nuovo Testamento si colloca un’interpretazione della storia alla luce della fede in Cristo che va sotto il nome di “Apocalisse”. Antico e Nuovo Testamento insieme formano la Bibbia, una parola anch’essa di derivazione greca che significa “i libri”, ma che poi passerà a significare “il Libro” per eccellenza, ovvero la Sacra Scrittura dei cristiani, là dove la parola di Dio si trova concentrata nella sua verità.

 

La Bibbia, nella Chiesa, per l’incontro con Cristo

Questo libro non vive da solo, bensì ci viene consegnato da una comunità credente che costituisce con la sua parola e la sua vita il contesto che ne illumina la corretta interpretazione. La Bibbia nasce dalla vita della Chiesa, ci è donata dalla Chiesa come parola di verità per l’uomo e, per essere compresa nel suo autentico messaggio, va letta nell’orizzonte della fede della Chiesa. E così l’espressione parola di Dio assume un ulteriore significato. La parola rivelata e trasmessa, codificata nel libro della Sacra Scrittura torna a vivere nel momento in cui l’annuncio che ne fa la Chiesa accade nella mia vita e mi interpella perché io possa rispondervi con la fede. Parola di Dio è dunque questa proclamazione che qui e ora entra nella mia esistenza come un fatto vitale e suscitatore di una vita nuova.

Ho voluto dilungarmi un poco in questa spiegazione, perché è importante non ridurre la proposta di accostarci alla parola di Dio soltanto alla lettura di un libro. Certo, è decisivo per noi prenderlo in mano questo libro, ma è altrettanto importante che quando ci mettiamo al suo ascolto non dimentichiamo mai che esso è il sedimentarsi di un’esperienza di fede che nasce dalla rivelazione stessa di Dio e che vive ed è comprensibile solo all’interno di una tradizione di cui è garante la fede della Chiesa, che è quindi anche l’orizzonte necessario in cui interpretarlo.

Soprattutto c’è sempre da ricordare che parola di Dio in senso pieno è la persona stessa del Figlio di Dio, per cui la nostra non è una religione del libro, come spesso si sente dire, ma la religione della persona: anzitutto del mistero dell’unico Dio in tre persone, poi di Gesù Cristo Dio e uomo nell’unità della sua persona, infine di ciascun uomo e donna riconosciuti nella loro dignità di persone create dal Padre. Per cui, oltre le pagine del libro della Bibbia, si pone il nostro incontro personale con la persona di Gesù, parola di Dio per noi. In questo incontro personale, nell’orizzonte della Chiesa, si fa presente la parola di Dio per la nostra vita.

 

La Bibbia, centro delle nostre famiglie

Ciò detto, vorrei esortarvi a fare della parola di Dio un riferimento costante della vostra famiglia. Se essa vuole essere una famiglia cristiana non può infatti fare a meno di orientare le sue scelte e i suoi progetti e comportamenti al disegno che Dio ha per l’umanità, per la famiglia, per ciascuno di noi. Ma per conoscere questo disegno dobbiamo metterci all’ascolto della sua parola e farne oggetto di assidua meditazione. Occorre anzitutto che la parola di Dio scritta non manchi materialmente nelle nostre case. Ogni famiglia deve avere la sua Bibbia. Ci sollecita a questo anche il fatto che proprio recentemente i vescovi italiani hanno approvato una nuova versione in italiano della Sacra Scrittura. La ascoltiamo nelle celebrazioni liturgiche e gli editori cattolici ne hanno fatto una pubblicazione a prezzo accessibile, con note introduttive ed esplicative essenziali. Molte case editrici poi, proprio in questi mesi, ne offrono una propria edizione, con specifici e più ricchi commenti. Anche questo fatto editoriale può essere una buona motivazione per dotare la nostra casa della Bibbia che ascoltiamo in chiesa.

Poi la Bibbia non basta averla: occorre leggerla, e leggerla bene. Questo non è sempre facile, perché i libri che compongono la Bibbia sono stati scritti in epoche lontane e quindi hanno riferimenti storici, culturali e letterari distanti dal nostro mondo. Un aiuto ci può venire dalle molte iniziative che in diocesi e nelle parrocchie vengono prese per aiutarci a introdurci nel linguaggio e nei contenuti biblici, né mancano strumenti di accompagnamento alla lettura. Se la Bibbia, come abbiamo visto, è nata all’interno di una comunità, è sbagliato pensare che si possa leggerla da soli, perché solo nella comunità essa potrà risplendere nel suo corretto e profondo significato. Questo vale soprattutto per il riferimento di fede, perché solo la fede della Chiesa aiuta a collocare le pagine della Bibbia nel loro proprio contesto di senso. Un modo concreto per dare spazio a questa esigenza è accostare alle pagine della Bibbia quelle dei testi di catechesi che la Chiesa ci offre, penso in particolare al Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica e ai catechismi per le diverse età pubblicati dai vescovi italiani, dalla CEI. Non bastano ovviamente i testi, occorre che alla lettura della Bibbia si accompagni un inserimento sempre più deciso nella vita della comunità. Le famiglie cristiane non possono vivere da sole: devono essere parte viva delle comunità parrocchiali e della diocesi.

 

Qualche proposta per leggere la Bibbia in famiglia

Come concretamente si può tradurre questo intento di rendere più presente la Bibbia nella vita della famiglia? Mi chiedo se non sia possibile per una famiglia programmare al suo interno una lettura continua di un libro biblico, ad esempio di un vangelo o del libro che ogni anno viene proposto negli itinerari catechistici della diocesi, da suddividere in piccoli brani da proclamare e insieme meditare ogni sera, prima o dopo cena, magari togliendo qualche minuto a un inutile se non dannoso programma televisivo. Oppure se non ci si possa preparare alla liturgia domenicale, leggendo il sabato in famiglia le letture, o anche solo il vangelo, che verranno proclamate l’indomani in chiesa; viceversa si potrebbero riprendere nella serata della domenica le letture ascoltate, illustrate dall’omelia, nella messa del mattino. Sono solo due esempi, cui non sarà impossibile aggiungere altri modelli secondo la creatività di ciascuno.

Importante è però che la parola di Dio non resti ai margini della nostra vita. Ne va della formazione della nostra fede e della illuminazione della nostra coscienza in tempi non facili per l’identità cristiana. Assediati da mille voci suadenti non possiamo tenere ai margini l’unica Parola che ci parla secondo verità e senza alcun altro interesse se non la nostra autentica libertà e felicità. Sono certo che non mancherete di raccogliere questo invito e di rispondervi con intelligenza e generosità. Vi accompagno con il mio incoraggiamento e la mia benedizione.

 

Firenze, 6 gennaio 2009 Solennità dell’Epifania del Signore

      Giuseppe Betori

 Arcivescovo di Firenze

 

sabato 29 novembre 2008 - Veglia di Avvento - (Gs.1,1-9; Is.43, 1-5; Mt.28, 16-20) -  Omelia di Mons. Giuseppe Betori - Arcivescovo di Firenze - cattedrale di S.Maria del Fiore

 

    1. «Non aver paura e non spaventarti»: l’esortazione del Signore a Giosuè, che conclude la prima lettura della nostra veglia, suona ai nostri orecchi con prepotente attualità. Poche volte nella storia l’umanità si è trovata come oggi preda di paure e spaventi, che ne minacciano l’esistenza. I molteplici attentati all’ambiente ci inducono a chiederci se ci sia un domani per la nostra terra o se invece giorno dopo giorno un insensato sfruttamento non stia consumando l’habitat umano delle future generazioni. Non meno angosciante è lo scenario della convivenza degli uomini e delle nazioni, afflitta dal flagello inestirpabile di mille guerre e ora di sempre più terrificanti attentati terroristici, ma anche dalla condanna endemica di interi popoli alla fame e al sottosviluppo o, meglio, all’ingiusto defraudamento delle risorse e agli squassati esiti dei tribalismi e della corruzione.

    Il dominio della paura entra ancor più profondamente nelle nostre fibre, sconvolgendo non solo la convivenza tra gli uomini ma lo stesso futuro della persona umana, minacciata dagli inquietanti scenari aperti dalle crescenti potenzialità tecnologiche, cui non si accompagna però un’adeguata crescita etica che ne permetta il controllo in senso umano. Chimere e mostri, che appartenevano un tempo al regno delle favole e degli horror, sono diventate oggi possibilità cui l’umanità non appare più capace di opporre un divieto, presa quasi dall’ebbrezza delle proprie capacità produttive. Negato il Creatore c’è ormai spazio per ogni Frankenstein pronto a generare mostri orripilanti. Ma non è solo la tecnica senza etica a minacciare l’uomo: al suo interno il tarlo del nichilismo lo sta distruggendo nell’identità e il fascino di una libertà senza riferimenti lo porta ad approdare alle esperienze più abbrutenti.

    Sotto la minaccia di incombenti catastrofi e di laceranti disgregazioni, sotto l’influsso di mille pulsioni e l’inaridimento in orizzonti sempre più corti, l’uomo contemporaneo si trova preda di innumerevoli paure e angosce, da cui da solo non può liberarsi. “Solo un Dio ci può salvare”, aveva detto il filosofo, ma il suo alter ego gli aveva risposto: “Dio è morto”. E se davvero Dio è morto nella coscienza dell’uomo contemporaneo, allora non c’è più spazio se non per la disperazione, cosicché l’uomo che ha voluto eliminare Dio dalla sua coscienza e dalla società, come un fastidioso concorrente della sua libertà, non si ritrova più libero, ma al contrario sconta la perdita di senso complessivo della sua vita. Non sembri questo un quadro a tinte troppo fosche; esso è semplicemente il frutto di un realismo che non vuole nascondere alla nostra coscienza la tragicità dell’ora presente, perché mai come ora nel passato si è sperimentato il grido dell’angoscia e al tempo stesso della invocazione.

    2. Questa angoscia e invocazione non resta senza risposta. È la risposta consolante della fede, che emerge con tutta evidenza nel tempo dell’Avvento che appena iniziamo e che possiamo esprimere con le parole del testo biblico: «Il Signore, tuo Dio, è con te dovunque tu vada». All’angoscia dell’uomo contemporaneo può rispondere solo un’apertura di credito alla speranza, che dia fiducia e coraggio. Ma la sapienza popolare vede il giusto quando afferma che il coraggio uno non può darselo da solo. Occorre un intervento dall’esterno che permetta all’uomo ciò che umanamente appare a lui impossibile. E la fede ci dice che l’impossibile dell’uomo è possibile per Dio. Non perché Dio ci sradichi dalla nostra umanità, ma perché egli stesso viene ad accompagnarci e sostenerci nella nostra umanità. Credere non significa dunque essere costretti a dislocarci da questo mondo e a dismettere la nostra identità, ma al contrario riuscire a cogliere nella nostra stessa storia quel significato ulteriore che le proietta una luce di redenzione e di speranza, incamminandola verso la salvezza.

    Questo è possibile perché Dio si è fatto uno di noi, immettendo nella storia umana un principio di trascendimento che la risana da ogni limite e contraddizione. Questo principio non è un’idea o un progetto, ma una persona, il Figlio stesso di Dio fatto uomo. In Gesù di Nazareth, l’Emmanuele, prende forma definitiva la volontà divina di essere un Dio-con-noi, secondo la promessa fatta a Giosuè. E questa presenza storica non è stata delimitata negli anni della permanenza di Gesù sul suolo della Palestina, dalla sua incarnazione alla sua morte in croce, ma si perpetua nel tempo in quella missione della Chiesa di cui ci ha parlato la pagina del vangelo di Matteo come una precisa volontà del Signore. Egli fa della Chiesa il suo nuovo corpo storico nei secoli che ci separano dal suo ritorno alla fine dei tempi e manifesta il suo potere salvifico mediante l’azione che essa compie nell’annuncio della Parola, nella celebrazione della grazia sacramentale, nei gesti di carità verso i poveri e i bisognosi.

    È questa una presenza al tempo stesso misteriosa e visibile, perché unisce la inafferrabilità dello Spirito di Cristo che opera nella storia con la manifestazione umana di un popolo articolato nella sua organica composizione per dare forma storica a Parola, sacramento e testimonianza della carità. Per questo fare esperienza della presenza di Cristo accanto a noi significa al tempo stesso scendere nel profondo della nostra interiorità, dove il nostro spirito si lascia illuminare dal suo Spirito, ma anche mettersi all’ascolto dell’insegnamento della Chiesa, partecipare alla sua vita liturgica, condividere nella comunione il suo servizio ai poveri. In tale visione interiorità e pubblicità della fede non si contrappongono ma si presuppongono l’un l’altra.

 

    3. Abbiamo meditato su questa presenza di Cristo nella nostra vita con la provvida iniziativa degli “Esercizi spirituali nel quotidiano” e ora siamo invitati a continuare in questo spirito di raccoglimento e preghiera in tutto l’Avvento, seguendo le orme del profeta Elia, il grande difensore dell’unicità di Dio e colui che più di ogni altro profeta ne ha sperimentato la presenza consolante che va persino oltre le parole e si avvolge di silenzio. Invito tutti a valorizzare gli strumenti che vengono offerti dalla comunità diocesana per favorire il nostro dialogo interiore con il Signore, così da fare di questo tempo di preparazione al Natale un cammino di apertura al Signore che viene: nella memoria della sua venuta storica di duemila anni fa, nella consapevolezza della sua venuta ogni giorno nel segno sacramentale e nel volto dei fratelli, nell’attesa del nostro incontro definitivo con lui come aspirazione ultima della nostra vita e della storia umana.

 

    Pari attenzione mi permetto di richiamare su un altro impegno che come comunità diocesana ci assumiamo in questo Avvento e che va sotto il titolo di “Illumina il tuo Natale con la luce della solidarietà”. La candela che ci viene offerta questa sera dalla Caritas e che porremo sulla nostra tavola per essere accesa il giorno di Natale, come segno di Gesù luce del mondo, vuole richiamarci alla necessità che la nostra stessa vita diventi luce per gli altri, attraverso i gesti di solidarietà più opportuni, che rendano il prossimo Natale un giorno di gioia e di luce anche per i più poveri e soli. Potremo allora benedire quel giorno la nostra mensa con la consapevolezza che essa si è in qualche modo aperta alle necessità di tutti e nessuno ne è restato escluso a causa del nostro egoismo.

     Le due attenzioni, di preghiera e di solidarietà, che vi ho ora ricordato, non vogliono e non possono peraltro essere dei gesti puramente esteriori. Essi vanno motivati ogni giorno da una precisa convinzione di fede. Quella fede che è ancorata alla persona storica di Cristo, il Dio-con-noi, e alla sua promessa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Tutti i giorni e in ogni singolo atto della nostra giornata, per cui nulla nostra vita è estraneo a Cristo, ma al contrario solo in lui prende pieno significato e orientamento. Dio non ci lascia soli: “Il Signore ti custodirà, quando esci e quando entri”. Non sono queste parole tranquillizzanti, ma l’espressione della consapevolezza che la realtà ha una dimensione che va oltre il dato fenomenico, che tutto non è riducibile a materia. E, in questa sfera profonda del senso, Dio è il Signore e noi troviamo in lui la vera libertà e un progetto conforme alle nostre più segrete aspirazioni. Amen.

 

Domenica 9 novembre 2008 - Festa della Dedicazione della Cattedrale - Ammissione dei candidati all'Ordine sacro - Giornata del Seminario - (Is.60, 1-6; 1Cor.12, 12-31; Gv.21, 15.-19) - Omelia di Mons. Giuseppe Betori - Arcivescovo di Firenze - cattedrale di S.Maria del Fiore

Le letture proclamate oggi nella festa della Dedicazione di questa Cattedrale invitano a fare subito il passaggio dalla chiesa edificio, fatto di pietre, alla Chiesa popolo, fatto di uomini e di donne. Fare memoria della dedicazione della Chiesa madre della diocesi sollecita quindi a meditare il mistero della Chiesa, quel mistero che ha la sua più alta manifestazione nell’azione liturgica che si attua sotto la presidenza del vescovo tra le mura di questo tempio, edificato dai nostri padri come espressione della loro fede. L’asse verticale che unisce il centro di questo spazio sacro, cioè l’altare, collega il mistero che qui celebriamo con quella dimensione celeste che nella luce della lanterna della cupola esprime l’identità stessa di Dio. E della luce ha parlato anzitutto il testo tratto dalla terza parte del libro di Isaia. La promessa della salvezza per il popolo prende la forma della irradiazione della luce che Dio è sulle mura di Gerusalemme, così che questa si riveste dello splendore divino e diventa faro di attrazione per tutti i popoli. Sta qui un primo elemento di identità della Chiesa su cui occorre meditare e al quale occorre convertirsi.

La Chiesa non risplende di luce propria, non ha in sé una propria originaria energia che le permetta di espandere il proprio fulgore all’intorno. Tutta la sua luminosità è solo un riflesso che su di lei si posa partendo dalla fonte di ogni luce, che è Dio. Solo alimentandosi a questa fonte la Chiesa può aspirare a diventare significativa per il mondo. Cercare Dio, attingere dall’incontro con Lui, porre Dio come l’unico ed essenziale scopo del proprio essere ed agire costituisce un dovere insopprimibile per la Chiesa e per i credenti. Non ci stancheremo mai di ricordare a noi stessi e al mondo questo primato di Dio, che solo dà la giusta misura a noi stessi e alle cose all’intorno.

Se Dio è la sorgente della luce, e quindi della verità e dell’amore, è però anche vero che la Gerusalemme-Chiesa è a sua volta un polo di luce, sia pure riflessa, per il mondo. Non ci inorgoglisce questo, proprio perché si tratta non di luce propria ma riflessa, ma ci responsabilizza. Non possiamo rinunciare come Chiesa e come credenti al compito di illuminare le tenebre del mondo, comunicando verità e amore che permettano all’uomo di riconoscere se stesso e di valutare secondo verità e amore scelte e comportamenti. Ci sono momenti  – e nel nostro tempo sembrano moltiplicarsi – in cui questa funzione di illuminazione nella verità secondo carità paga un prezzo alto, di emarginazione, di irrisione, di condanna sociale. L’ostilità non può scoraggiarci, al contrario dovrebbe ulteriormente motivarci a una testimonianza, che proprio perché osteggiata è più che mai urgente.

La parola del profeta, peraltro, ci incoraggia, con l’immagine delle moltitudini che da tutti i popoli si avviano verso la città di Dio. Nessuno appare escluso e la promessa che ci è affidata parla di frutti senza limiti. Sta anche a noi non porre barriere e sentire che la missione ci coinvolge verso tutti, senza distinzioni, con il coraggio e la franchezza dei primi apostoli.

E così veniamo alla pagina evangelica, con la figura di Pietro nel suo rapporto con il Signore e nel suo specifico ministero di “roccia” nella Chiesa. Ma proprio la funzione pastorale che Gesù affida in prima persona a Pietro, come saldo fondamento dell’intera compagine ecclesiale, è però anche  compito in senso lato di tutta la Chiesa, nella diversità dei ruoli affidati a ciascuno. La vicenda di Pietro ci ricorda che tale compito non scaturisce da nostre risorse umane, che ci inclinerebbero alla diserzione se non al tradimento, ma è puro dono che viene dall’alto. Così che Pietro, che deve superare il triplice rinnegamento, sa che non può più affermare da sé il proprio amore a Gesù, ma chiede che sia lui, Gesù che glielo ha donato a riconoscerlo.

Soprattutto, Pietro scopre che l’amore verso Gesù è un amore esigente: implica di condividere l’amore stesso del Signore, in una sequela che non esclude la croce. Anche questo è essere Chiesa: un gregge che sta unito al suo pastore, l’unico pastore che è Cristo, di cui i pastori umani sono segno, anche quando i passi di Cristo portano verso l’annientamento per la salvezza dei fratelli. È la logica della spoliazione di sé, per cui la Chiesa non segue le regole di successo di questo mondo, ma afferma se stessa, meglio afferma Cristo, nel momento in cui si fa serva e si china sulle ferite degli uomini, specie dei più poveri. Quel che è chiesto è un servizio totale, in cui non si afferma una propria volontà, ma solo quella del Signore.

Si tratta poi di un servizio che assume più volti, perché nella Chiesa varie sono le funzioni perché molteplici sono di doni dello Spirito. L’immagine del corpo che si articola nella diversità delle membra, come abbiamo ascoltato nella seconda lettura, serve a san Paolo per ricordarci come nessuno può pretendere di esaurire da solo la ricchezza dei doni di Dio, ma soltanto dal comporre le diverse identità nasce la compiutezza di un organismo capace di agire con efficacia nella storia. Nessuno può sentirsi marginale nella Chiesa, proprio perché portatore di un dono specifico a vantaggio di tutti. Alla diversità dei compiti corrisponde pertanto la complementarità dei membri dell’unico corpo ecclesiale. Scoprire quale sia la chiamata e il dono di Dio per me, costituisce un passaggio imprescindibile del mio essere Chiesa, come individuo, ma anche come articolazione: comunità parrocchiale, istituto di vita consacrata, aggregazione laicale.

Il testo paolino si chiude però nell’attirare l’attenzione su alcuni servizi che nella Chiesa che hanno un peso particolare per la sua esistenza, in quanto in vario modo sono legati alla trasmissione della tradizione, alla garanzia dell’insegnamento della fede, alla cura del governo della comunità, con i suoi risvolti di presa in carico delle fragilità umane e di espressione della lode e del dialogo con Dio. Paolo menziona apostoli, profeti e maestri, cui fa seguire le funzioni dell’operare miracoli e guarigioni e di parlare lingue. Sono mansioni che, nei secoli seguenti e fino ad oggi, si ritrovano riassunte nel ministero dei presbiteri, al cui cammino di preparazione oggi ammettiamo sette giovani del nostro Seminario.

Ne ringraziamo anzitutto il Signore, che li ha chiamati e continua quindi a fornire alla nostra comunità diocesana questo indispensabile ministero. Ma vogliamo ringraziare anche loro – Alessandro, Andrea, Antonio, Davide, Gianni, Leonardo e Rolando –; li ringraziamo per la disponibilità con cui hanno accolto la chiamata del Signore e hanno accettato di verificarla secondo le modalità indicate dalla Chiesa. Vogliamo esortarli a continuare con generosità e impegno il cammino di discernimento e formazione in cui si sono avviati, avendo cura di ricordare sempre che ciò che è loro chiesto non è primariamente l’acquisizione di abilità operative in ordine a compiti pastorali, ma più profondamente di conformarsi a Cristo, di cui dovranno un giorno essere segno per i fratelli, come pastori in mezzo al suo popolo, riconoscendo che solo nel volto di Cristo è possibile cogliere i lineamenti di quel Dio alla cui conoscenza aspira ogni cuore umano, il loro e quello della gente che un giorno sarà loro affidata. Vogliamo rassicurarli che non li lasceremo soli in questo cammino, non solo perché accanto a loro si pone una comunità di formatori a cui confermiamo oggi fiducia e gratitudine, ma perché tutto il popolo cristiano a Firenze li sorregge con la preghiera e l’affetto.

È questo anche il senso della Giornata del Seminario che oggi pure celebriamo, una giornata per ricordare a tutti quanto a cuore di tutti deve essere il luogo di formazione dei nostri futuri pastori, e quindi con il sostegno di tutti, materiale e spirituale, esso deve poter operare, con serenità e fiducia.

 

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